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N. 19 - Luglio 2009 (L)

ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE III - a caccia del bombardiere pentito

di Gianrigo Marletta

 

Da un documentario televisivo apprendo una storia simile a quelle delle favole, in cui l’uomo cattivo, pentito, diventa buono e tenta di salvare il maggior numero di vite possibili. Quest’uomo, per me senza nome, era un pilota di B-52 dell’aviazione statunitense durante la guerra contro il Vietnam. Partecipò a gran parte delle 3.000 missioni (segrete) che presero il nome di Operation Menù.

 

Questa operazione durò circa quattro mesi con lo scopo di distruggere ogni presenza Vietcong intorno al confine Vietnam/Cambogia. Furono lanciate così 500.000 tonnellate di esplosivo che uccisero più di 700.000 persone, tutte in territorio cambogiano.

 

Finita la guerra, probabilmente divorato dal rimorso, il nostro pilota decise di raggruppare i suoi capitali e di investirli in Cambogia, precisamente per la costruzione di un centro di cura per i mutilati. Vive così da anni circondato da coloro ai quali lui stesso forse, un giorno, causò la rovina.

 

Capì poi che il suo contributo non era abbastanza, costruire e dare le protesi metteva sì le persone su due gambe, ma non metteva poi le due gambe in un posto di lavoro. I mutilati, infatti, in questo paese, sono spesso emarginati ed impossibilitati a trovare o a continuare il proprio mestiere. Costruì dunque una piccola fabbrica tessile, in cui i pazienti intrecciano scialli e lenzuola vendendole successivamente a chi le commercia.

 

Questa storia mi affascinava e seppure “rubata” a un Tele Reporter, mi sembrava d’obbligo scriverla su carta.

 

La Cambogia é piatta, completamente piatta. É arida nella stagione secca e umida e paludosa in quella delle piogge. Offre paesaggi e colori spettacolari ai viaggiatori, grande fertilità ai coltivatori, ma grandi facilità, in passato, per coloro che minarono quasi un terzo del paese ed enormi pericoli, oggi, per chi in quella infinita pianura ci si addentra. La Cambogia è tra i paesi più minati del mondo. 

 

Ma tutte queste mine chi le ha messe? Viene spontaneo domandarsi. La risposta implica una profonda ricerca ed una buona conoscenza della storia di questo paese.

 

Tentando comunque di riassumere brevemente la cronologia di tre decenni si può tracciare così la sequenza dei fatti:

 

Durante la guerra tra U.S.A. e Vietnam, la Cambogia, neutra, fu spesso utilizzata dai Vietcong come nascondiglio e canale di passaggio da una regione all’altra del Vietnam.

 

Un altissimo numero di mine venne dunque depositato in quegli anni dalle forze comuniste in fuga.

 

Gli americani a caccia di Vietcong aggiunsero un loro modesto carico.

 

I Khmer Rossi, mezzo decennio dopo la fine della guerra americana in Vietnam, contornarono di mine il confine del piccolo territorio al nord in cui si rintanarono per ripararsi dai vietnamiti venuti a liberare il paese.

 

Allo stesso tempo gli stessi vietnamiti per colpire i Khmer Rossi sotterrarono le loro.

 

Questi ultimi tentarono, con la riuscita di qualcuno, di scappare in Tailandia. La Tailandia, per evitarne la migrazione, minò il confine tra i due paesi.

 

I vietnamiti lasciarono il paese ormai liberato in mano al nuovo governo cambogiano il quale minò nuovamente il confine per non far tornare quei Khmer Rossi che si erano rifugiati in Tailandia.

 

Il risultato? Sei milioni di mine, più di trentotto modelli diversi, fabbricate in oltre nove paesi, rimaste ancora inesplose.

 

La scoperta del passato é assai coinvolgente e cercando il mio pilota m’imbatto in un’altra storia interessante, un’altra vita affascinante, un altro destino incredibile.

 

Aki Ra, un ragazzo alto poco più di un metro e mezzo, nacque nel 1973 nella Cambogia del nord. Due anni dopo, con l’invasione dei Khmer Rossi, gli furono uccisi entrambi i genitori e lui, piccolissimo, fu spedito in uno di quei campi 'educativi' in cui insegnavano le uniche due cose che ogni Khmer, secondo Pol Pot, doveva saper fare: amare il partito ed uccidere i nemici.

 

La prima arma gli fu consegnata quando compì dieci anni e da quello, fino al tanto sofferto giorno in cui la posò, che arrivò nel 1998, non se ne separò mai.

 

Inizialmente combatté al fianco dei componenti della sua unica famiglia, i Khmer Rossi. Catturato successivamente dai Vietnamiti fu posto davanti ad una scelta: la morte o l’arruolamento nel loro esercito.

 

Si trovò dunque molto presto a sparare contro i suoi “fratelli” unito a coloro che lui stesso, ormai, vedeva come liberatori. Quando questi “invasori buoni” tornarono in Vietnam lasciando il posto al nuovo governo cambogiano e successivamente al corpo di pace delle Nazioni Unite, Aki Ra si arruolò nel nuovo esercito.

 

Fu poi chiamato dall’ONU in aiuto per la bonificazione delle aree minate. Dal ‘98 dunque, data in cui morì Pol Pot, ad oggi, Aki Ra, prima con la divisa dell’esercito ed ora senza uniforme né gradi, ha lavorato e scavato incessantemente estraendo dal suolo fino a trecento mine al giorno.

 

Oggi quest’uomo, privo di un’educazione ma dal cuore molto grande, ha creato, sotto un tendone di stoffa sorretto da rami e pali di bambù, un museo chiamato Landmine Museum in cui sono raggruppate e suddivise per tipo, centinaia di migliaia di mine, bombe, missili e proiettili inesplosi, perfettamente intatti, esposti insieme ad un grandissimo numero di foto e documenti. 

 

Per ogni turista che lascia un’offerta di due dollari, lui riesce, coprendo le spese dei materiali e un misero stipendio ad uno staff di aiutanti, a estrarre dal suolo circa tre mine. Questo patriota coraggioso non sapeva nulla del mio pilota, mi lasciò pieno di utili informazioni sugli ordigni esplosivi ma vuoto d’indicazioni su come rintracciare il bombardiere pentito.

 

Alla Handicap International Center, una delle organizzazioni mondiali che si occupa di tutte le malformazioni genetiche e accidentali che impattano sugli arti, mi arriva la conferma che nessun ospedale qui in Cambogia per le persone adulte, a parte il Centro Chirurgico Ilaria Alpi a Batambang, é gratuito.

 

Neanche per i poveri calpestatori di mine. Un intervento chirurgico va dai 75 ai 150 dollari e, sempre secondo i dati ufficiali della Handicap International, il costo di una protesi (va ricordato che queste, come un paio di scarpe, vanno consumandosi e dunque rimpiazzate ogni due anni e per un bambino in crescita ogni sei mesi) va dai 120 dollari per le amputazioni dal ginocchio in giù ai 180 dollari per quelle dal ginocchio in su. Lo stipendio medio di un lavoratore Khmer é di 40 dollari al mese.

 

“Noi applichiamo gratuitamente le protesi e assistiamo i pazienti con tutta la fisioterapia necessaria” - spiega Eng Saloth, Manager del reparto d’informazione della Handicap International - “ma le prime cure e le amputazioni sono fatte negli ospedali e quelle devono pagarle i pazienti”.

 

A primo impatto mi viene da sospettare di questa Handicap International - come ormai sospetto di tutte le grandi organizzazioni umanitarie internazionali - perché potrebbe essere una di quelle che “spendono l’80% delle donazioni in spese amministrative” come mi avvertì l’infermiera volontaria per Emergency, durante la mia visita a Batambang.

 

Il mio sospetto, rafforzato dalla bella presenza dell’ufficio in cui sono accolti i visitatori, si manifestò presto sottoforma di domanda: “Quanto spendete voi in amministrazione?”

 

Fui parzialmente smentito. Eng Saloth non mi ha risposto, mi ha fatto direttamente vedere con i miei occhi. Nessun locale é raffreddato da erogatori d’aria condizionata, lo staff lavora in uffici e ambienti molto modesti, il cuoco é uno solo e cucina per tutti e l’unico autista é anche colui che sbriga tutte le commissioni. Gli stipendi sono bassi, i beni non sperperati e a me non resta che sperare che lo stesso avvenga negli uffici amministrativi in Belgio, Francia e Stati Uniti.

 

Il centro della Handicap International di Siem Riep é comunque di vitale aiuto per il sostentamento della popolazione locale. Ogni mese al suo interno vengono riabilitate circa 230 persone, fornite dalle 75 alle 85 protesi e spedite circa 280 visite a domicilio ai pazienti immobilizzati.

 

Anche da questo istituto esco riempito di utili nozioni, ma nessuno ne ha mai sentito parlare, quindi trovare l’americano pilota diventa quasi un’utopia. Prendendo però spunto dal suo lavoro decido di scoprire quante associazioni che forniscono posti di lavoro a questi mutilati esistono. Vedendone tantissimi per le strade a chiedere l’elemosina, mi viene il sospetto che non ve ne siano molti.

 

La storia di Chou Phon, 45 anni, ex soldato “Khmer Rosso” accecato da un razzo nel 1982 é davvero una rarità. Egli parla con fierezza in un’intervista al The Cambodia Daily: “non sono malato, perché dovrei chiedere l’elemosina?”.

 

Chau Phon riesce ancora a fare bene il suo lavoro da contadino “ed ora” – racconta - “le cose, invece di vederle con gli occhi, le sento con le orecchie”.

 

La moglie di 44 anni, Sek Pin, anche lei carnefice tra i militanti Khmer Rouge la quale ha perso la gamba sinistra su una mina nell’83 dice: “ho solo una gamba, ma posso benissimo badare alla mia famiglia. Sono determinata a non abbassarmi mai a chiedere l’elemosina”.

 

Certo é che questa coppia, attiva in brutali assassinii in passato ed ora semplici monchi che inducono molta pena, rimane tra quelle più fortunate, con un tetto sotto cui ripararsi ma soprattutto con un campo, se pur modesto, da coltivare.

 

“Sulla strada” - infine dicono - “si guadagnano due dollari e mezzo al giorno che sono tanti. Chi é che preferirebbe, come facciamo noi, a lavorare per la metà di quella somma?”. 

 

Molti cartelli affissi qua e là per la cittadina di Siem Reap pubblicizzano un concerto che avviene tutti i sabati alle 19:15 nell’ospedale della Kantha Bopha Foundation, chiamato da tutti “l’ospedale per bambini”.

 

Speranzoso di trovare lì qualche utile informazione per rintracciare il bombardiere americano pentito, decido di andare a vedere. Alle 19:10, arrivando con la mia bicicletta, si aprì dinnanzi a me un edificio alto ed imponente fatto di mattoni rossi.

 

Una gigantesca testa di Buddha, copia di una delle statue presenti nella vicina Angkor Wat, veglia su tutto l’ospedale incastrata in un gazebo appoggiato sul tetto dell’edificio principale.

 

La folla, che contava diverse centinaia di persone, tutte occidentali, entrava come un serpentone nell’auditorium sorprendentemente di un lusso straordinario. Le pareti ed il palco in tek, l’aria condizionata gelida, le poltrone imbottite, il sistema d’illuminazione futuristico e l’impianto video ed acustico modernissimo, a primo impatto mi fecero visualizzare in concreto quell’80 % di “spese amministrative” di cui mi parlò l'infermiera di Emergency.

 

Il pubblico, che riempiva ogni singola poltrona, sembrava assai incuriosito quando, accomodandosi, notava che seduto sul palco vi era un signore basso e grassottello, con occhiali spessissimi, abbracciato a un violoncello. Per le 19:15 eravamo tutti seduti e in silenzio. Fu in quel momento che l’uomo dall’aspetto buffo iniziò a suonare un pezzo di Bach.

 

Le aspettative di ognuno dovevano essere diversissime. Dai cartelloni pubblicitari si poteva immaginare che la musica sarebbe stata suonata da un’orchestrina di bambini o che i piccoli pazienti, uno ad uno, si sarebbero esibiti con qualche canzoncina. Invece al centro dell’attenzione di quel vasto pubblico c’era un uomo, per giunta in età avanzata!

 

Finito il pezzo e l’applauso che lo seguì, con quattro battute di spirito, seppure su argomenti profondissimi, fece scoppiare quattro risate ingenue e spontanee da parte di un pubblico ormai attentissimo. Fu una velocissima ora e mezza.

 

Il dottor Beat Richner, questo il suo nome, fondatore del Kantha Bopha Foundation, alternando musica, parole ed immagini regala così, tutti i sabati sera, forti emozioni e grasse risate alle migliaia di persone che curiose vanno ai suoi “concerti” nell’ospedale per bambini.

 

Da pediatra alle prime armi, lavorò in un piccolo ospedale pediatrico nella capitale Phnom Penh dal 1974 fino al tragico momento di quel ‘75 in cui, con l’arrivo dei Khmer Rossi, dovette fuggire, lasciando alla morte tutti i suoi colleghi ed amici.

 

Nel 1991 fu invitato dall’appena rimpatriato Re Sihanouk per ripristinare quella parte dell’intera inesistente istituzione medica, dedicata ai bambini. Fu così che in quello stesso anno fu ricostruito l’ospedale di Kantha Bopha I, il centro in cui aveva lavorato sedici anni prima, disponendo ora di 126 posti letto.

 

Nel 1996 fu fondato sempre a Phnom Pen, il Kantha Bopha II e niente poco di meno che all’interno del palazzo reale. Questo centro, il cui spazio fu donato nuovamente dal Re, contiene 210 letti.

 

Infine nel 1999, nell’area ben più critica e paludosa di Siem Reap, fu fondato lo Jayavarman VII Hospital con i suoi 555 posti letto.

 

L’impegno profuso negli anni successivi ha visto, oltre all’espansione con nuovi reparti dello stesso Jayavarman VII Hospital, anche la nascita di un Centro Conferenze e di Formazione per la divulgazione della “filosofia di Kantha Bopha”.

 

In quel centro, io insieme al pubblico, eravamo tutti seduti, ammutoliti e concentrati nell’ascolto. Presentando un quadro generale, Beat Richne, parla della situazione sanitaria in Cambogia definendola catastrofica.

 

Racconta delle nuove vittorie tecnologiche che hanno ridotto drasticamente il numero d’infetti da AIDS: “con i nuovi farmaci riusciamo ora ad evitare il passaggio del virus dell’HIV dalla madre al figlio nascituro”.

 

Spiega come solo nella giornata di oggi, di questo sabato 17 febbraio 2007, ci sono state presso il suo ospedale cinquantaquattro nascite, di cui la maggior parte affette da malattie e deformazioni. Ripetendo spesso la frase: ”la situazione sanitaria in Cambogia é catastrofica” - elenca, sempre nella sua maniera unica, profonda e spiritosa, le tre ragioni per cui, secondo lui, tale situazione catastrofica sia presente: la guerra, la “negativa attitudine” da parte dei paesi occidentali e la corruzione.

 

La guerra in questo paese, e non teme di ricordarlo, fu portata dall’Occidente.

 

“La guerra” - insiste - ”ha portato la tubercolosi, conseguenza di quei decenni di miseria non ancora finiti e che negli anni ha continuato a spargersi, trovando (il virus) diverse forme per adeguarsi ai diversi sistemi immunitari” - e poi definisce questa malattia: “killer numero uno”.

 

Passò poi alla sua teoria su “l’attitudine negativa” da parte dei paesi occidentali.

 

Durante un filmato che raccoglie immagini riprese nei tre ospedali della Kantha Bopha Foundation, la sua voce al microfono spiegava che, di tutti i bambini presenti in quei fotogrammi e che davanti agli occhi dell’intero auditorium entravano in shock e morivano, nessuno nei paesi così detti evoluti ne ha parlato.

 

Questo perché il mondo era troppo impegnato ad avvertire le proprie popolazioni dell’imminente pericolo con cui il nuovo virus SARS in quegli anni stava contaminando l’Oriente.

 

Spiegò anche che in Cambogia non ci fu un singolo caso di SARS, ma che nel 2006 dodicimila bambini sono morti affetti dalla DENGUE.

 

Il dottor Beat Richner, sempre con il suo spirito energico e divertente, raccontò alla sua platea di come, nelle ultime visite da parte di alcune delegazioni di certi paesi europei, fu accusato di aver adottato degli standard troppo alti rispetto al basso livello economico del paese.

 

“Questo” - continua - “l’idea che i paesi poveri debbano avere una povera istituzione medica, é l’idea che ha ucciso milioni di persone e che tutt’oggi continua a fare un altissimo numero morti. Per evitare il contagio dell’AIDS o dell’Epatite da un donatore di sangue a un paziente, bisogna fare delle analisi adeguate, moderne e costose, seguire dunque gli standard europei. Per vedere le emorragie nel cranio di un bambino in Cambogia ci vogliono gli stessi strumenti per vedere l’emorragia nel cranio di un bambino in Europa”. Con altri esempi del genere fece davvero riflettere su questa sua idea della negativa attitudine da parte delle delegazioni dei paesi sviluppati.

 

“La corruzione” - spiega infine - “é un’altra tra i principali killer”. In un paese in cui le cure gratuite avvengono solo in pochissimi ospedali fondati da organizzazioni internazionali, quali EmergencyKantha Bopha, la corruzione decide la sorte delle persone.

 

“Chi non ha il contante muore” - con questa fredda espressione mise tutti davanti a tal crudele realtà. Nel suo ospedale, e solo lì, la corruzione fu abolita dall’inizio. Questa vittoria fu ottenuta grazie ai buoni salari che l’organizzazione distribuisce al personale medico, che quindi non deve rivolgersi ai pazienti per ulteriori “paghette”.

 

Concluse la serata con una formula simpatica, chiedendo agli spettatori più giovani donazioni di sangue, a quelli più anziani donazioni di soldi e a quelli in mezzo una donazione di tutti e due.

 

Forse é proprio vero che quando si cerca una cosa se ne trovano altre cento. Il pilota del B-52 che da killer diventò salvatore non sono riuscito a trovarlo, in compenso ho scovato queste tre storie che mi auguro facciano riflettere almeno per un istante.

                                                

Sono sdraiato su un divanetto appoggiato sulla terrazza affacciata sul lago Boeng Kak.

 

Il suono delle piccole onde che s’infrangono contro il bordo della balconata mi culla e la vista delle stelle, che invadono l’intero mio campo visivo, rendono l’ebbrezza di natura ancora più inebriante.

 

Mi viene da ringraziare. Dire grazie a quel qualcosa che rende vero tutto questo, che rende me testimone di tanto splendore. Sono grato e mi sento fortunato.

 

Questa guest house è per me, per i miei gusti, perfetta. I lumini a candela illuminano i tavoli bassi disposti lungo la terrazza. I divanetti, di un legno leggero e alti qualche centimetro, sono l’espressione della comodità.

 

La musica è ora di quelle rilassanti a tratti elettronica a tratti indiana. Gli alberelli sparsi qua e là di giorno sfoggiano il rosso acceso dei tanti fiori che li ricoprono, di notte invece si illuminano con le centinaia di lucine colorate che in occidente indicherebbero l’arrivo del natale.

 

L’atmosfera è bella. I pochi turisti che alloggiano qui, nella Lake Side Guest House, passano qui gran parte del loro tempo. Molti viaggiatori solitari, quasi tutti anglosassoni, alcune coppie e qualche ragazzo cambogiano, adoratore delle chiacchierate fatte di luoghi comuni.

 

Io tendo sempre di più a chiudermi in me stesso. Le conversazioni tra viaggiatori ormai mi danno la nausea. Si inizia sempre alla stessa maniera: con un background fatto di domande sulla provenienza, nazionalità ed intenzioni sui futuri spostamenti.

 

Ognuno con la propria storia da raccontare e nessuno col vero interesse su ciò che l’altro ha da dire. Discorsi vuoti sul prezzo di biglietti, trasporti, vestiti e souvenir.

 

Se poi le “energie” s’intrecciano in maniera positiva ed entrambe le parti rimangono colpite, ecco che si scambiano anche gli indirizzi e-mail, indirizzi che inevitabilmente poco dopo andranno a finire nel dimenticatoio di un’anonima pagina di un quadernetto da viaggio.

 

Poi mi pongo una domanda esistenziale: se le sensazioni che ognuno prova viaggiando sono così eternamente individuali eppure tanto identiche per moltissimi, e i metri di giudizio incredibilmente comuni a tanti, addirittura da essere raccolti in libri-guida come una Lonely Planet, perché vengono (le persone) in questi posti alla ricerca di qualcosa di diverso? Perché seguo anch’io questo modello di ricercatore individuale appartenente ad un branco?

 

Alle persone qui intorno sembrano piacere le stesse cose che piacciono a me, seguiamo lo stesso percorso geografico, amiamo le stesse stranezze e diversità, eppure io mi sento diverso da loro e non voglio immischiarmi.

 

Sento di dover giustificare, soprattutto a me stesso, la mia presenza qui e la scusa che mi viene in mente è che… io sono qui per raccontare.

 

Se ora facessi un buco a terra, scavando oltre il centro del pianeta, sbucherei certamente molto vicino all’Italia.

 

Sono dall’altra parte del mondo. E da qui voglio raccontare, nella speranza di accendere un barlume di curiosità nella mente di qualcuno.

 

E che questo qualcuno possa andare nell’armadio a cercare una sacca, armarsi di passaporto e spirito di avventura e venire lui stesso a sedersi qui, a guardare queste stelle ed a parlare con questi indigeni.

 

Viaggiare è bello, muoversi, cambiare, provare, rischiare.

 

Nuovi odori, nuovi sapori, nuove lingue, nuove visioni, nuovi orizzonti.

 

Tutto è nuovo.


 

 

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