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STORIA & SPORT


N. 29 - Maggio 2010 (LX)

zorkana
lo sport degli eroi

di Simone Valtieri

 

Varzeš-eb Pahlavānī, letteralmente “lo sport degli eroi”, ma anche Varzeš-e Bāstnī, “lo sport degli antichi”. Sono questi i due nomi con cui in Iran viene chiamata la più antica forma di sport atletico dell’intero territorio persiano. Nel mondo occidentale tale disciplina è conosciuta come Zurkhaneh o Zoor Khane, Zorkana in Italia, termini derivanti dal nome del ginnasio in cui veniva tradizionalmente praticata.

Più che una palestra, lo Zurkhaneh, la “casa della forza”, era inizialmente una sorta di rifugio. Già all’epoca dei Medi (VII-VI secolo a.C.) sul territorio persiano si sono ripetute numerose invasioni a partire da quella degli Achemenidi avvenuta attorno al 500 a.C., in quel periodo i patrioti potevano addestrarsi alla battaglia solo clandestinamente in luoghi nascosti e spesso interrati. Tali luoghi venivano utilizzati dai nativi oltre che per praticarvi attività fisiche e di formazione, anche per tenere riunioni ed assemblee. Per questo motivo venivano continuamente ricercate e distrutte dall’invasore di turno ma sempre ostinatamente ricostruite dai persiani.

Da questi spazi, spesso angusti, deriva quella che è oggi letteralmente la “zorkana”, ossia una sala coperta illuminata da un foro sul soffitto, sotto la quale è posizionata l’area di combattimento. Il gaud è una buca di diametro variabile dai 10 ai 20 metri scavata nella terra, profonda circa un metro, di forma ottagonale o rotonda, circondata da settori circolari riservati a pubblico, atleti e musicisti. Su di una piattaforma rialzata chiamata sardam e posta vicino all’entrata, sta il morshed, a cui spetta il compito di presenziare alla competizione, di dirigere gli esercizi e di ritmarli con l’aiuto di canti epici e percussioni. Gli strumenti a sua disposizione sono il tombak, un tradizionale tamburo persiano e lo zang, una campana che sancisce l’inizio e la fine di ogni esercizio.

Secondo tradizione la disciplina veniva praticata all’alba, mentre nel corrispettivo odierno le gare si disputano piuttosto al tramonto. Ogni seduta è preceduta e conclusa da una preghiera (Niāyesh) con riferimenti alla gloria del paese, alla salute ed alla felicità dei regnanti, alla lealtà dei praticanti, alla grazia di Dio e con auspici di miglioramento per se e per la collettività. I Pahlevān si cimentano, ora come allora, in sette diverse specialità. Dopo la preghiera inizia il riscaldamento, il cosiddetto Pā Zadan, che consiste nell’effettuare movimenti armonici di braccia e gambe allo scopo di migliorare la forza e le funzioni respiratorie.

Il primo esercizio è il Sang gereftan nel quale gli atleti, sdraiati sul dorso, devono sollevare due scudi (sang) il cui peso varia a seconda dell’età tra i 20 ed i 40 chilogrammi. Eseguendo gesti alternati e senza mai far toccare a terra gli scudi, i più esperti riescono in media a ripetere i movimenti una settantina di volte in sette minuti. Gli atleti maggiormente performanti arrivano a più di 100-110 sollevamenti, sempre accompagnati dal canto di poemi epici da parte del morshed. Lo scopo dell’esercizio è quello di sviluppare i muscoli dal tronco in su (deltoidi, pettorali, tricipiti, trapezoidali, muscoli del collo ed addominali). Il programma prevede successivamente l’esecuzione dello Shena raftan, parente stretto delle flessioni, da eseguire in cerchio su barre di misura variabile tra i 50 ed i 70 centimetri. Questa tipologia viene eseguita, a differenza della precedente, con l’accompagnamento delle percussioni del tombak.

Dopo una seconda fase defaticante di Pā Zadan si passa al Mīl gereftan, una sorta di ritmico sollevamento pesi. Ideato per abituare i militari a maneggiare armi pesanti, è praticato con due oggetti di eguale dimensione e massa, i Mīl, composti da un’estremità rigida e da un peso posto all’altra estremità di forma troncoconica. Partendo da una posizione a braccia tese davanti al petto e col peso, che varia dai 2 ai 50 chilogrammi, rivolto verso l’alto, l’esercizio consiste nel portare alternativamente dietro le proprie spalle i due pesi riportandoli poi nella posizione iniziale. Gli atleti più abili e forzuti riescono a completare tecniche complesse muovendo i Mīl come esperti giocolieri. L’esercizio successivo è il Charkh zadan. Simile ad un ballo, consiste nel fare la ruota alla maniera dei darwīsh (dervisci), discepoli asceti di una particolare turuq islamica (confraternita) che si prodigano in danze roteanti o turbinanti al fine di raggiungere l’estasi mistica. Dal più giovane al più anziano, i Pahlevān iniziano l’esercizio con le spalle al muro, portandosi a turno al centro e roteando sempre più velocemente sul proprio asse seguendo il ritmo delle percussioni e la voce del morshed. Il fine dell’esercizio è quello di migliorare l’equilibrio e la coordinazione motoria.

Si passa poi al Kabbadeh zadan, una prova estremamente tecnica in cui viene utilizzato un arco che al posto della corda tesa presenta una catena, il kabbadeh appunto, pesante dai 7 ai 16 chilogrammi. Impugnando la parte rigida con la mano destra e la catena con la sinistra, il Pahlavān deve essere abile nel far roteare l’attrezzo sopra la propria testa al ritmo delle percussioni e della voce del morshed. L’ultima disciplina del Varzeš-e Pahlavānī è anche quella più antica: il koshti gerefan, la lotta a mani nude nella quale ci si confronta due a due al centro del gaud. Le tecniche utilizzate sono svariate (se ne contano più di duecento) e si dividono prevalentemente in offensive, difensive e di contrattacco. Gli stili più comuni a noi pervenuti sono il tradizionale, quello curdo, il turkmeno e il gilaki.

Ma a quando risale la pratica di questa forma mista di lotta e ginnastica e perché viene ricordata come lo “sport degli eroi”? Le origini della disciplina vera e propria vanno fatte risalire al III secolo a.C., durante l’epoca dei Parti (Pahlavān per designare l’eroe è infatti un vocabolo di quei tempi). Le radici della lotta affondano nella longeva tradizione persiana per la cultura fisica, testimoniata anche da Erodoto e tramandata di generazione in generazione per le sue valenze salutari e formative. Un significato estrinseco a quello puramente sportivo viene assunto dal Varzeš-e Pahlavānī soprattutto in epoca islamica, dopo l’invasione dei Safravidi nel XVI secolo d.C. e l’adozione dello sciismo come religione ufficiale, quando agli elementi tecnici di ginnastica e lotta si mescolano anche quelli della cultura spirituale del sufismo. I Pahlavān debbono infatti essere combattenti puri, sinceri e temperati prima ancora che prestanti fisicamente e sono chiamati a seguire un codice di condotta denominato javānmardi. Riassume bene il concetto una frase che viene ritualmente recitata prima di ogni incontro: “Impara la modestia se vuoi la conoscenza. Un altopiano non potrà mai essere irrigato da un fiume”.

L’eroismo della lotta nella concezione persiana deriva invece dai racconti dei miti narrati da uno dei padri della letteratura, Hakīm Abol-Ghāsem Ferdowsī Tūsī, noto in occidente come Ferdowsi o Firdusi. Nella sua celebre opera Shâh Nâmâ  (il libro dei re), Firdusi parla di atleti valorosi che respingevano le forze del male e dai quali dipendevano, il più delle volte, le sorti di una intera nazione o di una guerra. Il mito per eccellenza è l’eroe Rostam, abile soprattutto nel combattimento a mani nude e più volte ritratto come salvatore della patria.

Nel XIX secolo, durante la dinastia Cagiara (Qajar), il Varzeš-e Pahlavānī arriva al culmine della popolarità con la proliferazione di zorkane in tutto il paese. Sotto il governo dello scià Nasserredin (1848-1896) vennero istituiti costumi e rituali precisi per designare i più abili Pahlavān. Ogni 21 marzo, in occasione delle festività per l’ingresso del nuovo anno del calendario persiano (Norouz), venivano scelti i migliori lottatori in una celebrazione pubblica alla presenza dello Scià. Lo stesso aveva il ruolo di cerimoniere nel premiare il più valoroso, investendolo del titolo di eroe nazionale per tutto l’anno entrante e consegnandogli un bracciale, il Bazou band, come simbolo di vittoria.

Il declino della disciplina si ebbe in corrispondenza con l’ascesa della dinastia Pahlavi. L’ufficiale dell’esercito e capostipite Reza Kahn, denominatosi Pahlavi in seguito al colpo di stato del 1921 con cui pose fine alla dinastia Qajar, aveva in mente un Iran più occidentalizzato e meno legato alle tradizioni del passato. Il Varzeš-e Pahlavānī venne così messo da parte fino all’ascesa al trono del figlio Mohammad Reza Pahlavi, sotto il quale la nobile disciplina avrà il suo canto del cigno. Tra i valorosi combattenti del XIX e del XX secolo si ricordano Pahlavan-e Bozorg Razaz, Pahlavan Boloorforoush, Pahlavan Toosi e soprattutto Jahan Pahlavan Takhti che assunse dimensione internazionale vincendo a Melbourne nel 1956 l’oro olimpico nella categoria +87kg di lotta libera. Già negli anni successivi, con la nomina del contestato Shaban Jafari alla testa della federazione nazionale di lotta, si verificò un sensibile calo di interesse nella disciplina, ribattezzata Varzeš-e Bāstnī (“lo sport degli antichi”), da imputare anche al crescere di altre e più moderne forme di sport.

Nel 2004 a Teheran è stata fondata, su iniziativa del comitato olimpico e paralimpico iraniano, la International Zurkhaneh Sports Federation (IZSF), organizzazione a livello globale che conta oggi 52 paesi affiliati dai cinque continenti e che si propone di esportare in tutto il mondo l’arte guerriera e la cultura intrinseca alla antichissima disciplina.



 

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