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N. 33 - Settembre 2010 (LXIV)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XVii - Il presente

di Gianrigo Marletta

 

Redazioni…

È già da una settimana che ho mandato il pezzo sui Rohingya a ben quattro redazioni e non una che mi abbia degnato di risposta. Sono un po’giù. Addirittura fui io ad essere contattato da una di queste, tramite il suo direttore che circa un mese fa mi scrisse:

 

Ciao Gianrigo, sono il direttore di aam terra nuova, ci piacerebbe
attivare una collaborazione con te e più in generale con
vagabond reporters. Non ci interessa la cronaca, ma articoli che
illustrano la vita quotidiana soprattutto delle minoranze e dei popoli
nativi. Avete già del materiale a riguardo? In attesa di tue notizie.
Un caro saluto. M.T.

 

Risposi immediatamente. Risposi dicendo che non avevo ancora nulla ma che mi sarei messo al lavoro. Così feci e dieci giorni dopo gli inviai il reportage. Non ottenni risposta né alla prima e-mail di conferma né alla seconda con articolo e foto allegate.

 

Era la prima volta che mi capitava una situazione del genere. Di solito sono io a spedire proposte e a non ricevere mai risposte. Ma stavolta furono loro a contattare me! Allora perché non rispondere?

 

Capisco che il mio modo di scrivere possa non piacere o che dei Rohingya non gliene importa a nessuno, ma almeno, per rispetto di queste persone sofferenti, affamate, esiliate e torturate, potrebbero degnarmi di risposta.

 

Una risposta che dica no grazie, il soggetto è interessante ma non ci piace come scrivi, oppure, ci dispiace molto per le persone di cui scrivi ma crediamo che la cosa non venda e dunque non la pubblichiamo.
 

Il fatto più straziante, oltre alla fatica, il caldo torrido, la puzza e la provazione emotiva che vivo durante i sopralluoghi nelle regioni disastrate dell’Asia, è l’impossibilità di far conoscere al mondo, all’Italia, la sofferenza di queste anime; la privazione di riuscire a puntargli addosso una, seppur minima, luce di attenzione.

 

Nessuno sa di loro e nessuno saprà di loro.

 

Vedere con i propri occhi gente affamata è molto diverso da sentirne o leggerne. È per questo che trovo importante scriverne, raccontarne. Raccontare la fame per uno come me, cresciuto e vissuto nell’abbondanza, è una prova molto dura.

 

Da dove vengo io la fame è una sensazione sconosciuta, che si prova al massimo per pochi minuti, fino al momento di soddisfarla, e non soddisfandola con delle briciole o qualche chicco di riso, ma abbondando di cibo, di varietà: antipasto, primo, secondo, contorno, dessert.

 

Vedere, comprendere e sopportare l’esistenza di queste persone è doloroso e impossibile da ignorare.

 

La fame per i Rohingya, come per i birmani, i cambogiani e tutti i popoli del Terzo Mondo costretti ad essa, è una sensazione che accompagna ogni istante della loro vita. La scoprono da bambini appena nati perché spesso la mamma, affamata e malnutrita, non produce il latte per allattare.

 

Ecco che il pancino, non ricevendo nulla al di fuori di acqua lurida e qualche chicco di riso, si gonfia: dando l’impressione di essere l’unica parte del corpo ad essere cicciottella, a contenere qualcosa, a non mostrare le ossa. Ma quel qualcosa è solo aria, gas, prodotto dai vermi che vi ci sguazzano dentro. Poi da bambini neonati, se sopravvivono quei critici primi anni di vita, diventano bambini più grandicelli che giocano o che lavorano, ma che comunque, tornando a casa o all’angolo di marciapiede dove abitano, non trovano nulla sulla tavola. E la fame non va via.

 

Diventano poi grandi, magri, malati e sempre affamati. La fame indebolisce, intontisce, non si hanno le forze per lavorare, non si ha la testa nemmeno per provare a cercare di lavorare.
 

Pochi giorni fa a Dakha ho visto una scena straziante e commovente: qualcuno aveva lanciato un sacchettino di plastica contenente del riso bollito ad una signora anziana seduta sul bordo della strada. I suoi occhi si alzarono verso il cielo, incerta di chi, tra la folla, fosse stato a compiere un gesto tanto benevolo, ringraziò Allah.
 

Chiamando poi a se una flotta di bambini, che subito la circondarono, affondò la mano nel sacchetto e distribuì ad ogni manina tesa tanto riso quanto ne potessero contenere, attenta a non sprecarne un chicco. Quello era il loro pasto del giorno o, molto probabilmente, di un paio di giorni.

 

Una scena tipica, che si scorge negli angoli delle strade, sui marciapiedi delle piazze, nei campi profughi, nelle bidonville del cosiddetto Terzo Mondo.

 

La fame la soffrono milioni di persone anonime, discrete, silenziose. Persone con lo stomaco gonfio, con le costole in vista, una ben distinta dall’altra, con la pelle incollata alle ossa.

 

Colpisce il loro sguardo, spento, opaco, affaticato, sempre lo stesso. Gli occhi rossi, semichiusi, ebeti. Le donne sedute a far nulla, sporche, magre, che tengono in braccio i loro bambini, sporchi, magri, mocciolosi.

 

Gli uomini, sempre un po’ distanti dalle donne, anche loro inermi, sono magri e sporchi. Spesso però, a differenza delle donne e dei bambini, loro hanno i muscoli nelle braccia e nelle gambe. Muscoli dati dai lavori manovali saltuari, che capitano in rari momenti fortunati. Muscoli esercitati dal tirare carretti, trasportare sacchi, pedalare biciclette che trainano persone o merci.

 

Proprietari di un unico straccio tenuto intorno alla vita e un paio di ciabatte, spesso l’una diversa dall’altra, gli uomini in questo, possiedono meno delle donne.

 

Il gentil sesso è sempre il gentil sesso e per questo possessore di un corpo che va protetto ed ornato in ogni momento. È dalle donne che si capisce in che paese uno si trova, è dal loro modo di vestire che si distinguono gli stati ed i continenti.

 

Le donne indiane indossano il Sari, veli colorati con i bordi dorati; le donne in Cambogia portano gonne lunghe e lo straccio tipico a quadretti arrotolato sulla testa; quelle tailandesi vestono all’occidentale; le laotiane con stoffe coloratissime; le bengalesi osservanti col Burka nero; le vietnamiti la mattina s’infilano il l’Ao dai, il camicione bianco che arriva alle ginocchia di pantaloni bianchi con sulla testa l’inconfondibile cappello a cono.

 

Ogni donna, ricca o mendicante che sia, si rende inconsapevolmente bandiera del suo popolo, rivelandone l’identità.

 

Ben quattro redazioni e non una risposta. Non un no, non un sì.

 

Dico non un sì perché una volta inviai un reportage ad una rivista che puntualmente non mi rispose.

 

Passarono dei mesi finché ricevetti una telefonata da parte di un amico tutto eccitato perché aveva letto il mio articolo su quella rivista. Quelli non mi dissero nulla, neanche dopo averlo pubblicato.
 

È un principio il loro, quello delle redazioni, che va al di là della fame e della povertà, che sorvola il punto di una storia e della sua morale. Contano principalmente ciò che vende e chi scrive. A chi importa di questi scheletri umani, uomini distanti sperduti da qualche parte lontana, che neanche ci assomigliano.

 

Già alla televisione, alle ore dei pasti, si vedono morti e moribondi che ormai mangiarci davanti non rappresenta neanche più lontanamente un problema.
 

Morti e moribondi che ci vengono presentati impacchettati insieme ad una serie di altre informazioni che difficilmente riusciamo più a distinguere l’una dall’altra. La guerra, la politica, la moda, lo sport.

 

Al telegiornale saltano da un massacro di una bomba al culo più bello dell’anno come se nulla fosse, voltando una delle pagine raccolte in quel gruppo di fogli che hanno sempre davanti.

 

Ma questo non dovrebbe accadere. Ad ogni situazione va dato il suo giusto peso, ad ogni guerra la sua giusta riflessione, ad ogni morto la sua giusta compassione, ad ogni affamato il giusto sforzo per cercarne un rimedio.
 

Uno sforzo che tutti, tassello dopo tassello, possiamo tentare insieme, creando quel mosaico di famiglia umana, unita e compatta, dove il dolore di ognuno viene alleviato dall’altro.

 

Se tutti si immedesimassero nelle sensazioni dell’altro, sarebbe impossibile non provare un irrefrenabile istinto di aiuto. Se ci si immedesimasse nella persona affamata come si può non volerla nutrire?
 

Quando si è malati si è così vulnerabili. Bastano poche linee di febbre e già ci sentiamo come piccoli bambini bisognosi di assistenza. La cura e l’affetto che ci danno le persone a noi vicine in quei momenti ci sembrano indispensabili.

 

Appena si cade ammalati si corre in farmacia o ancor meglio si chiede a qualcuno di andarci per noi. Riponiamo poi nel farmaco, nella pillola che così spensieratamente mandiamo giù, quella fiducia scontata, quella consapevolezza che passati pochi giorni staremo meglio.

 

Io ogni volta che sto male penso a tutti quelli che, in quel momento, si sentono come me, ma che non hanno nessuno e soprattutto non hanno nessuna pillola da mandar giù per farli star meglio.
 

La loro unica certezza è la morte, una morte atroce, lenta. Morire di febbre è peggio della soffocazione o di bruciare vivi. È una morte lenta, cerebrale.

 

Una morte che avviene dopo giorni, settimane di mal di testa, di incubi: incubi nel sonno ed incubi da svegli.

 

La morte da malaria, da dengue, da tifo, da tubercolosi, da una delle decine di malattie che ancora oggi uccidono, è una morte assurda, cruenta, inimmaginabile.

 

Una morte che, in realtà, non interessa a nessuno. Una morte che disturba la nostra fragile quiete, la nostra scontata sicurezza. Una morte di cui non vale la pena scrivere e pubblicare perché a nessuno può interessare.

 

Ma è contro questo mostro che io intendo lottare, perché non intendo credere che sia il lettore a fregarsene, che la persona media non si interessi a ciò che gli accade intorno, vicino e lontano.

 

Non intendo credere che sia la gente comune a disinteressarsi; piuttosto mi convinco che il problema graviti molto più in alto, dove l’informazione viene prodotta.

 

È lì che si decide ciò che interessa e ciò che va lasciato in sordina, è lì che le notizie, i fatti, la cronaca, i morti, gli affamati vengono schedati, sfogliati, raggruppati ed infine suddivisi e poi distribuiti chi sulle prime pagine e chi nel secchio della spazzatura.

 

Lungi da me supporre che è per questo, a causa di manipolazioni, che il mio articolo sui Rohingya (come gran parte dei miei reportage) non abbia fatto strada.
 

Non ho mai sopportato quelli che si ritengono vittime di cospirazioni o che credono di vivere in un mondo controllato.

 

Probabilmente il problema principale è stato il mio stile scadente di scrittura, o qualcosa che abbia a che fare col fatto che io sia “nessuno”, men che meno uno a cui dedicare preziosi spazi nelle pagine delle riviste.


 

La mia frustrazione, ormai resa ovvia, risiede solo nel fatto di esser sottoposto a certe esperienze, ma di non poterne raccontare.

 

Trovo incredibile come alle volte si parli di una certa cosa o si pensi ad essa e qualche tempo dopo quella ritorni a manifestarsi proprio come la si è pensata.
 

Due giorni dopo aver scritto questo paragrafo mi sono imbattuto nella pagina novantuno del bellissimo Autoritratto di un reporter di Ryszard Kapuscinski in cui dice (durante il corso di una intervista):

 

Una delle ragioni per cui il lavoro del corrispondente estero diventa sempre meno visibile sono i tagli e le omissioni redazionali. L’altra causa è il consumismo, filosofia del mondo moderno. Il consumista vuole stare tranquillo, sentirsi soddisfatto: quindi bisogna eliminare o ridurre al minimo tutto ciò che turba questa immagine. Bisogna mostrare meno conflitti possibili, mentre al mondo ce ne sono circa settanta (parla il 20 agosto del 2001), ivi comprese alcune guerre “dimenticate” e di cui la gente ignora perfino l’esistenza. C’è una profonda differenza tra ciò che il corrispondente desidera mostrare e il risultato finale del lavoro che viene letto, ascoltato o visto dal suo destinatario [...] Il giornalismo d’altro profilo- come il reportage letterario- è stato spostato nella zona della letteratura. Non trova più posto nei media [...] La verità è che i media si concentrano sui “picchi” del mondo, mentre i “bassi strati” vengono completamente ignorati.”


 

 

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