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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

UN TRENO INDIANO
Tre giorni di viaggio da Bombay ad Amritsar

di Miro Gabriele

 

Salutiamo Bombay dall'interno di un taxi, uno dei soliti Fiat 124 in rovina che si aggirano per la città. Il tramonto splende come una fiamma sulle facciate di vetro dei grattacieli, in basso l'ombra si addensa velocemente sul caos del traffico, sulla folla interminabile che copre i marciapiedi. Donne e bambini scivolano fra le automobili, in cerca di qualche moneta, circondano il nostro taxi fermo ai semafori. Non c'è niente che si può fare. È impossibile anche solo concedere uno sguardo, districarsi in questa selva di braccine scure dentro i finestrini, attribuire loro un volto. Il nostro autista se li lascia dietro, stracciati, imploranti.

 

Victoria station, con la sua massiccia architettura coloniale, domina come un tempio abbandonato la curva di un viale. Dall’altro lato della strada un portico ripete le linee neoclassiche di una Londra ottocentesca, sotto le buie volte, polvere senza fine si accumula nell'ombra, i mendicanti accosciati sulla sporcizia tendono le mani al vento che s'infila nei portici, e spazza la facciata dell’edificio. Entriamo fra le pietre gigantesche, sotto le tristi decorazioni del frontale, corrose e annerite dal tempo, grotteschi rilievi, protesi nel buio che scende sulla città. Nella grande sala la gente si accalca come nei mercati, famiglie accampate per terra, coi loro stracci senza colore, sembrano vivere da sempre sotto l'azzurro scrostato dei muri. Ci affrettiamo a raggiungere il treno, quasi a fuggire questa sera desolata caduta su Bombay.

 

Siamo fermi ad Agra nelle prime ore del mattino. Dal mio letto aereo, dal portapacchi che funge da cuccetta ascolto una conversazione tra Marco e un giovane indiano. Si parlano attraverso il finestrino, le loro voci giungono quiete e sommesse in questa veglia così vicina al sonno in cui sono immerso. Parole di viaggiatori, trovate in una stazione all'alba, parole di persone che non s'incontreranno mai più, semplici informazioni sulle loro esistenze. Rimango steso con gli occhi chiusi, il dolce e pacato colloquio carezza il dormiveglia. La notte appena trascorsa si agita ancora nei pensieri: i ragazzini del tè, coi loro richiami come rosari allungati nella notte, andavano su e giù per i marciapiedi delle stazioni, sparse nell'immensa pianura. I loro occhi ci fissavano tra le inferriate dei finestrini, mentre prendevamo i bicchieri di tè caldo dalle loro mani.

 

Cullato dalle voci, sto per riaddormentarmi, provo ad immaginare lo sconosciuto che parla con Marco. Me lo figuro avvolto in una di quelle vecchie coperte o lenzuoli con cui si coprono la mattina presto quando è fresco: un lembo avvolge la testa, spuntano solo le gambe brune, nude come due stecchi, gli occhi e il ciuffo nero dei capelli. Le voci si confondono nei silenzi dell'alba, un unico sensuale mormorio sotto di me, sui binari delle interminabili ferrovie indiane, prima che il treno riparta e l'uomo dalla voce tranquilla si perda dietro di noi, in un mattino di Agra.

 

Il giorno esplode abbagliante fuori dal treno, la gialla, monotona pianura indiana si impadronisce dei nostri sguardi. Neri bufali lucidi, con le lunghe corna dipinte di rosso, si bagnano con indolenza nelle acque verdi degli stagni, piccole colline a punta si alzano sull'enorme pianura bruciata. L'India quieta e sommessa si aggira nei campi, vite di villaggi scorrono lungo i canali, fermandosi sulla soglia delle capanne. Alle stazioni di campagna scendiamo per sgranchirci le gambe e per comprare qualcosa da mettere sotto i denti. Consumiamo questi pasti frugali sul fianco del vagone, vicino alla porta, pronti a risalire se il treno col suo fischio desolato accenna a muoversi. Sui carrettini di legno fermi lungo i binari troviamo banane, uova sode e qualche povero dolce.

 

In uno di questi rapidi pranzi, in piedi nel sole accecante della pianura, mi sento toccare una spalla. È una giovane madre col bambino al collo, si porta la mano al petto, chiedendo qualcosa per sé e per il figlio. Non tende la mano, la stringe sul cuore, come a voler testimoniare il fragile filo che unisce le nostre vite, sul volto affiora un sorriso, l’estrema cortesia di chi non ha nulla da perdere. Spezzo il dolcetto che ho appena comprato, glie ne offro metà. Lo infila tra i seni minuscoli, mi volge il fianco col suo saree stracciato, porta altrove i suoi occhi, la sua disperata grazia di madre.

 

Continuano a sfilare le stazioncine, tutte uguali, piccoli agglomerati di vita stretti tenacemente intorno a un rigagnolo, o a uno stagno marrone, nell'accecante solitudine della campagna. Adesso lungo i fossati gruppi di persone si inseguono ridendo, schizzi di colore volano nel rettangolo di cielo del finestrino. Uomini e bambini corrono sulle linee dei campi, schizzandosi a vicenda misture di colori: rossi, gialli, verdi, azzurri. Sembrano usciti quasi per caso dal deserto intorno alle stazioni, coi capelli e i vestiti imbrattati di questi colori di luce. E' una festa di primavera, un'enorme allegria contadina che ha contagiato tutti.

 

Mi affaccio dallo sportello del vagone, fermo sul ciglio di un fosso. In bilico sul predellino allungo un'occhiata verso la baracca della stazione; improvvisamente il mio sguardo si riempie di un turbinio di colori, un'onda di luce mi colpisce in faccia finendo sul mio vestito di cotone bianco. Un ragazzino sbucato non si sa da dove, forse da sotto le ruote del treno, mi osserva e ride, ha ancora un braccio alzato e con l'altro regge un barattolino. Mi guardo addosso, sono tutto bagnato di giallo e di azzurro. Rientro dentro appena in tempo per evitare il secondo schizzo, che vola sul pavimento della piattaforma, finendo a terra come un quadro di Pollock, nel filo polveroso di sole che piove dentro il vagone. Siamo fermi a Kuruksetra, ed ora anch'io, così imbrattato di colori, faccio parte di questa celebrazione primaverile.

 

Una giovane indù ha dormito ai nostri piedi questa notte, nello spazio angusto fra i sedili, con la sua bambina di un anno o due avvolta in una coperta e stretta al seno. Ora, nella luce dorata del primo pomeriggio la tiene sulle ginocchia, pettinandole lentamente i capelli. La bambina si lascia carezzare in questo gioco infantile, con il viso serio e un filo di rassegnazione che già scorre nei suoi occhi. Il padre, un Sikh con la barba e i lunghi capelli racchiusi nel turbante, siede accanto alla moglie, osserva in un'astratta lontananza questo gioco di donne da cui sarà escluso per sempre. La giovane madre, nella sua pazienza senza tempo, comincia a truccare il viso della figlia, disegna di blu l'arco delle palpebre e stende un filo di rosso sulle piccole labbra. La bimba rimane tranquilla e silenziosa, mentre il suo volto si trasforma nell'immagine di un idolo. La donna, misteriosamente rapita in quest'attimo femminile, le segna sulla fronte, in un vezzo supremo, il punto nero delle ragazze non sposate. Un piccolo Krishna di un'arcaica bellezza illumina le ombre del nostro scompartimento: la bambina bellissima dagli occhi bistrati, seduta sulle gambe della madre.

 

Li guardo allontanarsi tra la piccola folla di un marciapiede, lungo la fila di cespugli smorti che ornano la stazioncina. Il marito davanti, con la testa fasciata d'azzurro e la bianca camicia svolazzante, e lei dietro, allegra come una ragazza, col suo Krishna prezioso tra le braccia e una sottomissione indifferente, quasi concessa dall'orlo della sua grazia. L'ultimo particolare che colgo nella confusione della folla è la sua schiena liscia, quel rettangolo di pelle che spunta dal saree, e il guizzo morbido della spina dorsale. Riprendono le loro strade sconosciute nella polvere del pomeriggio, lei e la bambina incontro al loro destino, con il dondolio dei fianchi sui piedi scalzi.

 

Ci avviciniamo anche noi alla fine, stanchi e sporchi, con i visi affacciati sulla campagna nella luce bassa del pomeriggio: tre giorni, migliaia di chilometri sulle ruote di un treno, Rajastan e Punjab volati via come un film accelerato nel vento del finestrino. Siamo nei pressi di Amritsar, sulle banchine delle stazioni le ombre si allungano verso i binari; profili di lance segnano strisce sottili sulla terra rossa, fra la gente che aspetta. Guerrieri Sikh coi loro profili di uccelli e le lunghe aste al fianco si affollano sui marciapiedi, per poter raggiungere la città santa, gli svolazzi azzurri dei turbanti ondeggiano nel vento.

 

Attendono che il treno si fermi, immobili come statue, alti e rigidi con le loro armi barbariche e gli stracci chiari intorno alle gambe. Sto a guardarmeli da un angolo del sedile con un beedi appena acceso tra le dita; Marco è steso sulla cuccetta, nell’ombra sopra i raggi di sole che filtrano nello scompartimento. In pochi attimi sul marciapiede si riversa una folla di guerrieri, forse un centinaio di essi si rovescia sul fianco del treno e dà l'assalto ai vagoni. Invadono urlando i corridoi, un manipolo è già sulla soglia del nostro scompartimento, in un baleno riempiono il piccolo spazio e un gruppo prende d'assalto le due cuccette. Marco è costretto a malincuore a scendere dal suo letto invaso dai Sikh, che si arrampicano rapidi e silenziosi spingendolo fuori. Viene a sedersi accanto a me, mormorando in dialetto romano, nel piccolo ritaglio di sedile dove veniamo spinti.

 

Ed eccoli affollati intorno a noi, coi loro visi seri tra una selva di lance intrecciate; il treno riparte e restiamo stretti da non poterci muovere, con le spalle curve sotto i piedi che oscillano fuori dalle cuccette. Do una boccata al beedi, cercando di distrarmi, affacciato al finestrino. Una gomitata di Marco mi fa voltare di scatto: due lance sono puntate sui nostri petti, un paio di loro urlano frasi incomprensibili, fissandoci con gli occhi sbarrati dietro le punte affilate a pochi centimetri dalle nostre camicie. Miracolosamente comprendiamo che è il fumo delle sigarette a dare fastidio. Le gettiamo dal finestrino e loro si calmano, ritirano le lance, rientrano in quella rigida atarassia come se nulla fosse successo, con gli occhi seri, fissi nel vuoto.

 

L'episodio non lascia strascichi, siamo subito dimenticati, stretti ai loro fianchi ma come se non esistessimo: due stranieri capitati per caso nel tumulto di un pellegrinaggio ad Amritsar. Mancano pochi chilometri alla fine del viaggio e li facciamo così, in silenzio, stretti gli uni agli altri, con le ombre rossastre del giorno che muore sulla pianura, fra le aste delle lance e i profili immobili, impenetrabili dei Sikh.



 

 

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