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N. 34 - Ottobre 2010 (LXV)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XViiI - benvenuti in cina

di Gianrigo Marletta

 

Con la premessa di non potermi lontanamente permettere di parlare di Cina, essendo le sue dimensioni sia geografiche sia demografiche troppo grandi da essere elaborata in poche pagine, mi limiterò a raccontare la mia brevissima visita, le mie esperienze e le emozioni suscitatemi da essa.

Stanza 603. Kun Ming, Cina. Notte tra l’11 ed il 12 Giugno del 2008
Sono appena meno di quattro ore che siamo qui e già lo scontro (contro il muro linguistico e sociale) è stato feroce. Scesi dall’aereo e dopo una fila non troppo lunga è venuto il nostro turno al controllo passaporti. Il visto lo avevamo fatto a Bangkok, tutto era regolare. La mia poliziotta dell’immigrazione però si è presto insospettita nel vedere tutti quei visti e timbri nel mio passaporto e soprattutto non le convincevano i quattro della Cambogia.

“Vivi in Cambogia?” – No, ho vissuto lì per soli quattro mesi, un anno fa. Con la coda dell’occhio osservavo Jennifer che come me rimaneva in piedi davanti allo sportello, il tempo per il normale controllo era già passato ed ora notavo le persone passarci avanti finché ad un tratto non ci era rimasto più nessuno.

Nello stanzone diviso in sportelli e transenne messe a serpentone per incanalare la fila, eravamo rimasti solo io e lei.

“Prego accomodatevi” -ci invitò un poliziotto indicando delle sedie nello stesso stanzone.

Iniziavo a preoccuparmi. I nostri passaporti erano spariti, di mano in mano, chissà dove. Degli altri agenti, poco più lontani, si erano avvicinati ad un computer.

“Dici che cercheranno su Google?” - mi chiese Jennifer sussurrandomi nell’orecchio.

Era una possibilità. Oggigiorno per conoscere l’identità di qualcuno non servono più cervelloni cibernetici o 007 satellitari. Basta inserire un nome nella barra di un qualsiasi motore di ricerca ed ecco che appaiono tutte le attività, in qualche maniera registrate, sponsorizzate o pubblicate, di una persona.

Io con i miei tre siti web di cui uno spudoratamente pro-tibetano e “anti-cinese” non ero affatto difficile da identificare.

“Prego seguitemi”. Finalmente attraversammo la fila degli sportelli e ci incamminammo verso il rullo dei bagagli.

“È fatta!”.

Neanche il tempo di finire l’esclamazione che svoltammo tutti a sinistra, in una stanzetta bianca con due divanetti, un televisore e due zanzare libere e ronzanti.

“Accomodatevi!”

Ero diventato molto nervoso. Non era più un normale controllo più specifico, qui ci stavano mettendo comodi. Quella domanda - “dici che cercheranno su Google?”- Beh se cercheranno, troveranno poco e niente in inglese. Solo un banner per il boicottaggio delle olimpiadi del 2008 a Beijin.

Tutti gli articoli che ho scritto sono in italiano. Forse troveranno che non sono un turista come ho affermato nella domanda per il visto e ripetuto nel modulo d’entrata.

Vedranno che siamo i creatori di un’organizzazione chiamata Vagabond Reporters International, e quella parola reporters li farà certamente imbestialire.

Ma pure se scoprono che siamo reporter, cosa ci possono fare? Al massimo ci rispediranno da dove siamo venuti. Eppure ero nervoso.

Tutte quelle divise verdi, la mia idea di questo paese, i miei sentito dire, le avvertenze, la dittatura, la stanzetta bianca. Avevo paura persino di schiacciare quelle due zanzare che mi ronzavano continuamente intorno. Loro non le uccidono, figuriamoci se lo faccio io!

Erano sorridenti però, tutti rispondevano ai miei sorrisi. Era l’unica cosa che potessi fare, sorridere.

Sorridere per nascondere la paura, sorridere per dimostrare di non aver nulla da nascondere, sorridere perché è questo che si fa in situazioni in cui non si ha il controllo su nulla.

A un tratto nella stanzetta bianca entrò un uomo dalla voce grave. Lui non sorrideva. Sulle mostrine aveva una stella in più degli altri, era un capo. M’indicò e poi se ne andò.

“Seguimi!”- mi invitava il giovanotto che per tutto il tempo era seduto accanto a me su uno dei due divani.

“Prendi i tuoi bagagli”. Erano rimasti ancora sul nastro, che già da un’ora non girava più.

Ecco, sanno di me! Hanno visto il mio sito, quello del banner anti-olimpiadi. Mi metteranno sul prossimo aereo che come minimo partirà domani mattina (erano le undici di sera).

“Senta” - ho azzardato- “io non vado da nessuna parte senza di lei”- indicando la stanzetta bianca dove rimaneva Jennifer.

Non mi arrivò risposta. Mi condussero in un’altra stanza, anch’essa bianca. In questa vi erano sei o sette poltrone letto, alla vista molto più comode dei due divani dell’altra stanza. Ero convinto che li avrei passato la notte aspettando il famoso volo di domani mattina.

“Dobbiamo controllare i tuoi bagagli e perquisirti il corpo”.

Che sollievo! Un sollievo doppio. Da un lato perché mi avevano portato lì non per farmici dormire ma per perquisirmi e dall’altro perché non ero più sospettato come reporter anti-governo-cinese quale ero ma per un trafficante di droga o di qualcosa di illecito il quale non ero.

Aprivo tutto con cura, accertandomi che vedessero. Ero disposto e sorridente. Talmente disposto e sorridente che presto si stufarono e non mi chiesero di aprire gli altri bagagli, né perquisirono la mia persona.

Tornammo così tutti nella stanzetta dove Jennifer si nascondeva ormai dietro al suo libro. Mi accomodai di nuovo ed aspettammo. Alla televisione stava iniziando la partita della Coppa Europea: Portogallo contro Repubblica Ceca. La stanza si era ormai popolata di giovani in divisa. Ero sorpreso nel vederli ammiranti del calcio.

“You like football?”- mi chiese uno di loro.
“Of course”, risposi domandando: “And you?”.

Non solo amava il calcio ma sapeva anche i nomi di tutti i campioni europei: Totti, Cristiano Ronaldo, Buffon. Guardammo l’intero primo tempo.

Quarantacinque minuti senza che né i nostri passaporti né qualcuno con spiegazioni apparisse. Ormai la tensione era sparita. Si parlava di calcio, avevamo perfino scommesso sul risultato finale. Jennifer ha acceso una sigaretta e loro continuavano ad offrirci bicchieri d’acqua.

Finalmente ecco il pezzo grosso dalla voce grave di prima. Sedutosi accanto a me ed abbassato il volume della televisione mi guardò dritto negli occhi.

“Perché siete venuti in Cina?”
“Tu-tu-turismo” mi è uscito balbettando.

Non sono mai stato bravo a dire bugie e quelle rare volte che le ho raccontate sono sempre stato scoperto.

Il vero perché del nostro viaggio in Cina era per recarci a Ruili, paesino di confine con il Myanmar, e scovare per poi filmare i traffici di frontiera.

Ruili rappresenta l’entrata di tutte le materie prime e le risorse naturali birmane in Cina. La Cina è la maggior acquirente e la più grande sponsorizzatrice del regime militare birmano. In cambio di materiali primari essa offre armi e soldi ai generali della giunta. Ed è da qui, da Ruili, che entrano i camion carichi di tek, gas, gemme preziose e donne schiave. È a Ruili che vengono smerciati questi prodotti. È a Ruili che posso scoprire, vedere e toccare con mano questo scambio che costa la vita serena di milioni di persone.

“Tu-tu-turismo” era la mia risposta. L’interrogatorio andò avanti ruotando attorno alle solite quattro domande (le domande del giornalista): come, dove, quando e perché.

Devo aver risposto bene e soprattutto sorriso molto perché alla fine, il poliziotto dalla voce grave si alzò e porgendoci i passaporti disse: “Ok, benvenuti in Cina!”.

Se mai ci fosse stato un uomo con un cartello che riportava i nostri nomi all’uscita dell’aeroporto di certo quello se n’era andato da un pezzo. Avevamo fatto una prenotazione, obbligatoria per ottenere il visto, in un alberghetto scelto dall’agenzia di viaggi di Bangkok e, se non avessimo avuto quel contrattempo di due ore e mezzo, sicuramente avremmo avuto l’autista dell’albergo venirci a prendere.

Agli arrivi però, usciti dal terminal, c’era solo una fila di taxi vuoti e spenti. I tassisti erano tutti radunati da un lato a chiacchierare e a fumare sigarette. Nessuno parlava inglese, nessuno aveva mai sentito parlare del nostro albergo e nessuno sapeva dove si trovava la via dove il nostro albergo sorgeva.

Grazie al cielo una signora, presto rivelatasi ansiosa e frenetica, arrivata di corsa da un parcheggio non molto lontano, con un inglese poverissimo ma comprensibile, in cambio di 40 Yuan si offrì di accompagnarci.

Il viaggio durò meno di tre minuti, 40 Yuan sono circa sei dollari. Ci aveva fregati.

È buffo ma ogni viaggiatore questo lo sa, come se fosse una regola scritta sul libro sacro delle fregature. Il primo taxi, nel paese in cui arrivi, si rivelerà una grandissima fregatura.

E per forza! Non si conoscono le distanze, si vedono le banconote per la prima volta, non si è nemmeno certi di quanto valgano, si è stanchi dal viaggio ed appesantiti dai bagagli. E poi i soldi, specie in Asia, con le loro forme gigantesche e colorate sembrano finti e per dargli il giusto peso spesso uno ci sta qualche giorno.

Finalmente l’albergo. Sembrava un miraggio.

La nostra autista, che parlava da sola, a scatti, facendo versi mischiati a tic nervosi, era l’ultima cosa di cui avevamo bisogno. Era stata gentile a venirci incontro, ci aveva fregati, ci stava contagiando l’ansia e ora, arrivati all’albergo, si era fiondata dall’unica signorina dietro al bancone, tagliando la lunga fila.

Ne avevamo avuto abbastanza. Le sorrisi, la ringraziai, la pagai e la salutai: commettendo un grandissimo errore.

Al nostro turno la signorina dietro al bancone iniziò a parlarci in Cinese.

“Sorry, I don’t speak Chinese. English?”

Questa mia frase apparentemente la fece irritare. Ora non mi parlava più, ma mi urlava in Cinese. Non vi era molto da fare. Io le avevo mostrato il fax che confermava la nostra prenotazione e lei avrebbe dovuto inserire i nostri dati nel computer, sorriderci e porgerci la chiave della stanza. Lei, invece, ci urlava contro... in cinese.

Non sapevo più che fare. È difficile alcune volte rimanere calmi, specie se si è in un paese di cui si sanno molte cose, la misera ospitalità, il fatto che nessuno parla altro all’infuori del cinese, un paese criticato per arroganza e mancanza di diritti umani.

E quella donna, che a questo punto odiavo, continuava ad urlare in cinese. Ma dov’è andata a finire quella cortesia, seppur finta, verso il cliente? Perché io le sorrido e lei mi urla arrabbiata? Ma che le ho fatto?

Finalmente decise di chiamare qualcuno al telefono. Bella idea, pensai, chiamerà qualcuno che parla inglese. Dopo una breve spiegazione alla persona dall’altra parte della cornetta mi chiamò, o meglio pronunciò con smorfia come dire: “Tieni deficiente, parla al telefono”, e mi passò il ricevitore.

Un uomo dall’altra parte attaccò in cinese. Ripetei allora la mia frase: “Sorry, I don’t speak Chinese. English?” – “No, solly”.

Misi giù il telefono e cercai di ingegnarmi su due fronti, uno come fare a strangolare quella donna e due come fare ad avere una stanza. Non capivo perché quella signorina non mi veniva incontro, perché non mi disegnava qualcosa, ma soprattutto perché neanche accettava il foglio su cui le avevo scritto i nostri nomi, dato che il fax era incomprensibile.

Dopo altri interminabili minuti squillò di nuovo il telefono. Stessa scena, la signorina parla e poi mi invita nella sua maniera graziosa e strangolabile alla cornetta. Questa volta una signora, dalla voce tenera e amica, ma che soprattutto parlava inglese.

Prima che riuscissi a spiegarle la situazione, e cioè che avevamo una stanza prenotata e prepagata e che semplicemente ci serviva la chiave, lei mi spiegò che la stanza era pronta e che dovevo solo lasciare 100 Yuan di deposito e che li avrei riavuti l’indomani.

Tutto qui. La ringraziai, tirai fuori 100 Yuan dalla tasca, la signorina mi scrisse la ricevuta, mi porse la chiave e ora eccomi nella stanza 603 a scrivere il racconto di queste prime ore trascorse al mio arrivo in Cina.


 

 

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