.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

.

attualità


N. 27 - Marzo 2010 (LVIII)

ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE XI – Dietro le quinte di un documentario

di Gianrigo Marletta

 

Dopo molti articoli scritti ed un piccolo documentario già girato, si ritorna in Birmania per raccogliere notizie e raccontarne nuovamente la storia. Nel recente agosto del 2007 molto è successo nell’odierno Myanmar e molto, seppur per poco, è stato detto.

 

Ora di nuovo il silenzio. Un silenzio che rimbomba troppo forte nelle vite dei birmani, un silenzio che forse non meritano, un dimenticatoio in cui, di nuovo, stanno per precipitare. Ecco la decisione di tornare sul posto, di rischiare nuovamente, di augurarsi di non essere già conosciuti dalle autorità del regime e per questo arrestati o espulsi, di sperar di non mettere alcun birmano in pericolo semplicemente puntandogli una telecamera addosso, registrando la sua disperazione. Questa volta cercheremo di uscirne con un documentario fatto meglio, con un film che duri almeno un’ora e mezza, con un’opera che venga esposta in rassegne e festival più prestigiosi e per questo con più occhi che la osservino. Ciò che segue è la narrazione dei preparativi e delle emozioni alle quali un documentarista è sottoposto.


Il grosso è stato deciso in una stanza d’albergo. Precisamente in una stanza d’albergo al ventunesimo piano di un grattacielo di New York. È lì che si sono discussi i particolari. È lì che sono state decise date e luoghi. È dal piccolo computer portatile collegato al cavo telefonico della stanza che abbiamo scaricato le mappe e gli articoli di recente data riguardanti il caso. È lì che è stato buttato giù il copione, la linea guida di sei pagine da seguire.


Seppur siano gli eventi e la fortuna a decidere il corso e lo svolgimento delle riprese per un documentario vi è sempre bisogno di un testo guida, di un foglio di carta che ricordi ad ogni momento le piste da seguire e le domande da fare. Sembrerebbe cosa semplice, fare domande, ma puntualmente al momento di farle ecco che tutto svanisce. L’emozione s’intromette sempre. L’emozione di entrambi, di colui che chiede e di colui che risponde. Si dimenticano i concetti e le parole non vanno mai dannatamente al di là della punta della lingua. Le circostanze poi non sono mai ottimali. Suoni, rumori, distrazioni e nel nostro caso paura e paranoia sono i nemici più spietati. È comico notare come un luogo silenzioso e semideserto al momento dei un’intervista, si popoli improvvisamente di camion e motorini rumorosi, passanti curiosi ed elicotteri sorvolanti.

La paura di essere scovati obbliga a grandi precauzioni. L’equipaggiamento deve essere piccolo e leggero ma anche professionale. La qualità delle immagini non deve soffrire per la necessità di rimanere anonimi. I trucchi sono pochi e non sempre efficaci. Le telecamere devono rimanere perennemente pronte all’uso eppure anche ben nascoste nel bagaglio. Agganciate all’apparecchio vi sono altri dispositivi che tutt’altro sembrano che la telecamera di un viaggiatore appassionato: lenti e microfoni, trasmittenti senza fili, antenne e un’infinità di cassette vergini su cui registrare. Con noi abbiamo due telecamere Canon, una grigia ed una nera ( i colori diversi per non far sembrare la cosa troppo organizzata) ed una gran bella macchina fotografica.

 

Il terrore più grande è quello di far la fine di Tim Syrota, il nostro amico documentarista australiano (autore del libro Welcome to Burma) che nel 2005 è stato drogato dai soldati della SPDC mentre viaggiava in pullman e, risvegliandosi in un fosso lungo l’autostrada che collega Yangon con Mandaly, notò che tutte le cassette su cui aveva registrato erano sparite.
Essere drogati non è poi molto considerando la pena che deve scontare il contadino birmano se viene colto a raccontare la sua triste e disperata storia ad un reporter dell’Occidente. Nulla gli accade in quel momento sotto gli occhi dell’uomo bianco, ma presto, precisamente nel mezzo della notte, egli deve aspettarsi il famoso tok tok alla porta. Ciò che segue quel suono, che ogni birmano riproduce con terrore, nessuno lo sa semplicemente perché nessuno è mai tornato per raccontarlo.


Questa volta non raccoglieremo immagini e testimonianze solo all’interno dei confini della Birmania. Andremo anche in Bangladesh negli orrendi campi profughi della martoriata tribù dei Rohingya, fuggiti dal regime della giunta; in Cina, nelle città di confine dove i due paesi commerciano indisturbati ogni genere di merce inclusa quella umana ed ovviamente in Tailandia, nella cittadina di confine situata a nord ovest chiamata Mae Sot. È qui che si nascondono gran parte dei fuggitivi, profughi e rifugiati politici, è qui che convergono gran parte gli aiuti da parte delle Organizzazioni Non Governative di tutto il mondo ed è qui che si raccolgono le informazioni più utili e le interviste più succulente.


Siamo appena all’inizio e la speranza che tutto vada alla perfezione è smisurata. Con il documentario che ne uscirà fuori tenteremo, ancora una volta, di rimuovere questo paese già dimenticato dall’oscuro, ma soprattutto di sensibilizzare quelle persone e quei paesi che ancora, imperterriti, continuano a commerciare e a fare affari con questo regime tanto affamato di crudeltà. Non ci vuole molto a girare un documentario del genere, basta un po’ di coraggio, dello spirito di avventura e tanta, tantissima fortuna. Il resto lo deciderà lo spettatore.

Tre giorni con la SSA

Un giorno di aprile, metà aprile, da qualche parte nel Nord Est della Birmania. Anno 2008. Mi trovo in un campo. Campo inteso come campo militare. Precisamente nel campo militare della SSA (Shan State Army) uno dei maggiori gruppi armati intenti a proteggere il proprio popolo, quello Shan, dalle barbarie del governo birmano.
È tutto iniziato di mattina, quando Saigon (questo è il soprannome che gli abbiamo dato) la nostra guida trovata praticamente per strada a Bagò, una cittadina del sud, si è presentato alla guest house di Mr Charles con due motorini: “Andiamo”.


Il fatto che eravamo in cinque non è mai stato, neanche per un secondo, un problema. Tre su uno e due sull’altro: io alla guida di quello da tre, mentre Saigon trasportava il suo unico passeggero Bruno.


La canna dell’Ak-47 mi è stata puntata alla faccia dopo quattro ore ininterrotte di viaggio, a bordo delle due ruote traballanti, sulle strade fatte di sabbia e sassi. Più che strada sarebbe corretto definirla sentiero, un sentiero che taglia a metà una vegetazione arida e bruciacchiata conficcata in un deserto di sabbia rossa. La canna dell’AK-47 mi è stata puntata alla faccia all’arrivo presso il cancello del monastero. Non avrei mai immaginato di trovarmi già in territorio dell’esercito Shan, convinto com’ero che prima ci saremmo imbattuti in uno o più posti di blocco della SPDC. Per l’occasione avevamo comprato due bottigliette di rhum destinate a corrompere i soldati in cambio di un lascia passare. Ma nessuna sbarra o transenna di filo spinato, nessun posto di blocco dell’esercito birmano a frenare la nostra corsa. Eravamo “dentro” e il viaggio mi aveva condotto dritto verso la canna dell’AK-47.


Saigon, che aveva preso la missione molto seriamente, trattandosi della sua gente, aveva in precedenza contattato un suo amico d’infanzia, monaco, il quale ci stava aspettando sul ciglio della strada appena dieci chilometri dall’albergo. Fortunatamente aveva con sé un motorino e questo ci portò a viaggiare comodamente in coppie per le restanti quattro ore. Il monaco pronunciò poche parole e quella canna dell’AK-47 di tolse dalla mia faccia diventando lo strumento con cui la sentinella, un ragazzino di tredici anni, ci fece segno di benvenuto. Eravamo dentro! L’eccitazione indescrivibile. Grazie ad una combinazione di eventi, calcolati e casuali, ero finalmente entrato nel campo della SSA. Nessuno ci è mai venuto, questa frase me l’hanno ripetuta cento volte, è la prima volta che dei bianchi occidentali mettono piede qui.


Il benvenuto è stato caloroso anche se un po’ bizzarro. “ Non sappiamo e non sapremo mai se siete sinceri o spie del governo” - ci ha detto guardandoci dritti negli occhi uno degli ufficiali venutici incontro - “ma in entrambi i casi vi diamo il benvenuto”.
La mia reazione spontanea fu quella di mettermi una mano sul cuore e l’altra nella borsa per estrarre il mio tesserino finto da giornalista, qualsiasi cosa purché non pensassero che siamo spie. “Ecco vedi, siamo giornalisti!”- L’ufficiale, che tutto sembrava tranne che un ufficiale, vestito a quella maniera con il longy (tipico pareo a quadretti che tutti gli abitanti della Birmania tengono legato intorno al bacino) e la canottiera bianca, coperto dalla testa ai piedi di tatuaggi, respingendo il mio “documento” mi sorrise, dicendo di credermi. Fummo accompagnati nel cortile del monastero dove ci sedemmo attorno ad una grandissima tavola rotonda protetta da un enorme ombrellone di paglia. Il sole ardeva ogni cosa.


Bruno il canadese era lì per l’esperienza. Lo avevamo conosciuto a Yangon due giorni prima di partire per il nord. Bruno era un aspirante giornalista e ci pregò di portarlo con noi, promettendo di aiutarci durante il corso delle riprese. È stato grazie a lui che avevamo con noi Saigon, si erano conosciuti qualche giorno prima. Saigon era lì un po’ per staccare dagli studi universitari che lo impegnavano a Bagò, due giorni di viaggio dalla sua terra nativa che non vedeva da dieci anni, e un po’ per approfittare della “troupe di giornalisti” venuti a filmare la sua gente. Il nostro cameraman Jeffrey era lì perché lo pagavano. Jennifer condivideva il mio stesso eccitamento. Non era la prima volta che entravamo in un campo militare di rivoluzionari, era però la prima volta ad essere i primi a visitarne uno e la cosa ci diede un profondo senso di responsabilità. Portavamo con noi un’invisibile bandiera, la bandiera dell’Occidente, uno stendardo che loro vedono come speranza. Rappresentavamo un convoglio di ambasciatori più che un gruppo di reporter curiosi e una volta tornati saremmo stati gli unici a riportare le loro testimonianze, a rappresentarli ed a raccontare al mondo la loro storia. Sentivo questa responsabilità e cercai di registrare tutto con meticolosa attenzione.


La nostra presenza smosse l’intero plotone. Furono cucinati, per i tre giorni di nostra permanenza, i cibi migliori; fummo accomodati nella casa del capitano, capo assoluto del campo, e di sua moglie. Ci vennero offerti alcolici ed addirittura ci obbligarono ad accettare dei soldi, da puntare ai giochi da circo che in quei giorni, in occasione della festa dell’acqua, si svolgevano nelle bancarelle erette per l’occasione.
Eravamo costantemente seguiti da una scorta armata. Uno dei generali dalla faccia simpatica ma che non amava parlare ci aveva preso in simpatia e ci accompagnava ovunque andassimo. Lo soprannominammo cowboy perché aveva un cappello stile texano ed una magnum perennemente infilata nei pantaloni.


I tatuaggi sono una caratteristica tipica del popolo Shan. Vengono incisi con lunghe canne di bambù esclusivamente da monaci. Le rappresentazioni variano tra scritte, figure geometriche con scritte e personaggi mistici con scritte. In tutti e tre i casi seguono la tradizione pali, cioè la lingua che precede il sanscrito e che veniva parlata all’epoca e nella zona dell’India in cui visse Buddha. Ogni tatuaggio è una benedizione, un amuleto intento a proteggere.


“Questo tatuaggio mi ripara dalle pallottole dei birmani” - ci diceva il capitano, un uomo di sessanta e passa anni, mentre si indicava una scritta sul petto completamente imbrattato di simboli. Anche i bambini sono quasi interamente tatuati, ma la cosa non sconvolge tanto quanto l’arma, spesso più grande di loro, che devono sempre avere in spalla. Il soldato bambino, in questa circostanza, mi ripugna di meno che nei casi in Africa o nella stessa Birmania, dalla parte del governo: famoso per l’utilizzo di questa penosa risorsa. Innanzi tutto questi bambini (Shan) sono figli di qualcuno, hanno un padre e una madre che li amano e li educano, a differenza dell’esercito della SPDC che rapina o recluta i bambini nelle aree più povere e remote del paese. I padri di questi child soldiers sono loro stessi soldati con forti valori familiari e culturali. Nel caso del governo invece i bambini vengono istruiti semplicemente a morire e ad uccidere. Ai bambini Shan viene insegnato che l’arma serve solo a proteggersi dall’aggressore, ai bambini schierati dall’altra parte viene insegnato ad aggredire e basta.


Forse la cosa che colpisce di più in questo campo è l’unità ed il supporto con cui ogni membro del clan contribuisce al benessere ed alla sicurezza della sua gente. I monaci aiutano i soldati, i soldati proteggono i contadini, i contadini procurano il cibo alle donne e le donne alimentano i monaci. L’abate stesso del monastero centrale porta sempre con sé una radio trasmittente, un walkie talkie gigante verde militare che tiene costantemente attaccato all’orecchio. È buffo guardarlo, seduto nella posizione del loto a meditare, con la radiolina che di tanto in tanto emette frasi del tipo “l’aquila sta bevendo, passo”.

Ma torniamo al popolo Shan ed al perché vi fu, nel 1962 la necessità di creare un esercito che li difendesse.
Il termine con cui essi si autodefiniscono in realtà è Tay o Thai che si pronuncia Dhai (a differenza di Shan: nome dato loro dagli inglesi). La loro lingua è assai simile a quella parlata nel Laos, che a sua volta è simile al thai, tailandese. Seppure l’epicentro del territorio Shan sia la vastissima regione nel nord della Birmania essi risiedono in un’area ben più grande che va dal sud della Cina, passando per Laos, Thailandia, Cambogia fino al Vietnam. L’unico vero e proprio stato Shan però si trova in Myanmar ed è per questo che è solo in Myanmar che si trovano a dover combattere.


Come negli altri casi di minoranze etniche in territorio birmano, gli Shan sono oggi forzatamente inclusi nelle linee geografiche di un paese che non è il loro e obbligati ad essere cittadini sottomessi ad un’altra etnia, quella dei Bamar (Birmani). Con una storia millenaria di conquiste e sottomissioni nell’intera penisola indocinese il popolo Shan nel dopoguerra (seconda guerra mondiale) venne chiamato a partecipare al nuovo disegno geografico che i nuovi mappamondi dell’epoca post-coloniale avrebbero dovuto riportare. Nel 1947 i leader Shan, insieme ai capi delle altre entine del territorio, si unirono ai Bamar, che costituivano la maggioranza, nella lotta contro gli inglesi per l’indipendenza. Ottenutala, parteciparono in quella che venne chiamata la Conferenza di Panglong, tenutasi proprio nello stato Shan e capeggiata dal Generale Aung Sang, (eroe che condusse infine l’Unione all’indipendenza e padre di Aung San Suu Kyi), per riorganizzare le politiche di un paese appena nato: L’Unione della Birmania. Durante la conferenza, in una clausola, fu scritto che: superato il decimo anno d’indipendenza, lo Shan State, se lo avesse voluto, avrebbe ottenuto la completa autonomia dal resto degli stati.


La linea storica che il paese appena nato, ricco e glorioso, aveva appena imboccato fu presto bruscamente deviata. Nel 1962 il Generale Ne Win, con un colpo di stato, prese il potere cambiando le carte in tavola e mettendo a ferro e fuoco l’intero paese. Tutte le promesse e gli accordi, sia per gli Shan che per le altre minoranze, vennero cancellati e qualsiasi tentativo di ribellione soppresso nel sangue.

La nostra visita alla SSA si concluse con l’intervista, la nostra missione fu portata a termine. Il terzo giorno finalmente i generali si decisero di concedercene una, di parlare davanti agli obbiettivi delle nostre telecamere.
Fino all’ultimo vivemmo nell’incertezza e nella speranza di un “sì” che però tardava ad arrivare. Saigon cercava ripetutamente di tranquillizzarci: “vedrete che ce la concederanno”.
I motivi di tanta indecisione erano diversi: primo c’era il fatto della loro completa incertezza sul nostro non essere spie, poi si doveva capire se mostrare i propri volti alle telecamere, che li avrebbero poi ingranditi e proiettati sugli schermi di tutto il mondo, era saggio. Infine esisteva il problema di decidere se e come fare entrare questi quattro stranieri, accompagnati da uno Shan, nel cuore del Quartier Generale: luogo segreto dalla locazione estremamente confidenziale.
La mattina alle cinque e mezza spaccate rivetti una botta da parte di Jeffry - “svegliati! C’e’ il generale!”.


Dormivamo tutti e cinque accucciati per terra nella palafitta di bambù di un contadino che, o per gentilezza o sotto ordine, ci aveva ospitati per quella notte.
Mi alzai di scatto, mettendomi quasi sull’attenti, e prima ancora di rendermi conto di dove fossi e di cosa stesse succedendo risposi con le uniche due parole in Shan che avevo imparato fino a quel giorno: “Buongiorno Generale!”
Lui ci fissò per alcuni istanti, ci sorrise e ci ordinò di andare a sciacquarci. Dopo una breve colazione sarebbe venuta a prelevarci una jeep che ci avrebbe condotti al Quartier Generale.
Non potevo crederci, avevano accettato!
L’auto era una 4x4 verde militare con, per l’occasione, tutti i finestrini coperti da lenzuola scure. Non dovevamo intravedere nulla e soprattutto nessuno doveva intravedere noi.
Al termine di un viaggio durato circa mezzora, la jeep si fermò di fronte a un’enorme struttura di cemento, anche lei verde militare. Sul tetto piatto spuntavano diverse antenne paraboliche.
“Svelti entrate”- ci fu comandato, e noi ci precipitammo verso l’unica porta che si affacciava su quel lato della struttura.


Il cuore mi batteva fortissimo, ero eccitato, incredulo, soddisfatto. All’interno si aprì un salotto dalla vastità enorme. Circa quindici generali, verdi, dalle divise lucide e stirate, ognuno con una sfilza di medaglie colorate e piene d’importanza a luccicargli sui petti, si alzarono di colpo e, senza spostarsi dal punto in cui si misero in piedi, ci salutarono con la mano offrendoci un caloroso sorriso di benvenuto.
Lo stanzone non era niente di ché, se non fosse stato per le bellissime panche di tek, intarsiate e lucidate, poste ad intermittenza lungo i quattro muri.
Ad uno ad uno ci presentammo. Ad uno ad uno si presentarono. Il Generale, capo assoluto della SSA fazione Nord, sedeva ad un tavolo da solo, di fronte a lui, ossia ai lati della stanza, sedevano tutti gli altri, su quei bei divani di legno.
Dalle camice a maniche corte spuntavano da ognuno due braccia completamente tatuate, alcune muscolose, altre rugose dai peli bianchi.
L’interprete dall’inglese poverissimo era nervoso, sicuramente di parecchi gradi inferiori, doveva essere terrorizzato nel trovarsi nella stessa stanza con tutti quei capoccia messi insieme. Anch’io, che non ho mai amato le gerarchie, devo ammettere di aver provato una sensazione simile alla sottomissione.


Noi eravamo lì per farci raccontare la loro storia, ma più di ogni altra cosa eravamo lì per dar loro la possibilità di lanciare uno o più messaggi al mondo che ci appartiene e che loro vedono così lontano, sognandolo salvatore: l’Occidente. Io volevo renderglielo chiaro. Volevo che si aprissero come uomini, come soldati, come generali, come capi e come membri di un’etnia sottomessa. Ho chiesto loro di parlare alla telecamera immaginando si rivolgersi al presidente Bush (sempre perché visto come potenziale aiuto), al Segrtario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, chiesi loro persino di immaginarsi, al posto dell’occhio di vetro della nostra Canon, Than Shwe, il leader del regime che li tiene schiacciati.


Loro lo fecero. L’interprete dall’inglese poverissimo tradusse.
Le storie non cambiano, cambia solo chi le racconta. Per la prima volta le sentivo da parte di uomini adulti in uniforme, con tanto di gradi e importanza a luccicargli negl’occhi. Stupri, torture, prepotenze, sottomissioni, dolore e sofferenza. Ci dissero che nonostante la tenacia stanno perdendo, giorno dopo giorno, la lotta contro i loro oppressori. Non hanno fondi, i confini geografici se li vedono stringere sempre più a torno. Le malattie, la fame, la povertà.


Al termine dell’incontro, prima di risalire su quella jeep che censurava la vista dal finestrino, tra i saluti calorosi, gli scambi di indirizzi e gli inviti a tornare a trovarli in qualsiasi altro momento, sentii pronunciare, da uno dei generali più anziani, una richiesta che mi congelò sull’istante. Si rivolse a Jennifer, l’unica donna del gruppo, e sussurrandole nell’orecchio le chiese sottovoce: “signorina la prego, ci faccia arrivare delle armi!”


 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.