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N. 90 - Giugno 2015 (CXXI)

TITO E I SUOI COMPAGNI
BIOGRAFIA DI UN UOMO CHE HA FATTO LA JUGOSLAVIA

di Filippo Petrocelli

 

Quarantadue euro sono veramente troppi per un libro di storia, anche se l’opera appare monumentale con un apparato critico quasi enciclopedico. Eppure per gli amanti dei Balcani e della Jugoslavia, slavofili o nostalgici di ogni risma, il nuovo libro di Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni è da non perdere. Perché come recita la bandella del volume è “L’unica biografia di Tito e del suo apparato di potere”.

 

Nel libro si raccontano i trentacinque anni di potere del maresciallo Tito ma anche l’epopea partigiana di un paese liberatosi senza l’aiuto degli alleati e il tentativo è quello di rappresentare globalmente la vita del leader, da combattente a capo di stato.

 

Non a caso la storia di Tito in questo lavoro comincia il 7 maggio 1892, quando Josif Broz nasce nella remota provincia croata in una numerosa famiglia contadina (16 figli di cui 8 morti in giovane età), passa per un’infanzia non proprio felice, per la gioventù nelle fabbriche, per l’entrata nell’esercito austroungarico nel 1912 di cui diviene sottoufficiale, per la Grande guerra, per la prigionia sul fronte russo, per la rivoluzione d’Ottobre che lo sfiora, per l’ingresso nel partito bolscevico nel 1918 e per il ritorno in patria nel 1920.

 

Da qui inizia la storia di Tito leader comunista: arrestato più volte durante tutti gli anni Venti, si guadagna i galloni sul campo, quando su innumerevoli rapporti di polizia compare la dicitura “criminale comunista” e trova un suo primo momento di gloria durante il processo che si svolge nel 1928 a Zagabria e che lo condanna a una pesante pena detentiva, non senza offrirgli una tribuna da cui divulgare la sua fede.

 

E così nelle cronache dell’epoca, i glaciali occhi azzurri del maresciallo, il suo pince-nez –oggetto di culto per il giovane Tito – diventano i protagonisti, primeggiando sulla corte dell’epoca dipinta dai giornali piccola e di sfondo.

 

Insomma nel 1928, nella “sua” Zagabria, Tito guadagna il centro della scena ed entra di prepotenza nella storia che conta.

 

Ma Josif Broz, torna in Unione Sovietica negli anni Trenta, diventando un membro di primo piano del Comintern. Qui indurisce ulteriormente la sua scorza come “si fosse estraniato dai valori tradizionali, calpestandoli con disinvoltura: onestà, fedeltà, amicizia, fair play, per lui erano solo fronzoli borghesi”, almeno secondo il giudizio non proprio lusinghiero di Savka Dabčević-Kučar, importante dirigente croata del partito.

 

Con il nome di agente Walter, è inviato da Stalin a sanare i dissidi interni al Partito comunista jugloslavo (Pcj), diviso fra una fazione destra che fa capo ai rappresentati del partito a Zagabria – favorevole a uno stato centralizzato – e una sinistra con “sede” a Belgrado – sostenitrice invece di una soluzione federale, ma soprattutto schiacciato da innumerevoli dissidi rispetto alla questione nazionale e all’autonomia dei popoli che vivono nel Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni.

 

Non mancano le curiosità circa il personaggio Tito, come la passione del maresciallo per le lingue “pronunciava il serbo con l’accento di un contadino croato ma con tracce di russo e di sloveno. Oltre al serbocroato, allo sloveno, al russo, parlava in maniera rudimentale anche il francese, il ceco, l’ungherese e il kirghiso. Più tardi imparò un po’ l’italiano e perfezionò il suo inglese”. Ma sono proverbiali anche le rivalità personali con personaggi come Milan Gorkić (segretario del partito ucciso durante le purghe staliniane) e il grande contributo di Tito per organizzare le brigate del Pcj a combattere in Spagna.

 

Ma è sul periodo della guerra di Spagna che si annidano alcune ombre: secondo alcune fonti, Tito partecipa non solo in prima persona alla guerra, ma è addirittura protagonista di una serie di epurazioni contro trotskisti e anarchici e diventa una sorta di emissario del Comintern e del Nkdv, la polizia politica sovietica.

 

Ma la parte più travolgente del libro è indubbiamente quella che riguarda la narrazione del Tito comandante partigiano, quando organizza la resistenza contro l’invasione dell’Asse, nella primavera del 1941. Nonostante i proclami di Mosca che invitano Tito alla calma e alla semplice resistenza, lui passa subito all’attacco, convinto che la guerra sia anche l’occasione per la trasformazione della società in senso socialista. Non solo liberazione nazionale, ma anche cambiamento radicale dell’esistente. E così sceglie le tattiche della guerriglia e organizza la rivolta, senza lasciare tregua al nemico.

 

Larga parte del libro è però dedicata allo strappo con Stalin, alla spaccatura all’interno del campo comunista e alla via nazionale jugoslava al socialismo. Trova molto spazio anche la svolta “terzomondista” di Tito, quando egli diventa il principale animatore del progetto dei Paesi non allineati.

 

Sono dipinti, forse per la prima volta, anche i “compagni” di Tito: quel suo entourage che non diventò mai una corte e che anzi fu attraversato di continuo da tensioni e scontri.

 

Il sostanzioso volume si chiude con una appendice che mette in luce alcune problematiche del maresciallo: dal culto della personalità, ai problemi di salute che minano i suoi ultimi anni fino alla morte, avvenuta il 4 maggio 1980.

 

Le ultime pagine sono riservate alla descrizione dei funerali di Tito, quando come ricorda Giancarlo Pajetta: “Una folla immensa attese il giorno e la notte per vederne la bara [...] Con i grandi della terra c’erano i comunisti, i socialisti, i movimenti di liberazione di ogni parte del mondo. [...] Tutti in piedi ad ascoltare l’Internazionale”.



 

 

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