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N. 31 - Luglio 2010 (LXII)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XV – Appunti di un viaggio da Ceylon all’Himalaya

di Gianrigo Marletta

 

Hikkadwa

 

Nell’aria si respira miseria, fierezza, sconfitta, una disperazione da poco trasformata in rassegnazione. Lo Tsunami ha distrutto famiglie intere!

 

Chi aveva un discreto lavoro, una discreta attività, una discreta casa, ora non ha più niente. L’onda gliel’ha portata via.

 

Bambini rimasti orfani, mogli vedove, padri che hanno perso la famiglia intera. Disarmante!

 

In treno verso Kandi

Rumore assordante di ferraglia. Il treno, stracarico di gente, oscilla e vibra marciando tra i paesini.

 

Vacche magre, baracche, cani, palme, scuole, bambini, fiumiciattoli e grossi torrenti e poi fisso sulla sinistra il mare, la costa occidentale dello Sri Lanka, a volte a meno di venti metri dalle rotaie (lo Tsunami travolse convogli interi uccidendone tutti i passeggeri).

 

Il cielo è ora coperto e io sono seduto a terra sui gradini dell’uscita, aggrappato alla porta aperta per non volar giù.

 

A scorrerci davanti, ad una moderata velocità, ora un cimitero, ora un edificio in costruzione, con un cartello davanti che ringrazia il Giappone il quale ha sponsorizzato l’opera per il post Tsunami; ora un cumulo gigantesco di spazzatura, quasi tutta plastica; ora vecchietti a passeggio sotto i piccoli banani con i loro caschi non ancora maturi. È incantevole, è puzzolente, è povero, è natura, è Sri Lanka.

 

L’antico mestiere del barcaiolo

 

A rompere il silenzio sono pochi rumori, pochi e stupendi: il suono della pala del remo che sposta l’acqua, il tranquillo fruscio delle foglie sventolate dal leggero monsone che oggi è stato quieto, insetti e uccelli che cantano festeggiando la stagione che bagna la fitta foresta circostante.

 

Lui si gode il tranquillo spettacolo, ogni giorno è sia protagonista sia spettatore di quell’immensa pace perfetta.

 

Seduto in bilico sul suo tronco bilanciato da un altro tronco parallelo più piccolo, il barcaiolo anche è bilanciato, è equilibrato tra interiore ed esteriore, umano e natura, gioia e dolore.

 

Intorno a lui tutto è in equilibrio, egli lo respira il mattino, la sera, egli c’è nato ed egli ci morirà.

 

Kandi, 27 Maggio

 

Oggi giornata tipicamente monsonica, sono abituato ormai ai monsoni: un vento costante, morbido ma deciso, scarrozza verso ovest i nuvoloni gonfi, di ogni tonalità di grigio; sprazzi di pioggia, spesso violenta, fanno pensare al diluvio universale; le zanzare danzano al caldo ed umido torpore che avvolge ogni cosa e le strade, fatte di terra, diventano enormi pozzanghere di melma rossastra.

 

Questi sono i monsoni, questo è il loro triste e sudicio fascino. Sdraiati nel buio della notte di una stanza di un piccolo albergo arrampicato sui colli nel cuore di Ceylon, odiamo al di fuori un concerto di un’orchestra composta da rane e ranocchi, insetti e a tratti da uccelli solitari notturni. Buona notte. 

 

Kandi, 29 Maggio

 

Nulla di nuovo. Piove. I monsoni. Kandi, costantemente coperta da un oscuro cumulo di nubi talmente bassi da accarezzare le punte degli alberi arrampicati sui monti circostanti, mostra in questi giorni il suo lato più triste ed opprimente.

 

Lo smog, la vista delle pozzanghere di melmaglia nera, il continuo ronzio di Tuk Tuk e il vociare squillante dei cingalesi rende le mie pesanti sensazioni febbricitanti quasi insopportabili.

 

Pensieri ossessivi dati dal malessere, nausea e noia vengono amplificati da ciò che mi circonda. Vorrei chiedere aiuto ma chi può, ahimè, tirarmi fuori da tutto questo?

 

La ventola attaccata al soffitto proprio sopra di me gira incessantemente ormai da ore e ore. Passo molto tempo a fissarla, cerco di agganciare con gli occhi una delle tre pale, la metto a fuoco, per un po’ ci riesco e sembra che, in effetti, tutto l’ambaradan non giri realmente così veloce come l’effetto ottico induce a credere; poi gli occhi mi si intrecciano ed io devo strizzarli.

 

Cambio allora. La zanzariera, anch’essa penzolante dal soffitto, tutta raccolta e legata; ma come tutte le zanzariere, sempre ricoperte di macchie e incrostazioni, mi fa schifo e quindi cerco un altro punto d’interesse.

 

Conto le piastrellone che, a scacchiera bianca e marrone, compongono il soffitto della stanza, di questa stanza, la stanza numero 15 del Kingdom Gate hotel.

 

L’albergo, una struttura a due piani molto alti, inizialmente in stile coloniale inglese, ora in stile decadente cingalese, sembra la sceneggiatura perfetta per un film dell’orrore.

 

La febbre venutami durante la notte, probabilmente per un piatto di riso con carne marcia mangiato ieri a pranzo, mi ha condannato al letto tutto il giorno. Sensazioni di pesantezza, scomodità, dolori alle ossa, alla pelle, dolori e fastidi.

 

In realtà non avrei mai voluto mangiare quel piatto con la carne, soprattutto carne di manzo, proprio in questa terra, dove nella vicina India la vacca è considerata sacra; ma la mia solita incapacità di volontà, la stessa che m’impedisce di tornare vegetariano, ha regalato vittoria a quel piacere dei sensi che quasi sempre, ahimè, finisce per farmi pentire.

 

Tra meno di cinque giorni sarà il momento di passare dalla “lacrima dell’India” al “tetto del mondo”. Un cambio d’atmosfera, un salto tra due mondi opposti, un viaggio illusorio che realizzerò usando quella tremenda scorciatoia che sopprime la vera essenza dell’avventura, che toglie il sapore dolce di una meta conquistata: l’aereo.

 

Himalaya! Himalaya! Himalaya!

 

L’arrivo in Ladakh si risolve in una sola e semplice espressione: surreale! L’avvicinamento con l’aereo, un Airbus A320 della Indian Airlines, surreale: incanalatosi tra le alte vette, il percorso da seguire è uno solo e non lascia molto spazio a inventive del pilota.

 

Sorvolata la pista si fa un largo giro intorno alla montagna piantata al centro della valle, sfiorandola con l’ala sinistra e poi il rapido tuffo finale per mettere giù il carrello.

 

Surreale lo sbarco, scendere la scaletta e ritrovarsi immersi in un’atmosfera da film.

 

I primi visi, quelli degli addetti al piazzale, così tipici, così scavati dal gelo invernale, le espressioni fiere di benvenuto e dietro di loro a far da sfondo, scavate nella roccia grigia, le casette quadrate a due piani con le finestre colorate; i bianchi Stupa tibetani; un Buddha enorme, anche Lui colorato, disegnato sul lato della montagna; e poi l’aria fina e tagliente che ben presto ti forza a boccheggiare in cerca di ossigeno, un bene che qui dall’alto dei 3600 metri viene a scarseggiare.

 

Immediatamente in automatico mi viene da comparare questo scenario con tutte le altre bellezze del mondo fin’ora viste, e per me, davvero, questo le ha superate tutte. Un miracolo.

 

Dopo una notte intera di sogni che mi hanno costantemente riportato in Italia, ho riaperto gli occhi, e là per fortuna c’erano ancora le travi bianche, portanti del soffitto, che avevo lasciato la sera prima. Acceso un incenso, sciacquatami la faccia, eccomi a risalire le scricchiolanti scale di legno che portano al terrazzo della Old Ladakh Guest House ed ecco, ancora, il miracolo. Himalaya! Himalaya! Himalaya!

 

Il paese si è risvegliato già da parecchie ore ormai, ma il silenzio non è quasi mai interrotto. Un vecchietto, sul terrazzo della casupola qui di fronte, con il tipico berretto a punta, sta impastando una calce fatta di fango e sterco di vacca per poi spalmarla tra un mattone, anche lui di fango, e l’altro: per completare la recinzione della terrazza. Sopra il vecchietto compaiono le altre centinaia di casupole fatte e disposte a mo di presepe, e ancora più alto a regnare, a proteggere ed a sorreggere il tutto, tre vette rocciose, marroncine, incantevoli; e ancora, ancora più su, arrampicato sulla vetta centrale delle tre, a vegliare su tutta la valle, uno Stupa, bianco e rosso, con migliaia di preghierine colorate intrecciate tra loro a svolazzare nel lieve vento, lo stesso che ora mi accarezza il viso.

 

In lontananza, alla mia sinistra, odo uno scrosciare di piatti d’ottone accompagnato da un tenore strombazzare di quei lungi strumenti a fiato: sono i monaci! Aguzzando le orecchie riesco anche a sentirli cantare, o meglio a recitare, con quel loro vocione basso, le preghiere ad Avalokiteshwara, il Buddha della compassione. Che incanto! Perché tornare laggiù quando esiste un quassù? Inizio a domandarmi.

 

In un ristorantino tibetano di medio rango, dove sono andato a consumare la mia prima cena a Leh, mi sono messo a chiacchierare col cameriere. Viene dal Nepal. Cosa ci fa in india? Anche lui vittima di un’altra triste storia che colora, troppo spesso, questo mondo di nero. In Nepal la guerra civile tra regime e maoisti è ancora una delle più sanguinolente guerre civili dell’Asia.

 

Lavorava da diversi anni in un tranquillo albergo turistico di un villaggio appena fuori Katmandu. Sposato da poco e con la nobile prospettiva di metter su famiglia, mai si sarebbe aspettato quello che seguì un’improvvisa telefonata del padre:

 

“Sono venuti i maoisti e vogliono prendere te o tuo fratello, dovete scappare in India!”

 

Eh sì perché” - mi spiegava, e lo avevo già letto in un articolo qualche tempo fa - “i maoisti vengono nelle case e arruolano, forzatamente, metà dei figli maschi di ogni famiglia!”.

 

Il rifiuto? Una condanna a morte.

 

Ma io non ci voglio andare in India, non la conosco, e tutto quello che ho è qui!”.

 

Lui, il fratello e altri tre coetanei dovettero così fuggire nella vicina, eppure per loro così lontana, India: lasciando indietro le famiglie appena formate.

 

Io sono il più fortunato”- continuava - “avevo un lavoro in ambito turistico, conosco qualche parola d’inglese, loro invece sono contadini e l’unica cosa che sanno fare è zappare la terra; io ora ho un lavoro in questo bel ristorante ma loro... “ - “excuse me!” - con un’aria arrogante e un fare da chi si sente superiore, da un tavolo più in là, una signora europea, scocciata dall’attesa per ordinare chiamò a se il ragazzo, il cameriere, che non ebbe così nemmeno il tempo di finire di raccontare la sua triste storia.

 

Lettera ai Ladakhi

 

Scrissi la lettera che segue indirizzandola ai “Ladakhi” (gli abitanti del Ladakh) e la mandai alla redazione del giornale locale di Ladakh e Kashmir. Fu la mia primissima pubblicazione.

 

"Carissimi Ladakhi, una religione nuova e differente da tempo sta penetrando nelle vostre anime, una religione pericolosa, una religione con molti nomi ed un solo dio: la sacra rupia. Capitalismo e materialismo stanno entrando sempre di più nelle vostre case, nei vostri cuori. State lasciando andare le tradizioni, state dimenticando i mestieri dei vostri padri, ciò che i padri dei vostri padri hanno insegnato loro. I ladakhi una volta erano nomadi, agricoltori e pastori. Ora state diventando commercianti, negozianti e guide turistiche. Mestieri che, in cambio di servizi turistici, si convertono in rupie. Tantissimi ladakhi ora stanno rincorrendo questo nuovo fenomeno chiamato turismo. Lasciate che vi avverta di una cosa però. Il turismo va e viene, non è un guadagno stabile.

 

Basta un’altra grande guerra contro la vicina Cina o un’intensificazione di quella contro il Pakistan e non ci sarà più turismo. Quel giorno scoprirete che i thangkas non si possono mangiare e che le campane tibetane, gli scialli e le pashmine non sono commestibili. Vi sarete dimenticati come coltivare le piante e come allevare gli animali. Non lasciate andare le tradizioni: ne state perdendo pezzetto dopo pezzetto, state vendendo tutti i vostri simboli religiosi; a dire il vero sembra che stiate vendendo qualsiasi cosa, purché qualcuno la compri. Fate attenzione, questo è il modo più veloce per vendere la vostra identità. Seguire gli stili e le abitudini occidentali vi porterà sicuramente più benessere materiale ma presto perderete le qualità spirituali, filosofiche e interiori che per migliaia di anni sono state proprie degli abitanti dell’Himalaya. Vedo i giovani nelle strade di Leh vestiti come i membri delle gang americane, ad ascoltare la loro musica violenta, a bere superalcolici e a fumare sigarette Marlboro.

 

Presto non ci saranno più quegli anziani che grazie al cielo si vedono ancora camminare per la strada con un grande Om Mani Padme Hum roteante nella mano destra a snocciolare le perline del rosario con la sinistra, cantando i sacri mantra, avvolti nel caldo, naturale e tipico cappotto di lana di yak. Come nell’Occidente anche qui plastica, sintetico, istantaneo ed inutile prenderanno il sopravvento; come nell’Occidente anche qui depressione, insoddisfazione ed alcolismo vinceranno. Volete il turismo? Beh, fareste meglio a mantenere vivo ciò che attrae il turismo: spiritualità e un’atmosfera pulita e naturale. Se date tutto questo via per poche rupie, diventerete poveri dentro e forse un po’ più ricchi fuori, ma di certo diverrete sempre più schiavi dell’Occidente. Negli ultimi millenni l’Himalaya è stata simbolo di ricerca spirituale per persone provenienti da tutto il mondo, uomini e donne in necessità di risposte, di Verità. Le vostre montagne sono state il luogo più sacro del pianeta. Moltissimi maestri come Gesù, Buddha, Krishna, Lama Tsonkapa, Babaji e tantissimi altri potenti Yogi hanno attraversato queste montagne, si sono recati in questi luoghi che ora, rapidamente stanno perdendo la loro magia.

 

Quello che sto cercando di spiegarvi è tanto semplice quanto importante: continuate a venerare Buddha, Allah, Brahma o Gesù Cristo e non scambiateli per dei soldi. Vivendo qui, così lontani, vedete solo i lati positivi dell’Occidente e non scorgete tutta la spazzatura che esso produce. Ammirate la falsa felicità che vedete nei film di Hollywood, decantate il finto eroismo che gli attori e gli effetti speciali inducono a far credere e non vedete quanto piccolo l’uomo occidentale sta diventando. Quindi, per favore, rimanete chi siete, siate indiani, ladakhi, tibetani e salvaguardate le vostre tradizioni. L’Occidente ha bisogno di essere ispirato da voi e non voi dall’Occidente. Voi da abitanti dell’Himalaya, da ladakhi avete sempre insegnato al mondo che quando qualcuno muore tutti i suoi averi materiali restano e che solo la sua anima continua nel suo percorso e che quindi non bisogna concentrarsi troppo sul benessere materiale quanto bisogna impegnarsi a migliorare la mente, il cuore e l’anima. Proprio come questo mondo ha bisogno dell’ossigeno prodotto dalle morenti foreste del sud America, l’umanità ha bisogno dello spirito prodotto in queste montagne. Per favore preservatelo. Grazie."

 

In moto, Royal Enfield

 

I paesaggi surreali, scorrendo ai lati, lungo il suolo, sopra la testa, a 360 gradi, destano un serio dubbio sulla realtà di tutto. Sto veramente guidando una moto tutta indiana, possente e vibrante, fin dove non vogliamo fermarci?

 

Le salite iniziano e finiscono dopo ore, otto alle volte, e quando un cartello ti avverte che sei a 5.600 metri di altitudine, gioisci nel vedere che ora si scende. Non si respira lassù, davvero. Ora spengo la moto. Lei prende velocità, l’unico suono è il fruscio dell’aria fredda che scorre lungo la faccia. Ore e ore a galleggiare sull’asfalto.

 

Il silenzio, la Enfield non trema più, anche lei si rilassa, rimane spenta. Le montagne, gli strapiombi, gli yak, le coltivazioni, i ghiacciai, i fiumiciattoli di neve sciolta da attraversare, il deserto e finalmente dopo una giornata intera a cavallo del suo sellino, Pangong Tzo! Il lago salato più alto del mondo, il confine con il Tibet. Piantiamo le tende insieme ai nostri sette compagni israeliani e... viva la vita!

 

Giappone 30 Luglio 2006. Tra Osaka e Kyoto

 

Mattina, le sei e mezzo. In un lussuoso albergo a cinque stelle mi trovo a far colazione con una tazza di tè, del miso soup ed un piatto pieno di pietanze diverse ma tutte perfettamente affettate in pezzetti cubici tutti uguali. Il gusto molto saporito.

 

Per strada, alle sette, non c’è nessuno a parte un postino in bicicletta, un camion della spazzatura e qualche giapponese alcolizzato che ancora dorme su una panchina abbracciando stretta la sua conquista della notte: un bottiglione di Sakè.

 

Ora in treno verso Kyoto. Quaranta minuti di viaggio, me ne restano circa venticinque. Il paesaggio è sempre lo stesso, non cambia mai. Osaka è enorme: un’infinita distesa di palazzoni giganti, grigi e futuristici. Ogni tanto qualche piccola zona residenziale viene a scorrere attraverso il finestrino; mi rincuora, un segno di umanità!

 

Il Giappone è così antico eppure così moderno. Gli americani nella seconda guerra, risparmiando forse solo qualche quartiere di Kyoto, hanno raso al suolo ogni singola città. Certo, difficile non era, essendo stato ogni edificio fatto di legno e carta!

 

Kyoto a quanto pare è ancora fatta così, o almeno in parte. Alcune zone portano tuttora il fascino di cinquecento anni fa, case basse con piccoli e graziosi giardini nelle corti. Le finestre e le porte scorrevoli ancora hanno, al posto del vetro, la carta di riso.

 

Mancano cinque fermate. Ancora palazzi grigi, dalle forme più strane; alcuni sembrano pronti al decollo come delle enormi navi spaziali.

 

Dio quanto cemento! Per un attimo m’illudo: man mano che il treno scorre verso Kyoto il panorama cambia. Le case da trenta sono passate a due, massimo tre piani; non sono più grigie ma marroni, il colore del legno.

 

I tetti, quelli tipici giapponesi, sono spioventi con gli angoli rialzati. Ma è solo la zona neutra, una fascia di terra che separa le due metropoli.

 

I grattacieli ben presto ricominciano a spuntare e sempre di più a spiccare ed ecco finalmente la mia fermata, Kyoto Train Station!


 

 

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