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N. 54 - Giugno 2012 (LXXXV)

Tutela del paesaggio
dai singoli stati italiani alla legge croce

sul patrimonio artistico e paesaggistico
di Virginia Stampete

 

"Il paesaggio, sorgente sovrana di ogni ispirazione, attende ancora la difesa delle sue bellezze". Nicola Falcone

Nel 1912 lo storico e filosofo italiano Benedetto Croce si esprime a favore del paesaggio,dicendo che questo non è solo natura ma storia, e quindi come ogni monumento o bene di interesse storico artistico deve essere tutelato. Come scrisse infatti Ovidio, nell'opera Simulaverat Artem ingenio natura suo, la natura si ingegna ad imitare l'arte.


In quell'inizio di secolo i pensatori e gli intellettuali di mezza Europa iniziavano ad interrogarsi sulla conservazione del paesaggio, appunto come se fosse una vera e propria opera d'arte.


Benedetto Croce nelle sue riflessioni era infatti vicino all'intellettuale francese Charles Lalo e a Georg Simmel in Germania. A differenza dei suoi colleghi però Benedetto Croce riusci a trasformare il suo pensiero in realtà nel breve periodo che ha ricoperto il ruolo di Ministro della Pubblica Istruzione durante il governo Nitti. La sua fu infatti la prima legge per la tutela del paesaggio.


L'Italia detiene anche il primato di primo stato al mondo che ha inserito nella sua costituzione il rispetto del paesaggio. L'articolo 9 della costituzione della Repubblica Italiana, al comma 2 recita: La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione. Va evidenziato il fatto che nella tradizione giuridica italiana paesaggio e opera artistica viaggiano sempre insieme, come si nota anche dall'articolo 9 della costituzione.


Nell'Italia pre-unitaria già si rintracciavano i legami di questa unione tra paesaggio ed opera storico artistica. Il decreto del Real Patrimonio di Sicilia del 21 agosto 1745, simultaneamente impose la conservazione delle antichità di Taormina e dei boschi del Carpinetto a monte di Mascali col "castagno dei cento cavalli" (oggi nel Parco dell’Etna).


Autore del provvedimento fu il vicerè di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa a cui dobbiamo importantissime norme di tutela del paesaggio e dei beni architettonici, nonchè la fondazione del Museo Capitolino, e fratello del card. Neri Corsini, ispiratore del "patto di famiglia" Medici-Lorena (1737) che assicurò a Firenze in perpetuo le collezioni medicee.


Come si vede la conservazione del patrimonio paesaggistico e culturale era una prerogativa italiana anche prima dell'unità, ed è facile constatarlo nelle direttive prese in questa direzione da questi tre stati della Penisola, e cioè il Regno delle Due Sicilie, lo Stato Pontifico e il Granducato di Toscana.


Secondo un grande giurista, Sabino Cassese, si può anzi dire che l’art. 9 della Costituzione fu di fatto la "costituzionalizzazione" delle due leggi Bottai, una sul patrimonio artistico l’altra sul paesaggio, approvate entrambe nel giugno 1939. Esse furono, di fatto, la rielaborazione delle due grandi leggi dell’Italia liberale: la legge Rava-Rosadi del 1909 sulla tutela del patrimonio storico e artistico e, appunto, la legge Croce per la difesa del paesaggio.


Queste due leggi sono, da allora ad oggi, il fondamento della cultura italiana della tutela, oggi tradotta nel Codice dei BBCC e del Paesaggio (2004, con modifiche del 2006 e del 2008). Prima di parlare della legge Croce, sarà necessario evocare le origini della legge Rava-Rosadi del 1909.


In Italia, come abbiamo già accennato, la tutela del patrimonio artistico è antica, anzi si può dire senza commettere errore che è la più antica del mondo. In tutti gli stati italiani, eccezion fatta per il Regno di Sardegna, che in misura assai minore agli altri Stati che precedettero l'unificazione, si adoperò per la tutela del patrimonio storico artistico.


Questo stesso Stato fu però la guida italiana all'unificazione e fu poi, in seguito, pronto a recepire quanto di importante vi era nelle leggi di tutela stabilite dai singoli Stati che furono annessi.


Il Regno di Sardegna stabilì con il regio decreto del re Carlo Alberto nel 1832 che 'i provvedimenti propri a promuovere la ricerca, e ad assicurare la conservazione» degli oggetti di antichità e d’arte dovevano comunque esser tali da potersi attuare «senza ledere il diritto di proprietà.


Lo Statuto Albertino del 1848 riaffermò il principio che "Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili" (art. 29), temperandolo appena con l’ipotesi di esproprio dietro "giusta indennità" quando lo esigesse "l'interesse pubblico legalmente accertato".

 
Possiamo ben capire quanto gli altri Stati italiani fossero all'avanguardia se mettiamo le varie legislazioni a confronto. Negli altri Stati la proprietà privata era molto meno marcata se veniva a ledere qualcosa di interessa statale. Nel Regno Sabaudo le cose erano però molto diverse, e la tutela del patrimonio artistico passava in secondo piano.


Una tal difformità di cultura giuridica, di prassi amministrativa e di tradizione civile è probabilmente una delle cause che resero lungo e penoso il cammino verso una legge nazionale di tutela, che coordinasse le norme degli Stati preunitari o meglio le superasse con nuove norme coerentemente estese a tutto il Regno d’Italia.

 

Esso adottò come legge fondamentale lo Statuto Albertino; e in sintonia con esso il Codice Civile del 1865 definì la proprietà come "il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalla legge o dai regolamenti" (art. 436).


Non solo finché la capitale fu Torino, ma anche quando fu spostata a Firenze e poi a Roma, una parte significativa dell’alta burocrazia, della corte, del Parlamento e del governo era di estrazione piemontese, e forse per questo restia a piegarsi alla priorità della publica utilitas già largamente adottata nel resto d’Italia.


Invece di conservare le legislazioni vigenti negli antichi Stati italici, nel 1909 il Regno d'Italia decise di legiferare in maniera unitaria sulla conservazione del paesaggio e dei beni storico-artistici. Il punto dolente della norma legislativa, fu, come si può immaginare, la diatriba tra l'interesse pubblico e quello privato. In termini pratici i piemontesi combattevano per difendere la proprietà privata sopra ogni cosa, al contrario la tradizione romana, toscana e napoletana, anteponevano la conservazione dei beni artistici e ambientali al di sopra dei singoli privati.


Dopo l'unificazione della Penisola, il Primo Ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, con il ministro Mamiani, cercarono di unificare la legislazione paesaggistica che si dibatteva fra le istanze locali e il parlamento nazionale.


Mamiani non riuscì però ad elaborare un testo che fosse approvato in parlamento, dove i particolarismi nel neonato Stato erano troppo grandi e il potere centrale ancora troppo debole e desideroso di farsi ben volere ed integrare nel resto della Penisola. Nel 1868 il Consiglio di Stato tentò di disciplinare il paesaggio, ma senza effetto.


Il 13 marzo 1871 il Senato del Regno abolì i vincoli fide-commissari, che nella Roma dei Papi avevano garantito per secoli la “tenuta” delle collezioni delle grandi famiglie, vietandone la frammentazione anche se di piena proprietà privata, fu grazie a questi vincoli si conservano fino ad oggi grandi collezioni come quelle dei principi Colonna e dei principi Doria Pamphili.


Fortunatamente la Camera pose un argine allo smantellamento di questo istituto giuridico voluto dal Senato. La Camera essendo elettiva era formata da persone legate al territorio e che quindi avevano a cuore il benessere del luogo dal quale provenivano. I senatori, che erano di nomina regia, non avevano invece nessun problema a far smantellare collezioni ed opere artistiche o architettoniche di cui non si sentivano partecipi ne coinvolti.


La diatriba tra le due camere favorì la conservazione di questi tesori. Purtroppo però, la Camera poteva solo limitarsi a richiamare le antiche leggi dei singoli Stati, in modo da non far disperdere il patrimonio artistico, ma se una singola opera si spostava da Roma a Torino, la singola legge cadeva e quindi il Regno poteva farne l'uso che voleva e trasportare l'opera ovunque.


Il Ministro della Pubblica Istruzione, Cesare Correnti, esponente di spicco della destra storica, propose un disegno di legge volte alla conservazione dei beni artistici. La volontà del Ministro era infatti volta a tutelare la conservazione delle collezioni d'arte, in modo che l'interesse nazionale sia tutelato rispetto ai privati. E' infatti importante che la storia della Nazione fosse conservata per i posteri.


L'azione fu però osteggiata dal Senato Regio, che si erse energicamente bloccando la legge. Non ebbero miglior sorte gli analoghi progetti presentati dai successori di Correnti nel Ministero della Pubblica Istruzione: Ruggero Bonghi (1875-76), Michele Coppino (1878, 1886), Francesco De Sanctis (1878), Pasquale Villari, Ferdinando Martini (entrambi nel 1892).


Anche l’ultimo di questi disegni di legge richiese, dal 1898 al 1902, due ministri (Niccolò Gallo e Nunzio Nasi) attraverso tre governi, prima di potersi materializzare nella L. 185 (12 giugno 1902) sulla "Conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e d’arte".


I disegni di legge si infrangevano continuamente contro i diritti dei privati sul pubblico, cosa molto cara ai piemontesi, e che non volevano assolutamente ledere. Le cose non cambiarono con l'avvento della sinistra storica, in quanto, come abbiamo visto, i ministri di questa corrente non ebbero migliore fortuna, perché il vero ostacolo non era rappresentato dai partiti politici ma dal Senato, formato dall'elìte vicina al sovrano, di estrazione piemontese e molto legata alle tradizioni del vecchio Stato.


Il Ministro Niccolò Gallo riuscì a far approvare il suo disegno di legge cercando però di mitigarlo e renderlo accettabile per il Senato Regio. Privilegiò i diritti dei privati proprietari di monumenti e oggetti d’arte, limitò il progetto di catalogo dei beni in mano privata alle cose "di sommo interesse storico ed artistico" vietandone l’esportazione, e allo Stato lasciò solo il diritto di prelazione su immobili o cose d’arte messi in vendita, e in casi eccezionali il diritto di esproprio per pubblica utilità.


Purtroppo il fondo di Stato destinato a tali acquisti era formato con un unico provento, quello derivante dalle tasse di esportazione all’estero di opere d’arte, in altri termini, per salvare poche cose se ne dovevano esportare moltissime.


L’emorragia di opere d’arte dall’Italia verso le collezioni di tutto il mondo, favorita dalle incertezze normative dopo l’Unità, rischiava dunque di accentuarsi con la nuova legge. Come ha scritto Roberto Balzani nel suo ottimo libro Per le antichità e le Belle Arti.

 

La legge n. 364 del 10 giugno 1909 e l’Italia giolittiana (Bologna, Il Mulino, 2003), quella del 1902 era una "legge ad orologeria": il Ministero avrebbe dovuto compilare entro un anno i cataloghi delle opere di “sommo pregio”, e nel frattempo restavano ancora in vigore le norme degli antichi Stati italiani, secondo una geografia politica spazzata via da quarant’anni.


Come si poteva immaginare, mentre si avvicinava la scadenza, nemmeno uno dei promessi cataloghi era pronto e alla Camera Felice Barnabei (già Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti) ottenne dopo una dura battaglia il blocco per due anni di tutti i permessi di esportazione di antichità e d’arte, e impegnò il governo a redigere i cataloghi e a reperire risorse per l’acquisto delle opere più importanti messe in vendita dai privati (L. 27 giugno 1903, n. 242).


Il primo catalogo di opere "di sommo pregio", perciò invendibili in virtù della legge, uscì sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 1903. Erano solo nove pagine, e il documento era palesemente da completarsi.


Un catalogo del genere non arrivava mai alla fine, e la legge del 1903 dovette esser prorogata di anno in anno per ben sei volte, finché non si arrivò a una nuova e più organica legge: la legge n. 364 del 20 giugno 1909 "Per l’antichità e le belle arti", che segna il vero atto di nascita della disciplina nazionale italiana della tutela, dalla quale venne poi ogni altra disposizione, fino ad oggi. Già nel 1909 Benedetto Croce ebbe un ruolo significativo nell’approvazione della legge.


Nel 1907, la legge 386, aveva creato il sistema delle Soprintendenze con speciali ripartizioni (archeologia, monumenti, gallerie e oggetti d’arte), che ebbero competenza territoriale ma furono sottoposte al Ministero della Pubblica Istruzione.


Camera e Senato erano come sempre presi nella stretta di una contraddizione violenta fra l'utile pubblico e l'interesse privato, ma finirono per riconoscere una visione pervicacemente pubblica e poi sociale del problema.


La legge del 1909 porterà la firma del ministro Luigi Rava, ravennate, ma deve almeno altrettanto a un altro ravennate, Corrado Ricci, che Rava nominò Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti, al deputato toscano Giovanni Rosadi e all’abruzzese Felice Barnabei, che prima di essere deputato era stato anch’egli Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti.


Il primo disegno di legge, presentato da Rava nel dicembre 1906 e poi modificato alla Camera da una commissione presieduta da Barnabei, fu accompagnato da un’appassionata relazione di Rosadi, che rifletteva le opinioni degli intellettuali e degli ambienti più fortemente impegnati sul fronte della protezione del patrimonio.


Fra questi la rivista Il Marzocco e l’Associazione per la difesa di Firenze antica, fondata nel 1898 per reagire agli sventramenti e trasformazioni del centro storico della città che ne sfigurarono il volto a partire dagli anni (1865-1871) in cui fu capitale del Regno d’Italia.


L’Associazione fiorentina fu promossa e presieduta dal principe Tommaso Corsini, membro della stessa famiglia di Clemente XII, del Viceré di Sicilia Bartolomeo Corsini e del card. Neri Corsini, personaggi a cui si devono importanti iniziative a Firenze, in Sicilia e a Roma nel Settecento.

 

Corsini, esponente della Destra storica e membro del Senato, rappresentava un’aristocrazia di segno opposto a quello dei senatori Odescalchi e Colonna che rivendicavano la priorità della proprietà privata a scapito del pubblico interesse, e riuscì a creare un vasto movimento di opinione, che culminò in una pubblica assemblea a Firenze, il 6 dicembre 1908, e nel lancio di una petizione, che ebbe 360 firme.


All’assemblea partecipò anche Benedetto Croce, che aveva 42 anni e andò in qualità di delegato della Società Napoletana di Storia Patria. Fu proprio Croce a proporre una mozione, che corrispondeva alla petizione al Senato, e che venne votata per acclamazione.


La legge fece più volte la spola fra Camera e Senato, ma la mozione fiorentina, unendosi all’emozione per il terremoto di Messina (28 dicembre 1908), determinò la finale approvazione: fu la legge nr. 364 del 30.6.1909.


Alcuni principi della legge originale non riuscirono comunque a passare al Senato. Uno di questi era esposto all'art. 1 che recitava: "giardini, foreste, paesaggi, acque, e tutti quei luoghi ed oggetti naturali che abbiano l’interesse sovraccennato". Era stato il ministro Rava a volere a causa delle devastazioni romane, che avevano portato allo smantellamento di Villa Ludovisi e minacciavano anche Villa Borghese.


Questo primo tentativo di tutela del paesaggio e dell’ambiente naturale avrebbe avuto esito più tardi con leggi ad hoc : ma è importante rilevare che già nel 1909 era ben presente lo stretto legame fra tutela del patrimonio culturale e tutela del paesaggio, che sarà caratteristica peculiare del sistema italiano, e culminerà nell’art. 9 della Costituzione vigente.


Un secondo principio caratterizzante, che si infranse contro l’opposizione del Senato: era espresso nell’art. 37, soppresso nella versione finale: "Ogni cittadino che gode dei diritti civili e ogni ente legalmente riconosciuto potrà agire in giudizio nell’interesse del patrimonio archeologico, artistico e storico della Nazione contro i violatori della presente legge".


Questa norma era tipica nel diritto romano, dove l’actio popularis era fondata sulla piena identità fra il populus nel suo insieme e i cittadini (cives): perciò il singolo cittadino poteva agire giuridicamente in nome del popolo, promuoverendo un’actio popularis in difesa di interessi pubblici, e in particolare dei beni comuni (res communes omnium) come l’aria, le acque, il mare, i litorali.


Rosadi, dopo aver argomentato in favore della publica utilitas, raccomandava di introdurre nella nuova legge questo principio, che "conferisce ai cittadini la facoltà di far valere i diritti che spettano allo Stato".

 

Si trattava, insomma, di una diretta investitura del singolo cittadino ad agire in nome del pubblico interesse. Lo scopo era quello di avere la opinione pubblica forte, ben costituita e ben diretta ausiliatrice dello Stato nella conservazione del patrimonio artistico. di partire dalla coscienza di forti identità locali per la rappresentazione di uno spazio nazionale intessuto di simboli, di immagini, di luoghi comuni culturali.


Chi combattesse questa proposta, argomentava Rosadi, "mostrerebbe di non aver visti mai occupati i territori pubblici, mai chiuse le strade di campagna, mai contaminate le bellezze e le tradizioni della città, mai sperperati i patrimonii pii, mai negletti o disonorati gli uffici pubblici, mai asserviti o trascurati i doveri della rappresentanza e dell’autorità".


Il tema della tutela del paesaggio, anche se non riuscì ad essere istituzionalizzato nella legge del 1909, era da tempo all’ordine del giorno, anche per influenza di altre esperienze europee.


In Francia la legge Beauquier del 1906 sulla protezione del paesaggio e dei siti storici, pittoreschi e leggendari, che prevedeva un classement dei paesaggi a seconda del livello di interesse, e forme di protezione negoziata fra le amministrazioni pubbliche e i proprietari privati, aveva suscitato un forte dibattito negli ambienti politici e culturali, che ebbe risonanza nell'intero vecchio continente.


Sulla rivista Emporium del 1905, il parlamentare Corrado Ricci, metteva insieme tre vicende di quegli anni: il tentativo di aprire una nuova porta nelle mura di Lucca, e le minacciate distruzioni della cascata delle Marmore e della pineta di Ravenna.


Da quella congiuntura nacque la legge 411 del 1905 "per la conservazione della Pineta di Ravenna", prima legge paesaggistica d’Italia, che fondava la necessità della tutela sulla storia del sito e sulle sue memorie, da Odoacre e Teodorico alla "divina foresta spessa e viva" di Dante, a Dryden, a Byron, a Garibaldi.


Quando il Senato soppresse la tutela del paesaggio dalla legge Rava del 1909, si ricorse all’artifizio parlamentare di approvare un ordine del giorno, senza la minima conseguenza pratica, che impegnava il governo a presentare un disegno di legge "per la tutela e la conservazione delle ville, dei giardini e delle altre proprietà fondiarie che si connettono alla storia o alla letteratura o che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza".


In questo testo brevissimo, il termine "paesaggio" è evitato, e la dizione "altre proprietà fondiarie" indica di dove venissero le resistenze a includere il paesaggio fra i beni da tutelare. Almeno in Senato, ogni limitazione della piena proprietà privata era ancora impraticabile sul piano legislativo, e non per una contrapposizione tra Destra e Sinistra, bensì per le spaccature all’interno del mondo liberale, dove anche l’alta aristocrazia presente sui banchi del Senato si divise fra i difensori a oltranza dei diritti di edificazione (i principi Colonna e Odescalchi) e i fautori della tutela (il principe Corsini).


A causa di Corrado Ricci, si sviluppò un dibattito sui giornali, specialmente Il Giornale d’Italia e Il Corriere della sera , con duratura influenza sull’opinione pubblica. Sul fronte opposto, proseguivano le resistenze in nome dell’assoluto ius utendi et abutendi del privato proprietario. Si negava, per esempio, che fra "le cose immobili che abbiano interesse storico o artistico" protette dalla legge del 1909 vi fossero anche ville e giardini: a chiarirlo fu necessaria un’apposita legge (688/1912), voluta da Corrado Ricci, che, integrando l’art. 1 della legge del 1909, estese espressamente l’ambito della tutela anche "alle ville, ai parchi e ai giardini che abbiano interesse storico o artistico".

 
Nel 1910, meno di un anno dopo l’approvazione della legge da cui il Senato aveva cancellato l’articolo relativo al paesaggio, Giovanni Rosadi presentò una nuova proposta di legge tesa a tutelare "i paesaggi, le foreste, i parchi, i giardini, le acque, le ville e tutti quei luoghi che hanno un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia e con la letteratura", e che perciò "non possono essere distrutti né alterati senza autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione"; per garantirlo, erano previsti vincoli del tutto analoghi a quelli previsti dalla legge del 1909 per i monumenti e gli oggetti d’arte.


Nella sua relazione, Rosadi prendeva come esempio il parco nazionale di Yellowstone, e il modo in cui il Governo degli Stati Uniti si era pronunciato per la tutela del paesaggio. Rosadi cercava di connettere paesaggio e ambiente: "come si eccitano e diffondono precetti di igiene, di decenza, di quiete e di riposo, così non è forse eccesso di persecuzione legislativa imporre obblighi di rispetto alla bellezza che non si crea [cioè ai paesaggi naturali], particolarmente in Italia!".


Rosadi aveva innescato, sull’onda lunga della legge del 1909, un vasto movimento d’opinione, che portò nel 1913 alla nascita del Comitato Nazionale per la Difesa del Paesaggio e dei Monumenti, una sorta di "cartello di associazioni". Questo comitato si muoveva congiuntamente fra tutela dei monumenti e tutela del paesaggio.


Negli stessi anni si cominciava, intanto, a discutere la possibile istituzione di parchi nazionali, sul modello americano e di alcuni Paesi europei, come la Svezia e la Svizzera. Giuseppe Lustig, giurista e magistrato che era procuratore del Re a Napoli.

 

In un lungo articolo del 1918, pubblicato sulla rivista napoletana Il Filangieri, rintracciava tutta una storia della Tutela del paesaggio in Roma dalle leggi repubblicane al codice di Giustiniano. Lustig richiama il decor urbis, la publica utilitas e la dicatio ad patriam dei testi giuridici antichi, e insiste sull’intima unione del paesaggio naturale con quello urbano. Questo per cercare nelle fonti cardini del diritto europeo, cavilli legali che tutelassero il paesaggio come le opere d'arte.


Dal 1910 al 1919, la camera dibatte non meno di cinque diverse versioni della proposta Rosadi: esse riflettono anche in minuti dettagli lo scontro fra le ragioni della tutela e quelle della proprietà privata, che di fatto vinsero a lungo impedendo a ogni formulazione di arrivare in porto. In mezzo a questo dibattito iniziava a delinearsi quella che sarebbe stata la legge Croce.


Fra i più vigili assertori di una nuova legge specifica a tutela del paesaggio, oltre a Rosadi, fu sempre Corrado Ricci, che era stato fra gli artefici della legge sulla pineta di Ravenna (1905) e poi della L. 364/1909, e ancora ricopriva la carica di Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti; ma l’impulso decisivo fu dato da Francesco Saverio Nitti, quando nel suo primo governo istituì per regio decreto (n. 1792/1919) un Sottosegretariato alle Antichità e Belle Arti, quasi un preannuncio del Ministero dei Beni Culturali creato quasi sessant’anni dopo. Primo sottosegretario fu il veneziano Pompeo Molmenti, che aveva partecipato alle battaglie per la tutela d’inizio secolo.


Dopo pochi mesi Molmenti si dimise per protesta contro la mancanza di risorse economiche e fu sostituito da Giovanni Rosadi, che assunse l’ufficio in continuità con il suo predecessore, definendolo "esempio e stimolo della dignità del fare e del pensare", e lo tenne anche nei successivi governi Giolitti e Bonomi.


Ma il veneziano Molmenti aveva fatto in tempo a nominare la commissione "incaricata a preparare uno schema di iniziativa legislativa per la difesa e il rispetto delle bellezze naturali d’Italia" (dicembre 1919).


Facevano parte della commissione: Rosadi, che ne era il presidente, Aristide Sartorio, presto sostituito da un altro pittore, Camillo Innocenti, Luigi Parpagliolo, il nuovo Direttore Generale Arduino Colasanti, il deputato socialista Matteo Marangoni, critico d’arte e più tardi fondatore della rivista La casa bella, l’archeologo Vittorio Spinazzola, il giurista Luigi Biamonti dell’Avvocatura Erariale.


I tempi erano maturi, e tre mesi di lavoro bastarono a redigere il disegno di legge (marzo 1920), che riprese le linee generali della proposta Rosadi di dieci anni prima. Toccò a Benedetto Croce, senatore dal 1910 e ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti dal giugno 1920 al luglio 1921, portare a compimento l'opera di Rosadi.


Il progetto, a causa della brevità dei governi che si succedettero dopo il Primo Dopo Guerra si trascinò lungo il governo Bonomi (otto mesi) e il primo governo Facta (cinque mesi), prima di essere approvato l’11 giugno 1922. Dopo il secondo governo Facta (tre mesi), comincia la lunga stagione del Fascismo.


Egli presentò la legge in Senato il 25 settembre 1920, e ne ottenne l’approvazione il 31 gennaio 1921. Alla Camera fu approvata il 17 febbraio 1921. A causa delle elezioni anticipate del maggio 1921, il disegno di legge dovette essere ripresentato perchè non promulgato. Il disegno di legge fu di nuovo approvato dal Senato il 5 agosto 1921, la discussione alla Camera si aprì il 16 dicembre e si chiuse con l’approvazione l’11 maggio 1922. Firmata dal Re l’11 giugno, la legge (nr. 778) fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 21 giugno.


Croce non era più ministro, ma fu grazie lui che si deve l’approvazione della legge, ed è giusto che essa venga ancora ricordata come Legge Croce.

 

La relazione introduttiva Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico presentata da Croce al Senato il 25 settembre 1920 può essere considerata il testo-chiave di una svolta politica significativa, il culmine di un lungo processo che aveva mobilitato associazioni e politici, giornali e opinione pubblica, attraversando non meno di cinque legislature, e che nella ferma volontà di Croce trovò il suo apice.


Nella sua relazione Benedetto Croce esordisce dicendo: "Che una legge in difesa delle bellezze naturali d’Italia sia invocata da più tempo e da quanti uomini colti e uomini di studio vivono nel nostro Paese, è cosa ormai fuori da ogni dubbio".


Vengono poi ricordati i voti della Camera nel 1905 e del Senato nel 1909, la legge relativa alla tutela della pineta di Ravenna e quella sui parchi e i giardini del 1912. Viene citata anche la proposta di Rosadi del 1910. Continuando la sua relazione Benedetto Croce spiega che occorre dunque una legge che "ponga, finalmente, un argine alle ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo".


Questa esigenza era stata percepita anche dal precedente Governo, formato dall'Onorevole Nitti, che spiegò come sia doverosamente importante la tutela del patrimonio paesaggistico ed artistico della nostra Penisola. Il Governo Nitti non trascurò di elencare anche l'importanza economica di tale tutela, poiché il nostro Paese veniva visitato da turisti, intellettuali, professori e critici d'arte di ogni nazione.


La tutela del paesaggio veniva così congiunta "antichità e belle arti", senza trascurare il lato economico che la valorizzazione del patrimonio culturale poteva rendere al nostro Paese. La tutela del paesaggio legittima lo Stato ad agire, l'interesse per Croce diventa morale, e non può essere assolutamente trascurabile, anzi è doveroso agire per la conservazione di questi tesori inestimabili.


Il paesaggio, secondo le parole di Croce, non è altro che "la rappresentazione materiale e visibile della patria, con i suoi caratteri fisici particolari, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli".


Il paesaggio, in pratica, è il volto amato della patria ("Pour la personnalité de Ruskin, s'il est un caractère qui la définisse, ... la violence et parfois l'amertume de sa religion native, toute l'âpreté sarcastique ... lèvent du sol protestant de sa patrie pour entreprendre sur les âmes quelque ... grands, par l'orgueil du savoir et l'amour de la beauté pour la beauté").


La frase, veniva in quegli anni molto usata ed era stata attribuita a Ruskin, e racchiude il suo pensiero, ma non è possibile rintracciarla nei suoi scritti, in quanto non è qualcosa che viene estrapolata ma che non è mai stata detta dall'autore. Il pensiero di Ruskin era conosciuto in Italia grazie al testo Ruskin et la religion de la beauté di Robert de la Sizeranne (1897).


Anche se Croce non attribuisce la frase direttamente a Ruskin, cita l'autore come iniziatore del movimento europeo per la difesa della natura e del paesaggio, a partire da quando nel 1862 scrisse in difesa delle valli inglesi minacciate dal fuoco delle locomotive e dal carbone delle officine.


Il paesaggio diventa espressione dell'"anima nazionale", prendendo ad esempio l’Heimatschutz tedesco e ad altre esperienze europee, citando la legge francese del 1906 (Legge 21-24 dell'aprile 1906 la Loi organisant la ... de France e la Societe pour la protection des paysages).


I proprietari privati vengono così obbligati a rivolgersi alla Soprintendenze per i lavori sia sugli immobili storici che per i luoghi caratterizzati da bellezze naturali e panoramiche. Questi immobili, ritenuti di importante interesse, sono sottoposti a speciali limitazioni per contemperare le ragioni superiori della bellezza coi legittimi diritti dei privati. Pochi mesi prima dell’avvento del Fascismo, si concludeva così la vicenda delle leggi di tutela dell’Italia unita, cominciata intorno al 1870 e culminata, a gran distanza, nelle leggi 364 del 1909 e 778 del 1922.


I difensori della proprietà privata che desideravano vendere collezioni, distruggere parchi di importanza storico-artistica, e modificare il paesaggio nazionale per fini di lucro vengono così sconfitti dall'interesse pubblico, la memoria storica della tradizione di tutela che in ogni Stato d’Italia aveva per secoli prevalso.


A Croce spetta anche il merito di aver richiamato non solo il precedente della legge francese del 1906 ma la ricca tradizione germanica, che tra Otto e primo Novecento aveva raggiunto un punto assai alto.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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Roger, A., Breve trattato sul paesaggio, Sellerio, Palermo 2009.
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Sandoni, C., Per la difesa delle bellezze d'Italia, in "Rivista Mensile del T.C.I.", a. XII (1906), n.7, pp.210-211.
Settis, S., da Il Giornale dell'Arte numero 313, ottobre 2011.
Valle, C., La valle di Rivolto ed i rimboschimenti, in "Rivista Mensile del T.C.I.", a. XII (1906), n.10, pp.307-308.
Touring Club Italiano (a cura di), La tutela del paesaggio in Italia, TCI, 1998.
LA REPUBBLICA 21 marzo 2012, pagina 55, sezione cultura .



 

 

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