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N. 82 - Ottobre 2014 (CXIII)

Le transizioni politiche latinoamericane
PARTE V - Il caso PERUVIANO

di Laura Ballerini

 

Il caso peruviano presenta delle proprie peculiarità rispetto ai casi visti finora, ma come in questi ultimi, tutto nasce da una crisi.

 

La crisi economica che attraversò il paese negli anni Sessanta determinò l’inasprimento dei conflitti sociali e un susseguirsi di colpi di Stato che portarono al potere Belaunde Terry nel 1980.

 

Da questo momento in poi la storia politica peruviana consisterà nella lotta tra lo Stato e i gruppi sovversivi, quali il movimento maoista del Sendero Luminoso (SL), fondato da Guzman, e i guerriglieri dell’MRTA, in una lotta di tutti contro tutti. Ognuna delle diverse fazioni cercava proseliti nelle campagna, creando un clima di caos e terrore.

 

Nel 1985 venne poi eletto Alan Garcìa, un giovane socialdemocratico. Il governo di Garcìa segna la fase più acuta e cruenta della crisi: in questi anni si forma anche il “Comitato Democratico Rodrigo Franco”, che si alleerà con il governo contro i SL, macchiandosi di enormi crimini.

 

Infine, nel 1990, salirà al potere un politico di origini giapponesi, Alberto Fujimori. Sopraffatto dalla crisi e dalla guerriglia, Fujimori fece un “autogolpe” tramite il quale divenne dittatore fino al 2000.

 

Egli diede vita a un “governo di emergenza” che sospendeva le libertà democratiche: venne sciolto il Parlamento, le forze armate vennero riorganizzate e potenziate e per lanciare un’offensiva ai guerriglieri, Guzman venne catturato e ucciso.

 

Da questo momento in poi assistiamo anche in Perù alla messa in atto della “Dottrina della sicurezza nazionale”, ossia la sistematica e cruenta repressione di tutti coloro che venivano considerati nemici interni.

 

Iniziarono allora le sparizioni e le torture, a cui si aggiunse una grave epidemia di colera. Le repressioni portate avanti dallo Stato peruviano si caratterizzarono anche da una matrice etnica, nei confronti degli indios. L’imperversare della crisi e lo scandalo finanziario del 2000 portarono Fujimori a fuggire verso il Giappone, da cui mandò un fax con le sue dimissioni.

 

Il primo gesto della rinnovata democrazia fu quello di istituire una commissione per indagare sui crimini commessi in questi anni di guerriglia e dittature. Per la prima volta l’iniziativa venne dal Parlamento, che portò alla formazione della Commissione della Verità e Riconciliazione.

 

Nel 2001, il presidente provvisorio Paniagua firmò il decreto istitutivo della Commissione. Le indagini erano rivolte alle sparizioni forzate, alle torture, agli assassinii e a tutte le gravi violazioni dei diritti umani. Erano oggetto di indagine sia lo Stato che i gruppi sovversivi guerriglieri.

 

Nel corso dei lavori, durati circa 18 mesi, il campo d’azione della Commissione si ampliò, fino a considerare tutte le eventualità previste dal Diritto Umanitario Internazionale: la violenza sulle donne assume per la prima volta un accezione più ampia e importante.

 

Una significativa differenza con le commissioni dei casi sudamericani affrontati finora sono le udienze pubbliche. Come in Sudafrica, si scelse di utilizzare le testimonianze dirette delle vittime. Venne istituito, allora, un centro di documentazione per favorirne l’archivio e una equipe di Salute Mentale per supportare le vittime nel corso della loro testimonianza.

 

Si arrivò, inaspettatamente, a ottenere 16 mila testimonianze. I crimini raccontati erano diversi tra loro e variavano da zona a zona: le microstorie divennero fondamentali per ricostruire un quadro globale delle violenze subite.

 

Le udienze furono pubbliche, spesso trasmesse in televisione, tematiche o semplici assemblee. Queste iniziative erano portate avanti per molteplici scopi, primo tra tutti quello di riconoscere alle vittime un momento di ascolto, riflessione e solidarietà.

 

Le udienze ebbero un forte impatto sulla popolazione, facendovi crescere la speranza di ricevere giustizia per quanto subito. A testimoniare furono anche i capi dei movimenti rivoluzionari, al contrario dei membri delle Forze Armate o della Polizia Nazionale.

 

La questione dei desaparecidos fu la più difficile da affrontare e in alcuni casi si procedette all’esumazione di cadaveri per cercare delle corrispondenze. La Commissione fece anche delle proposte di riparazione per le vittime, per giungere poi alla riconciliazione. Tali riparazioni si divisero in materiali, simboliche, individuali, sociali e giuridiche.

 

Il documento finale redatto dalla commissione si divise in quattro parti: la ricostruzione dei fatti e delle vittime; i fattori che resero la violenza possibile; le conseguenze; le raccomandazioni. In quest’ultimo punto si chiede in modo esplicito l’intervento della Giustizia e la contrarietà a qualsiasi perdono legale.

 

Quello che si evince dal documento finale è che la stragrande maggioranza elle vittime apparteneva alle fasce più povere della popolazione e che si trattò quindi di una “violenza razzista e classista”.

 

Il presidente Toledo (in carica dal 2001 al 2006) accettò e riconobbe le conclusioni della CVR, mentre le forze politiche più coinvolte non lo fecero.

 

L’unico rammarico nel lieto fine della storia peruviana è che proprio le fasce povere più colpite dalla repressione ebbero poco accesso al documento finale della Commissione, e non avendo, per la maggior parte, la televisione, nemmeno alle udienze pubbliche.



 

 

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