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N. 22 - Ottobre 2009 (LIII)

aSIA, BUDDHA E UN REPORTER SENZA LAVORO
PARTE VI - Cambogia dolce Cambogia
di Gianrigo Marletta

 

Mi stavo scoraggiando. Persa l’ispirazione avrei quasi abbandonato il Vietnam senza neanche scriverne una parola.


Saigon o meglio Ho Chi Minh city mi è parsa come una brutta, caotica e puzzolente copia di New York, le città costiere solo un ammasso di strutture in cemento fatte per accogliere il maggior numero di turisti possibile e gli altipiani centrali una deprimente versione della Svizzera.


Un Vietnam diverso da quello vissuto e raccontato da un Giorgio Bettinelli: quella Saigon vista come meta finale, come punto di arrivo, trofeo finalmente conquistato dopo 24.000 chilometri percorsi a bordo di una Vespa.


Bettinelli ne parla bene, ne apprezza gli abitanti, descrivendo benissimo quel fardello di dolore ancora portato sulle spalle, così dignitosamente sopportato e anzi trasformato in sorriso e cortesia.


Un sorriso e cortesia verso lo straniero occidentale venuto proprio da quell’occidente (prima francese, poi americano) che tanta pena venne fin qui a distribuire.


Un sorriso e cortesia che sono sopravvissute a due guerre, due invasioni, migliaia di morti, torture, napalm, ma che a malapena ce la fanno a perdurare l’influenza del turismo, questo turismo di massa che li rende aggressivi, bramosi e, a mio giudizio, arroganti.


O forse l’espressione adatta sarebbe contro-arroganti, cioè quell’atteggiamento quasi di difesa, tipico di ogni popolazione troppo a stretto contatto con questo nuovo fenomeno, da un’arroganza più gratuita e da quel senso di superiorità tipico di molti, troppi visitatori.


Allora Saigon, e il Vietnam in generale, venivano appena visitati.


“Per le strade di Saigon vedevi circolare pochi stranieri, backpakers e “viaggiatori” più che turisti nel vero senso della parola, i quali avevano quasi tutti, indistintamente e loro malgrado, una comica sindrome da voyeur a luccicargli negli occhi. E ancora meno stranieri vedevi ad Hanoi, la capitale del Vietnam riunificato […]. In quell’inizio di Marzo 1993, quando parcheggiavo la Vespa davanti al chiosco di bibite il Vietnam non era ancora diventato una destinazione turistica troppo “alla moda”; il Club Med non vi aveva ancora aperto un villaggio con animatori fracassoni, e le agenzie di viaggi lo includevano timidamente nei loro programmi.”

Così scrive Bettinelli nel suo diario di bordo ‘in Vespa’.


Volo 809 della Pacific Airlines da Hanoi a Saigon. Sono seduto vicino al finestrino sul lato sinistro di questo antiquato Boeing 737.


Dall’oblò, enorme e chiara, risplende la luna da qualche giorno ormai calante. Nelle ultime ore, da quando il taxi collettivo mi ha piantato all’aeroporto, mi è tornata intorno tutta la modernità dalla quale ero scappato e che non vedevo da due mesi.


Persone pulite e benvestite, businessman solitari, vietnamiti diversi da quelli che si vedono per strada: sputacchiosi, sporchi e sempre, in un modo o nell’altro, a chieder soldi.
I pavimenti risplendenti, le file di persone perfettamente ordinate, cartelloni scorrevoli illuminati, voci delicate e metalliche che danno indicazioni dagli altoparlanti invisibili, negozietti puliti e costosissimi: la tipica menzogna dell’aeroporto.


La luna è davvero bella. Risplende tutta sola appesa a quell’immensa parete buia.
Arrivo a Saigon dove passo la notte. Nella lenta fuga dal Vietnam verso il ritorno in Cambogia mi sono ostinato, per l’ultima volta, a fare il turista ‘fai da te’.


Sfidando l’imponenza dei tour operator impacchettati e organizzati che in questo paese regolano i ritmi e gli spostamenti dei turisti, mi trovo ora seduto nell’ufficietto caldo, sporco e appiccicoso della grande stazione degli autobus di Ho Chi Minh City.


Tra un quarto d’ora partirà il mio pullman (per gente locale) per My Thon, nel cuore del Delta del fiume Mekong.


Tutto intorno a me è tipico Vietnam. Donne con i cappelli a cono che spingono carretti o che tengono in bilico su una spalla un lungo bastone con due secchi penzolanti dalle estremità, uomini che urlano, strillano, con aria sempre nervosa ma pronti a rispondere, a un sorriso, con un sorriso.


Saigon oggi è un torpore. Ci saranno trentacinque gradi e i due ventilatori attaccati al muro di questo piccolo ufficio non fanno altro che muovere aria calda. Il sole però è splendente e questo rende tutto più allegro.


È iniziato tutto alle sei del mattino quando, nella stanza 208 della Six Guest House mentre impacchettavo le ultime cose da mettere nello zaino, mi sono accorto di aver dimenticato, appoggiato sulla mensola della stanza numero 5 della Hein Guest House, nella cittadina che ho lasciato ieri a tre ore di autobus, il mio lettore MP3.


Questo marchingegno oltre a essere molto costoso, contiene tutte le fotografie scattate durante il viaggio che man mano salvavo nella sua memoria.


Alle sette partiva il mio traghetto per la Cambogia, il mio visto stava scadendo e io avevo appena iniziato ad inveire prendendo a pugni ogni cosa mi capitasse sottomano.
Dopo una serie di telefonate la fortuna e la gentilezza della proprietaria della Hein Guest House hanno fatto sì che, alle tre del pomeriggio, il mio MP3 sarebbe arrivato a me tramite l’autista della corriera.


Il traghetto era partito, il prossimo sarebbe stato alle sette dell’indomani mattina e io, una volta riottenuto il mio marchingegno, dovevo assolutamente attraversare quel confine: quello stesso giorno.


Alle tre e mezza cominciai a fare l’autostop. La frontiera distava non so quanti chilometri.


Finalmente un ragazzo, proprietario di un motorino, mi raccatta dal ciglio della strada offrendomi, in cambio di una fregatura, di trasportare me e i miei due bagagli fino a dove il Vietnam terminava.


Di nuovo il confine. Di nuovo il paesaggio che lentamente cambia.


Sporchi alla stessa maniera i due paesi indossano vesti molto diverse.


Il Vietnam, finto fighettino, cerca di atteggiarsi mostrando tutto il cemento di cui le case son fatte, le immense ricche risaie verdissime, in realtà farcite di rifiuti e buste di plastica e i suoi, particolarità di questo paese, internet caffè in cui centinaia di giovani e giovanissimi passano tutto il giorno a rincoglionirsi davanti a un videogame, lo stesso per tutti, di un omino che balla regalando punti.


Seduto in sella al motorino dietro al mio ‘moto driver’, felice di lasciare un paese vissuto come arrogante e maleducato, finto ricco e turisticamente impacchettato, osservo con gioia il paesaggio cambiare.


Pian piano la strada da asfalto torna a essere d’argilla, le case diventano palafitte, il cemento si trasforma in legno. Attraversiamo un ponte di corde e legno marcio.


L’idea del peso del motorino sommato al mio, a quello del guidatore e a quello dei miei due bagagli non mi fece stare affatto tranquillo. Lo attraversai interamente a occhi chiusi e fortunatamente dopo pochi secondi fummo già dall’altra parte. Presto si presentò un altro fiume da attraversare ma stavolta a trasportare i passanti vi era ad attendere un piccolo, spartano, traghetto di legno. La traversata durò dai quaranta ai cinquanta secondi.


Pochi chilometri più avanti lungo la strada che ormai riportava in tutto e per tutto alla Cambogia spuntò una capannina di legno. “Ecco il confine” - mi congedò il ‘moto driver’.
Sapevo già che dopo averlo attraversato avrei dovuto dormire lì da qualche parte, in quel villaggio di capanne e senza nome, sapevo anche che la barca per Phnom Penh sarebbe passata l’indomani mattina.


Quello che non sapevo era che in quel villaggio di capanne, tutte disposte lungo una strada di argilla circondata da fitta boscaglia, non vi era nemmeno una guest house né un piccolo albergo. Fu il poliziotto cambogiano stesso a chiedermi, dopo avermi timbrato il passaporto: “e ora cosa fai? Dove vai?”


“Ma come, sono io a dover fare questa domanda a lei!” - avrei voluto rispondergli e invece mi uscì - “non si preoccupi, qualcosa troverò”.


Col peso enorme di un bagaglio sulle spalle e uno da tenere in mano mi avviai lungo la strada di argilla verso una delle uniche due direzioni.


Appena pochi passi dopo mi venne incontro un uomo che, con un ottimo inglese, mi chiese se avevo bisogno di un posto dove stare.


“Si!” - Mi propose dunque una stanza a dieci dollari.


“Dieci dollari?!” - Decisamente troppo considerando che in tutti i paesi che ho visitato negli ultimi anni non ho mai pagato più di cinque.


Sfidando le circostanze rifiutai. E quando mi avvertì che non vi sarebbe stata altra accomodazione per passare la notte, che rapidamente si avvicinava, rifiutai di nuovo.
Conosco la gentilezza e l’ospitalità del popolo khmer, è unica e non ha niente a che vedere con l’opportunismo che ho trovato in Vietnam.


Quell’uomo non sarà certo khmer, mi son detto proseguendo per la mia strada.


Avanzando un’altra manciata di metri un uomo ubriaco, dall’aria simpatica, mi sorrise. Colsi la palla al balzo e mi autoinvitai nella sua palafitta.
“Five Dolla, ok?” - gli offrii cinque dollari.
Gli occhi gli si illuminarono - “Ok!”


Passai così la notte sulla tavola di legno, nella stanza da letto del figlio che era andato a trascorrere qualche giorno nella capitale.


Seppur nascosto sotto la zanzariera le pulci mi mangiarono vivo.
Non chiusi occhio e mi grattai freneticamente tutta la notte.


Il bagno, ovviamente esterno alla casa, mi sembrava così lontano che preferivo tenermi tutto dentro; quella paura di incontrare cobra e scorpioni lungo la strada, nel buio pesto della notte però aumentava drammaticamente il mio bisogno di fare pipì.
Il giorno dopo ero di nuovo a Phnom Penh.


Il mio ritorno in Cambogia avvenne per un motivo ben preciso: volevo scrivere un articolo che mi venisse pubblicato in Italia, un reportage che servisse a qualcosa, che pubblicizzasse un settore valido, che portasse attenzione in una direzione giusta.


Mi recai a Batambang dove si trova l’ospedale Ilaria Alpi della ONG italiana Emergency. Il mio articolo venne pubblicato per la prima volta su una rivista italiana: 50&più.


 

 

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