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N. 28 - Aprile 2010 (LIX)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XII – IL BATTELLO DEL TEMPO

di Gianrigo Marletta

 

Se mai ci si chiedesse come vissero i nostri antenati nel Medioevo, nel Rinascimento o un secolo fa, basta venire qui. 2007-1907 non è cambiato molto da queste parti.

 

A parte la quantità eccessiva di buste di plastica che i birmani, ma gli asiatici in generale, usano per contenere qualsiasi cosa e che disperdono nell’ambiente a termine d’uso e il rumore assordante dei claxon, che forse a quei tempi erano più tenui, sembra essere rimasto tutto come allora.

In un secolo di enormi cambiamenti storici, scientifici e tecnologici le variazioni nello stile di vita di queste persone sono mutate appena.

Il sole si è alzato appena venti minuti fa. La pioggia invece da ore non smette di cadere. Avremmo dovuto salpare alle 5:30. Sono le sei ed ancora siamo strettamente legati alla banchina.

Bagan dista quindici ore di viaggio, con la corrente a favore, lungo il fiume Irrawaddy. L’imbarcazione non è altro che un ammasso di ferraglia sporca ed arrugginita. Su entrambi i piani, seduti sul pavimento di legno, migliaia di persone mangiano, dormono, aspettano, parlano, osservano, come un tappeto umano. Se solo uno volesse alzarsi per sgranchirsi le gambe …. Si salpa!

Sdraiati a terra si dorme scomodi, ma almeno si dorme. Accucciato sul pavimento per qualche ora sono riuscito a prendere qualche minuto di sonno. Dall’altro capo del battello, superata la barriera umana, c’è un piccolo e sporco chiosco che serve anche il caffè, indispensabile.

Alla prua, in una cabina, siedono sei monaci ed un piccolo gruppo di persone benvestite. Far sedere i monaci davanti è di buon auspicio e un’assicurazione di buona sorte per un viaggio lungo come questo.

Ora sono seduto anche io nella cabina con loro. Mangiano. Uno ha infilati nelle orecchie degli auricolari collegati a non so cosa nascosto sotto i veli color ocra, forse un lettore mp3.

Le rive, da entrambi i lati, sono piatte. Verdi, fangose e piatte. Non un palo, non un palazzo, non una fabbrica, non un porto. Solo qualche capanna di legno e tantissimi coni dorati degli Stupa (simbolo buddhista che serve a contenere le reliquie di qualche santo) rompono la tranquilla monotonia della sublime vista che di fronte agli occhi di tutte queste persone scorre.

Ore a scivolare lungo il letto dell’Irrawaddy e non un simbolo del progresso, non una sua invenzione, non una sua rumorosa macchina. Solo natura.

È ovvio che anche lungo le rive del Rio delle Amazzoni non si incontreranno segni di modernità, ma nemmeno ci si imbatte nella presenza umana. Gli uomini qui ci sono, e come! Eppure la loro presenza appena si nota e certamente non stona col paesaggio.

Un viaggio nel tempo senza tempo. Ad ogni fermata del battello vengono estratte due tavole di legno e collegate con la terra ferma. Ogni fermata, un paesaggio diverso. Un villaggio con le capanne di paglia e bambù, una spiaggia deserta, una riva rocciosa, una prateria, una risaia.

Ma in tutte un’orda umana ad attendere. Ceste piene di manghi in bilico sul capo delle donne, caschi di banane appoggiate direttamente sulla testa delle ragazze, giovani ad aiutare chi sale e chi scende, chi carica e chi scarica. Su e giù per le tavole di legno, un via vai continuo di persone.

Ad attendere gli approdati non i taxi né gli autorikshò, non autobus né furgoncini, ma carri di legno trainati da una coppia di eleganti buoi dalla gobba gigante. Su ogni carro vengono montati barili, biciclette, casse, scatoloni, pacchi e persone. Un vociare assordante, chissà cosa dicono.

In quel quarto d’ora in cui la barca si ferma nel loro villaggio passa l’intero impegno di tutta la giornata. È l’evento attorno al quale ruota gran parte della loro vita. Un evento che capita solo la Domenica e il Mercoledì, in cui arrivano i beni dalla città ed i clienti a cui vendere i propri prodotti. Uno scambio vitale, un quarto d’ora che decide la sorte dei giorni a venire, uno spazio di tempo che interrompe una monotonia fatta di semplicità e di equilibrio naturale.

I giovani intenti nel lavoro, in quei quindici minuti ridono, giocano, si spingono l’un l’altro nel fiume dando prova di chi è il più forte, pavoneggiano con le signorine che osservano dalla barca. Le donne, invece, in fila indiana salgono sul battello, sorridenti, sperando di vendere almeno uno dei coloratissimi manghi e di guadagnare quei 100 Kyat, otto centesimi di dollaro, che potranno scambiare nel loro villaggio con qualcosa di diverso, che il loro giardino non produce.

Prima di ogni fermata l’urlo acuto del claxon annuncia l’arrivo del battello. Il villaggio si prepara. A bordo tutto è calmo. Le persone avvolte nei longy rimangono accucciate a terra. Mangiare è il più grande passatempo e quando il momento arriva le donne tirano fuori dalle loro borse di paglia i tegamini d’acciaio contenenti riso, verdure e qualche salsa. Le bustine di plastica una volta svuotate dal loro contenuto vengono gettate spensieratamente nel fiume. Un gesto comunissimo, che a me fa venire i brividi.

A fare il tragitto inverso invece, dicono, ci vogliono due giorni. Due giorni per fare duecento chilometri. Dov’è lo spazio per la fretta quando le cose stanno così? Come fanno a nascere sensazioni tipo ansia e stress quando tutto scorre a questi ritmi? Lo sguardo di chiunque è seduto su questa barca è rivolto all’orizzonte. Un orizzonte fatto di praterie, di animali, di risaie, di alberi, di simboli dedicati al Buddha, di verde, di natura, di pace.

Una rossa, intensa palla di fuoco si sta rapidamente nascondendo dietro la sagoma dei nuvoloni in lontananza regalando uno spettacolo immenso. Il vaporetto ancora continua a trascinarsi verso sud sfidando ora il caldo vento proveniente da ovest. Ancora, dopo tutte queste ore, non una città, non una centrale, non un motoscafo moderno. Solo alberi, colline verdi e canoe di legno.

Poco fa, a una delle fermate, è salito un gruppo di donne con le braccia piene di coloratissime coperte da vendere. In cambio non chiedevano solo soldi. Il prezzo della coperta diminuiva se i turisti, i pochi a bordo del battello, avevano qualcosa di occidentale da scambiare. Profumi, T-shirt, scarpe, jeans. Con incredibile insistenza ambivano ai prodotti della modernità più che alla loro stessa moneta. La gioia nella faccia di un gruppetto di turiste bionde, nel tirar fuori dal loro zainone, magliettine sportive, aderenti e scollate… la fierezza con cui sfoggiavano i loro tesori del progresso, quasi come missionarie in aiuto, davvero mi ha sconvolto. Che bel modo rapido e facile di distruggere l’identità di un popolo!

La bramosia di queste donne accostata a quell’atteggiamento missionario delle turiste io la trovo una miscela esplosiva perfetta per far saltare in aria una cultura così antica e compatta.

Come possono queste donne, proprio loro che, con i loro veli colorati, gioielli intarsiati, trucchi delicati, hanno ispirato generazioni di stilisti e di mode in tutto il mondo, desiderare con tanto ardore la robaccia sintetica del nostro mondo?

Loro che, con quei colli lunghi attorcigliati da anelli d’oro, i trucchi fatti di sandalo e argilla, i profumi estratti da un naturalissimo pestaggio e drenaggio di fiori ed erbe da loro stesse raccolte, rappresentano l’essenza della femminilità. E le turiste, come fanno a non vedere la dipendenza cui stanno costringendo queste signore smarrite, accecate da un qualcosa di nuovo, di lontano, di cui però non conoscono la provenienza?!

“American, American?”- domandano. Gli occhi si illuminano sui loro visi delicati nella speranza che tutto sia americano. Sì, American sono le magliettine Adidas cucite in Cina dalle manine dei bambini, dalla Cina che arma e finanzia il governo che massacrò i loro padri e che tutt’ora uccide i loro mariti. “American, American!”

Nargis, una sorpresa nella notte tra Venerdì 2 e Sabato 3 Maggio 2008.
(Articoli tratti dalla mia corrispondenza con Peace Reporter).

Yangon, i venti hanno iniziato ad alzarsi verso le 22:00. È alle tre del mattino che siamo stati svegliati dallo sbattere delle lamiere dei tetti delle case, ormai staccate quasi del tutto. La pioggia ancora non aveva iniziato a cadere. Le antenne paraboliche son quelle che hanno causato più danni, sembravano dei giganteschi frisbee impazziti lanciati contro case e palazzi, schiantandosi infine sulle auto parcheggiate in strada.

Verso le cinque ha iniziato a precipitare una pioggia torrenziale riempiendo d’acqua le abitazioni ormai prive di tetti. In poco più di un’ora il livello dell’acqua nelle strade si é alzato fino all’altezza delle maniglie degli sportelli delle auto. I venti, soffiando fino ai 220 Km/h, accompagnati da un ininterrotto acquazzone, non hanno lasciato tregua ai cittadini di Yangon e al resto della popolazione del sud del Myanmar fino alle dieci del mattino quando, d’improvviso, una silenziosa calma ha pervaso il terreno ormai distrutto.

Yangon era devastata. Due alberi su tre sono stati sradicati dal suolo trascinando con loro anche l’intera lastra di cemento circostante. Non un cartello rimasto in piedi. Ci son volute quarantotto ore per raggiungere Dalah, il quartiere più povero della città, appoggiato sulla sponda sud del fiume Irrawaddy.

Qui le case in mattone e cemento si contavano sulle dita di una mano, il resto delle abitazioni non era altro che un ammasso di baracche di legno e bambù, di cui le porte erano costituite da un telo di plastica. Le zone più colpite ed ancora inaccessibili sono le cittadine appoggiate sul delta del fiume Irrawaddy.

Bogale é il villaggio più colpito, più di 10.000 morti. “Solo dieci case sono rimaste in piedi” – é la voce che é arrivata al nostro tassista. Poi Laputá con circa 2.000 morti, Pyapon circa 1.500 e Gheliá con 1.000 decessi circa (poche settimane dopo la pubblicazione di questo articolo il numero complessivo dei morti venne confermato tra i centocinquanta ed i duecentocinquantamila). In questa regione all’altitudine del livello del mare, composta da campi e risaie, l’acqua é salita fino a cinque metri, annegando e portando via ogni forma di vita.

La rabbia della gente, seppur contenuta nella loro solita paura, é diretta quasi interamente al governo che “ha dato pochissimo preavviso e quello che ha dato era sbagliato”.

In effetti solo nei grandi alberghi e nei lussuosi palazzi di uffici a Yangon sono apparse circolari di avvertimento. A quella parte di popolazione proprietaria di radio o televisione era stato accennato che verso le 14:00 di Sabato una grande tempesta avrebbe colpito l’ex capitale. Gli abitanti son stati colti di sorpresa con dodici ore di anticipo, da un vero e proprio uragano, proprio nel cuore della notte.

La situazione presente rimane ancora critica. Gli sfollati in gran parte sono radunati nelle Pagode (i monasteri buddisti), le uniche strutture di cemento. Le famiglie più ricche offrono quel che possono, riso, acqua potabile, soldi. L’aiuto dell’esercito non è ancora visibile. Sui giornali e le TV governative appaiono foto ed immagini di soldati sorridenti che offrono ai civili scatoloni di viveri. Ma né in strada a Yangon né nei villaggi circostanti s’intravede una divisa verde.

Oggi pomeriggio abbiamo cercato di visitare un centro d’accoglienza messo su in un liceo statale. All’ingresso una ventina di uomini, alcuni in divisa, altri in borghese, armati di radioline ci hanno circondato e dopo un breve interrogatorio ci hanno riaccompagnati al taxi. Non eravamo i benvenuti.

“Questi sono centri d’aiuto solo in apparenza, ma pochissimo cibo ed acqua vengono in realtà distribuiti” –
si lamentava il tassista una volta ripartiti. Certo è che la nostra presenza e quella dei nostri obbiettivi fotografici non è stata affatto gradita in quello che doveva essere un punto di forza per un governo tanto criticato.

La Croce Rossa Internazionale dal suo piccolo ufficio sulla Strand Road a Yangon riporta sulla “situazione disastrata del delta”. Hanno inviato ieri delle squadre di soccorso (composte solo da operatori locali, gli occidentali non sono ancora ammessi).

L’ONG svizzera coordinerà gli aiuti ed il lavoro delle altre organizzazioni che arriveranno nei prossimi giorni. Il governo ha ufficialmente chiesto l’aiuto internazionale (un aiuto prettamente economico e non fisico).

Yangon rimane ancora al buio. Acqua ed elettricità sono disponibili solo ai proprietari di generatori. Il prezzo della benzina però è raddoppiato e le prospettive sono di un continuo rincaro. I supermercati sono quasi vuoti e le risorse di acqua potabile pressoché esaurite. La WHO (l’organizzazione mondiale per la sanità) assicura che passeranno almeno due mesi finché la corrente elettrica tornerà nelle case.

Le notizie in questo paese spesso viaggiano solo di voce in voce e per questo difficili da confermare. Questa per ora è la situazione di Yangon e dei suoi dintorni.

Morte, disperazione e distruzione. Siamo a Bogale, un centinaio di chilometri a sudovest di Yangon, nel cuore della regione del delta dell’Irrawaddy.

È la zona più colpita dalle inondazioni provocate dall’uragano Nargis. Centinaia di cadaveri gonfi abbandonati ovunque.

La marea li ha lasciati lì dove è stata riassorbita dal terreno. Il corpo di un bambino, avrà avuto due anni, ha ancora un laccio legato alla caviglia destra, probabilmente messo dalla madre per evitare inutilmente che fosse trascinato via.

Due giorni fa, subito dopo il cataclisma, in una baracca Ma Gan, una giovane madre di ventidue anni ha dato alla luce un bambino. Per una disfunzione al seno non riesce a produrre latte, quindi è costretta a “nutrire” il piccolo con l’acqua putrida, fangosa e piena di cadaveri, del canale che le scorre vicino.

Non c’è acqua pulita, potabile. E non c’è nemmeno riso. I contadini raccolgono quel che possono dai campi marci, frugano tra le macerie in cerca di chiodi arrugginiti per inchiodare teli di plastica su canne di bambù, per costruire rifugi di fortuna.

Piove sul bagnato. Nargis se ne è andato, ma i monsoni sono iniziati e quindi la pioggia continua a cadere e lo farà per i prossimi cinque mesi.

Una delle caratteristiche del popolo birmano, apprezzata dai visitatori del mondo intero, è la sua capacità di sorridere in ogni momento. Sorridono dopo esser stati massacrati dai militari nelle manifestazioni di piazza; sorridono e chiedono scusa quando al buio, per sbaglio, se ne calpesta uno mentre dorme sdraiato in mezzo al marciapiede; sorridono i poveri; sorridono i malati.

Ma oggi, qui a Bogale, non sorride più nessuno. Lo sguardo di tutti è cupo, vuoto. Qui, come in tutte le aree più colpite dal disastro, il referendum costituzionale previsto per domani è stato rinviato al 24 maggio. D’altronde, tutti hanno ben altro a cui pensare in questo momento.

Torniamo nella ex capitale, Yangon. La corrente elettrica non c’è ancora. Le luci che avevamo visto l’altra sera accendersi nelle pagode e in alcuni edifici erano alimentate da generatori rimessi in moto dopo diversi giorni. L’acqua c’è, ma è razionata con orari diversi di quartiere in quartiere.

Ovviamente, l’acqua che esce dai rubinetti non è, come non è mai stata, minimamente potabile: per berla bisogna bollirla.

Nelle strade c’è ancora gente armata di accetta e machete: tutti assieme a tagliare e spostare gli enormi tronchi caduti sulle carreggiate.

Senza lamenti, sorridendo, gli uomini si danno il cambio, tagliano e spostano rami. Un popolo autonomo che sa bene di non poter contare sull’aiuto di nessuno, tantomeno del proprio governo. La tragedia è tutt’altro che finita. Una tragedia inutile, voluta, cercata.

Oggi abbiamo riempito un furgoncino di cibo da portare nei campi profughi accampati nelle zone del delta. Chili di riso, verdure, aglio e legumi. L’autista del veicolo tira fuori dal cruscotto una bottiglia d’acqua minerale e dopo averne bevuto un sorso, in perfetto inglese dice di averla acquistata al mercato.

La cosa non avrebbe sconvolto nessuno se la marca di quell’acqua non fosse stata Singha: un’acqua imbottigliata in Thailandia, mai approdata sul mercato birmano. Quella bottiglia faceva parte di un carico di viveri appena donato dal governo thailandese.

“Gli agenti dell’Usda (Union Solidarity Development Association), i servizi segreti del regime, vendono gran parte delle risorse donate ai profughi ai mercati, le parti migliori le tengono per loro e una fetta minima la passano ai bisognosi” – ci confessa l’autista.

Una simile testimonianza l’avevamo raccolta appena tre giorni prima a Sittwe, capoluogo dello stato di Arakan, nel nord del Paese: “Ogni anno da noi arrivano due o tre cicloni che uccidono centinaia di persone, ma nessuno ne parla perché qui non ci sono gli occidentali” – ci aveva detto il preside di una scuola privata, aggiungendo che – “L’anno scorso la Croce Rossa aveva donato migliaia di ottime coperte, ma il governo se le era tenute rimpiazzandole con degli stracci di bassissima qualità comprati in Cina, e poi le ha rivendute sul mercato a duemila Kyats (due dollari) l’una”.

Il nostro furgone viene fermato a un posto di blocco dell’esercito non lontano dalla ex capitale Yangon. Nonostante le nostre preghiere e spiegazioni: “vogliamo solo portare viveri a chi ne ha bisogno” – i soldati ci rimandano indietro.

Non c’è modo, per nessun occidentale, di attraversare quei blocchi, di portare aiuto. Né per volontari indipendenti, né per operatori di Ong.

La fame, la sete, le malattie stanno dilagando di minuto in minuto. Le organizzazioni sono impotenti. I magazzini dell’aeroporto di Yangon sono pieni di scatoloni, ma nulla per adesso arriva a chi ha un disperato bisogno del loro contenuto.

“Hanno paura dei giornalisti” – continua a spiegarci l’autista – “paura che i giornalisti scrivano sull’omissione di soccorso e che denuncino il crimine di vendere ciò che è stato donato dalla comunità internazionale”.

Esiste un personaggio molto apprezzato dal popolo birmano, una figura scomoda per i generali della giunta: Kyaw Thu, attore famoso, fondatore della FFSS (Free Funeral State Service), una fondazione che offre funerali completamente gratuiti a chi non può permettersene uno e che per l’occasione si sta impegnando sull’assistenza post Nargis.

Decidiamo di andare al quartier generale della FFSS, dove troviamo, in un capannone, un centinaio di volontari che piegano vestiti impacchettandoli in sacchi e scatoloni.
“Vi ringraziamo di cuore per questa donazione” – ci dice un anziano seduto a una scrivania – “purtroppo però non possiamo scrivere sul registro dei donatori che questo materiale proviene da occidentali, il governo ci darebbe troppi problemi”.


 

 

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