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N. 92 - Agosto 2015 (CXXIII)

Totila, re dei Goti
Istruttoria su una secolare demonizzazione - PARTE II

di Anna Bozzetto

 

L'Auctarium è un'aggiunta posteriore al Chronicon di Marcellino Comes. Marcellino Comes, cancellarius di Giustiniano, decise d'interrompere i suoi annali con l’anno 534. Si tende ad attribuire a un anonimo Continuator l'aggiunta relativa agli anni delle Guerre Gotiche. Parlando di Totila, il racconto lapidario del Continuator entra in palese contraddizione con quello di Procopio di Cesarea.

 

Riferendosi all'anno 544, l'Auctarium riporta: «Totila assedia Fermo e Ascoli e distrugge Napoli e Tivoli». Secondo Procopio, invece, Napoli non viene distrutta, anzi sia la popolazione che i nemici sconfitti godono di un trattamento assai clemente da parte di Totila, mentre è Tivoli a subire una strage da parte dell’esercito goto.

 

C’è un’analoga contraddizione per l'anno 545: Procopio ci riferisce che Totila prende Fermo e Ascoli per capitolazione, senza spargimenti di sangue. Secondo Procopio fu invece Giovanni il Sanguinario a compiere saccheggi e devastazioni nel Piceno prendendo prigionieri i figli e le mogli dei militari Goti, ai tempi dell'assedio di Vitige a Roma.

 

Il Continuator scrive invece che Totila entrò nelle due città, lasciò andar via le truppe bizantine con tutto il loro bottino poi fece depredare e massacrare i civili sfogando su di loro la sua ferocia: «Crudelitatem suam in Romanos exercuit eosque omnes nudat et necat». Sempre riguardo al 545, l'Auctarium afferma: «Totila Spoletium destruit».

 

Secondo Procopio, invece, il comandante Erodiano consegnò Spoleto a Totila perché minacciato da Belisario per un conto che avevano in sospeso e la città non ricevette alcun danno. Diceva Marc Bloch: «Talvolta, i documenti stessi costringono al dubbio e alla ricerca del vero. Ciò avviene quando si contraddicono».

 

Così, la contraddizione tra l’autore dell’Auctarium e Procopio può essere risolta tenendo conto degli studi del Mommsen. Secondo lo storico, l'Auctarium è stato scritto dopo la riconquista bizantina dall'Italia.

 

Quindi, come cronaca ufficiale della corte imperiale, propone la stessa visione del nemico sconfitto presente nella Pragmatica Sanctio di Giustiniano: il tiranno, l’usurpatore, il nefandissimus Totila. E con la lapidaria condanna della Sanctio come nefandissimus e dell’Auctarium come re «malo Italiae”, inizia la leggenda nera di Totila che lo accompagnerà per tutto il Medioevo, fino all’era moderna. Anche il cronista Iordanes nei “Romana” (De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorim) recepirà riguardo a Totila le posizioni dell’Auctarium.

 

Totila nelle agiografie medievali e nella “Cronica” del Villani

 

Ispirandosi ai Dialoghi, le agiografie medievali (o meglio, le cosiddette “passioni epiche”) presentano Totila come un demonio, colpevole di atroci martiri. Si tratta di opere composte svariati secoli dopo la morte del re: alcune, come la passio di San Proculo, addirittura nel XIV secolo.

 

La passio di San Lauriano, scritta nel X secolo, è emblematica. Lauriano contesta le dottrine di Ario e Totila manda dei sicari ad assassinarlo. Questi lo raggiungono e lo decapitano. Allora Lauriano raccoglie la propria testa recisa e li insegue, pregandoli di portarla a Siviglia dal loro re.

 

Totila non mise mai piede in Spagna né mai vi regnò: questo dimostra che il Totila delle agiografie medievali non è un personaggio storico, è il simbolo dell’Eresia e quindi dello stesso Diavolo. Spesso è persino confuso con Attila.

 

Anche Giovanni Villani, nella sua Cronica (scritta a metà del XIV secolo), confonde Attila con Totila e attribuisce al malcapitato Totila varie atrocità compiute dal re unno: un fratricidio (compiuto da Attila ai danni del fratello Bleda) e grandi martirii di Cristiani. Lo chiama più volte flagellum dei e scrive che si allontanò da Roma dopo l'incontro con Leone Magno.

 

Villani riporta anche il racconto della distruzione di Firenze da parte di Totila: il re, maestro d’inganno, convince gli abitanti a farsi aprire le porte con false promesse e poi rade al suolo la città. Ma tale racconto non è altro che una leggenda di un precedente attacco alla città che Dante Alighieri addebita ad Attila. Infatti, la battaglia del Mugello che vide la prima vittoria di Totila sui Bizantini (anno 542), non comportò la conquista di Firenze. La città rimase fino al 547 sotto dominio bizantino.

 

Solo nel 552 comparve tra le città cadute in mano ai Goti che Narsete voleva riconquistare. Probabilmente la presa di Firenze da parte dell'esercito goto avvenne tra il 548 e il 552, ma è da escludere che la città sia stata rasa al suolo.

 

Conclusioni

 

Nel trarre le conclusioni, Marc Bloch è ancora una volta molto utile: «Amore del guadagno o della gloria, odi o amicizie, o semplicemente il desiderio di far parlare di sé: è facile immaginare le diverse passioni che hanno spinto gli uomini a inventare storie mendaci o a fabbricare ogni specie di documenti».

 

Nel caso di Totila sono intuibili i sentimenti che stanno alla radice della sua demonizzazione. Di sicuro, l’odio del patriziato romano. Totila impoverì l’aristocrazia senatoria, alla quale apparteneva anche la famiglia di Gregorio Magno, privandola delle sue prerogative e delle rendite dei propri latifondi. Infatti, in base alla riforma agraria di Totila, i coloni che versavano i tributi ai Goti invece di pagare il canone al loro signore, diventavano proprietari delle terre su cui lavoravano.

 

Uno dei motivi principali della fama di nefandezza di Totila fu quindi il suo progetto di sovversione dell’ordine sociale precostituito: coloni che diventavano proprietari delle terre e schiavi elevati alla dignità di guerrieri liberi combattendo tra le fila dell’esercito goto, erano davvero troppo per la nobiltà senatoria filobizantina.

 

Non bisogna però dare una valenza antistorica alle riforme di Totila. Furono infatti dettate dalla volontà di creare un nuovo ceto abbiente fedele alla causa dei Goti piuttosto che dalla volontà di smantellare un “ancien regime” alla luce di principi di uguaglianza e libertà.

 

All’odio del ceto senatorio bisogna aggiungere l’ostilità di Gregorio Magno. La “perfidia” di Totila è legata essenzialmente all'essere un eretico ariano. Come evidenziato dal De Lubac, anche il padre di Sant’Ermenegildo era definito perfidus perché credente nella dottrina di Ario. E nelle agiografie medievali, Totila abbandona la sua identità storica per diventare un simbolo del Male, un diabolico Eretico che tortura e martirizza buoni cristiani.

 

Nei tardivi racconti delle “passiones” di martiri, la sua figura diventa incredibilmente simile, quasi sovrapponibile, a quella di Giuliano l’Apostata. Entrambi, uno l'Eretico, l’altro il Pagano, sono presentati come figure demoniache. E ad entrambi vengono attribuiti martiri accompagnati da supplizi d’inaudita crudeltà.

 

La descrizione di Totila fatta nell’Auctarium, e conseguentemente da Iordanes che se ne serve come fonte, ricalca i risentimenti di Giustiniano verso il suo nemico. Per lui Totila, che non poteva vantare alcuna parentela con Teodorico, non era altro che un usurpatore delle sue proprietà, un barbaro non solo privo di ogni titolo per regnare in Italia, ma anche indegno di negoziare con lui.

 

A questo punto, dopo un esame critico delle fonti storiche, si rivela opportuno un ridimensionamento delle nefandezze attribuite a Totila. Parlando di re goti, molto maggiori furono le atrocità attribuibili al successore Teia per rappresaglia verso la popolazione. Tuttavia su Teia non si abbatté alcuna demonizzazione né da parte delle fonti ufficiali bizantine né da parte di Gregorio Magno.

 

Questo indica che Totila fu demonizzato per motivi diversi rispetto ai fatti di sangue. Motivi che portarono a ingigantire a dismisura la sua crudelitas e perfida mens, quali la spoliazione del ceto senatorio filoimperiale e l'odiata riforma agraria. Furono infatti i primi provvedimenti aboliti dalla Pragmatica Sanctio, per i quali essa lega l'aggettivo nefandissimus al nome del re.

 

Eccessivo è anche accusare Totila di essere stato il solo, malevolo responsabile del protrarsi delle guerre gotiche e della conseguente prostrazione dell’Italia. Il sovrano mandò più volte a Costantinopoli ambascerie di pace, ma non capì con quale nemico avesse a che fare. Nella sua visione cesaropapista, Giustiniano mirava sia a porre Oriente e Occidente sotto un unico trono, sia a eliminare di tutti gli elementi eretici, Goti compresi, in nome dell’unità religiosa sotto l'egida del culto niceno.

 

Oltre ai limiti di strategia militare, che emersero in tutta la loro drammaticità a Busta Gallorum, il limite maggiore di Totila fu di non comprendere che il tempo di Teodorico e Anastasio era finito per sempre.

 

Accogliendo come verisimile la testimonianza di Procopio, c'è da chiedersi quali furono le motivazioni della singolare umanità di Totila.

 

Assai probabilmente, Totila coltivò il sogno di restaurare il prospero regno di Teodorico fondato sulla pacifica coesistenza dei Goti e della popolazione di origine romana. Vedeva in Teodorico il suo modello di regnante. Infatti, nella missiva di pace inviata a Giustiniano scrisse: «Voglio chiederti di accettare per te stesso e concedere anche a noi i vantaggi di un pacifico accordo. E a questo proposito ricordo il bellissimo esempio di Anastasio e Teodorico che hanno regnato non molto tempo fa e hanno fatto prosperare i loro regni nella pace e nel benessere».

 

Che Totila cercasse d’imitare Teodorico si vede bene quando, nel corso della prima conquista di Roma, andò a pregare nella basilica di San Pietro: lo stesso gesto che fece Teodorico dopo il suo ingresso trionfale a Roma nell’anno 500.

 

Proprio perché voleva restaurare quella che per lui fu l’epoca d’oro di Teodorico, Totila non si abbandonò a inutili crudeltà verso i nemici e la popolazione: voleva che sia i Goti che i sudditi di origine romana lo considerassero il loro sovrano ideale, erede morale del grande Teodorico.

 

Invece, ci rimarranno per sempre sconosciuti i motivi della sua particolare attenzione al genere femminile al quale risparmiò più volte le violenze delle sue milizie. In un’epoca in cui le donne di un popolo nemico non erano altro che prede di guerra, questo rispetto appare singolare. Forse affonda le sue radici nelle vicende personali del sovrano, vicende che si sono perse nel limbo della Storia, così come i nomi dell’uomo e della donna che l’hanno generato.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Azzara C., L’Italia dei barbari, Bologna, il Mulino, 2009;

Bloch M., Critica storica e critica della testimonianza,13 luglio 1914, in  M. Bloch, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1997;

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De Lubac H., Esegesi medievale, i quattro sensi della scrittura, vol.3, sez. V, Milano, Editoriale Jaca Book, 1996;

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Filoramo G., D. Menozzi, Storia del Cristianesimo. L’antichità, Laterza, 2013;

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Trovato S., Un antieroe dai molti volti. Giuliano a Bisanzio come Apostata, scrittore, imperatore e in una particolare interpretazione «ratzingeriana» dello storico Sozomeno, Edizioni Università di Trieste, 2012;

Vinay G., Alto Medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli, Guida Editori,1978.



 

 

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