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N. 22 - Ottobre 2009 (LIII)

UNA TIRANNIA MODERNA
Ezzelino III da Romano - Parte I

di Giuseppe Tramontana

 

Settecentocinquanta anni e non mostrarli. Sono tanti gli anni trascorsi dalla morte del ‘gran tiranno’ Ezzelino III da Romano. Anniversario caduto lo scorso 27 settembre.

 

Personaggio stimolante, sfaccettato, dalle enormi ambizioni e dalle ancor più strabilianti conquiste, molto discusso, amato ed esecrato, Ezzelino è uno dei pochissimi personaggi storici il cui nome lo ritroviamo in quello di un comune italiano: Romano d’Ezzelino, Treviso. Più che una risonanza storica, una vera e propria deditio in saecula saeculorum della cittadina all’illustre tiranno. Uomo, condottiero originale, Ezzelino.

 

Con lui, l’uomo nega se stesso, la sua umanità, diventando mostro. Infatti, fin dal XII secolo la storiografia aveva indagato la vita di personaggi grandi per valore militare o terribili per ambizioni sfrenate, e fra essi erano annoverate nature audaci e generose come Alessandro Magno, Giulio Cesare e Carlo Magno o nature violente e feroci come Nerone, Caligola e Attila. Eppure, fino ad allora, in tutti questi uomini, le cui gesta eroiche o crudeli facevano parte del patrimonio collettivo di conoscenze, c’era, in qualche momento della loro vita, un barlume di umanità, anche in quegli ‘eroi neri’ passati alla storia come incarnazione del male. Con Ezzelino l’uomo, l’eroe, diventa belva. In lui non vi sono tracce di pietà umana, nessuna prova di amore o pentimento. Di lui Salimbene de Adam scrive: “Hic plus quam diabolus timebatur… Nec Nero in crudelitatibs simils ei, nec Domizianus, nec Decius, nec Dioclezianus, qui, fuerunt maximis in tyrannis.”


Per le cronache della seconda metà del XIII secolo - che saranno la linfa di tutta la futura letteratura sul da Romano - egli fu solo furente e crudele tiranno assetato di sangue, ingegnoso e gaudente nello sperimentare torture sempre nuove sui suoi nemici, irremovibile nelle sue nefaste decisioni di morte. Ma Ezzelino naturalmente non fu solo questo. Egli fu, soprattutto, il portatore di un progetto statuale che, in anticipo sui tempi, solo due secoli dopo troverà piena attuazione con le signorie toscana e lombarda.

 

Fu indubbiamente un protagonista della storia veneta di quel periodo, anch’egli naturalmente condizionato dall’ambiente in cui si trovò a operare. Così se, di certo, non fu l’unico potente a macchiarsi di misfatti e nefandezze, fu però senz’altro il primo ad assumere le vesti del grande statista, capace di far leva sull’autonomia concessagli dall’imperatore per sperimentare una forma di potere su scala sovracittadina. E ciò accadeva in un’epoca e in un’area geografica dominate dal particolarismo e dalla bellicosità dei Comuni.


Egli riuscì a collegare i vari centri e i relativi territori, affidando a Verona il ruolo di capitale de facto di questa nuova entità politica. In tal senso, allora, il da Romano si presenta - per dirla con Cracco - come “l’artefice remoto del formarsi di una originaria identità regionale”, l’autore cosciente e pervicace di un progetto politico inglobante tutto il Veneto e oltre, fino a Trento e Aquileia a nord, a Brescia a ovest e a Mantova e Ferrara a sud.


I da Romano: dal feudo al dominio sovracittadino


I capostipiti della famiglia da Romano fecero la loro comparsa a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo XI.


La situazione politica generale era in grandissimo fermento. Il Regno Italico era scosso dal contrasto tra le due massime autorità dell’epoca: Impero e Papato.


Nel 1073 venne eletto al soglio pontificio Ildebrando di Soana, col nome di Gregorio VII. Egli tentò di far uscire la Chiesa dall’orbita imperiale, ma a prezzo di una durissima lotta con il massimo potere civile.


Nel 1075 il papa vietò ogni investitura di vescovi da parte di sovrani o dell’imperatore medesimo. In tal modo si rompeva il legame tra potere laico e potere vescovile. Alla mossa del papa rispose l’imperatore Enrico IV che immediatamente convocò un concilio per deporre il pontefice, il quale, a sua volta, emanò il Dictatus Papae, scomunicando l’imperatore.


Dei primi anni Ottanta, invece, fu la riscossa militare di Enrico IV, il quale, nel 1084 riuscì a prendere Roma, costringendo vescovi, grandi ufficiali, feudatari e signori a schierarsi con lui, anche se a lui non favorevoli, come ricorda Cinzio Violante.


Per quanto concerne l’altro antagonista, la fine di Gregorio VII è nota: rifuggiatosi a Castel Sant’Angelo, venne tratto in salvo da Roberto il Guiscardo, che lo condusse a Salerno, dove morì nel 1085. Enrico IV, invece, costretto a ritornare in Germania pochi anni dopo, dal 1090 in poi si trovò nuovamente nell’Italia settentrionale con l’obiettivo di stroncare definitivamente la potenza dei marchesi e dei duchi di Canossa.


Una delle regioni su cui si esercitò per qualche tempo il suo dominio fu la cosiddetta Marca Veronese ossia – come ricorda Andrea Castagnetti – la Marca istituita da Ottone I alla metà del secolo X e che “corrispondeva grosso modo al Veneto odierno senza Venezia”. Lo stesso Castagnetti sottolinea che qui principi, feudatari e signori erano costretti “nuovamente a schierarsi dalla sua parte, come avviene anzitutto ai marchesi d’Este, la più nobile e potente famiglia della Marca”.


È in questo quadro che fanno la loro apparizione nella documentazione pervenutaci Ezzelo e la moglie Gisla, il primo di ‘legge salica’, la seconda longobarda. E anche Gerardo Maurisio non risale più in là di Ezzelo di Arpone. Secondo Rolandino da Padova questo Ezzelo era un semplice “miles ab uno equo” venuto in Italia con Corrado il Salico, dal quale ricevette la ‘curia’ di Onara.


A proposito di questo episodio, tuttavia, Gina Fasoli contesta le affermazioni del cronista patavino, rilevando che Ezzelo, di legge salica, era notevolmente ricco già da prima, visto che “ancora nel 1085 […] fa una cospicua donazione al monastero di S. Eufemia di Villanova”. Sicché, secondo la storica, la famiglia da Romano “doveva essere trapiantata in Italia da assai più tempo di quanto generalmente si ritiene: anche l’ipotesi di un matrimonio straordinariamente vantaggioso di Ezzelo, presuppone una preesistente sua eminenza sociale, inconciliabile con la modestia di un ‘miles ab uno equo’, venuto in Italia al seguito di un imperatore che – per quello che se ne sa – non aveva particolari motivi per essere straordinariamente generoso con lui”. Infatti, la stessa Fasoli evidenzia come il capostipite della famiglia da Romano avesse “il primo posto tra i feudatari minori che nel 1091 stanno intorno a enrico IV, allorché – stando nella corte del vescovado di Padova - prende sotto la sua protezione un monastero padovano”.


A ogni modo, ben presto il potere della famiglia si esercitò su un’area vastissima, comprendente – come nota il Castagnetti – “una parte consistente del territorio che si trovava tra le due località di Romano, a nord, e di Onara, a sud, e aveva all’incirca per lati, a occidente, il fiume Brenta, a oriente superava il Musone e il Dese, con il castello di Godego, fino alle località di Riese e Vallà”. A questi possedimenti vanno però aggiunti quelli concessi in feudo dal vescovo di Vicenza, ossia Bassano, che sarebbe divenuta la loro residenza abituale, e l’intero distretto comprendente Angarano e Cartigliano, con relativi castelli, ville, privilegi, immunità esenzioni e diritti.


“Il primo documento – scrive la Fasoli – che ci mostri i da Romano in possesso di un altro feudo oltre a quelli di Onara e Romano è del 1159: Ezzelino il Balbo è in lite con il vescovo di Frisinga per Castel di Godego, che suo zio Ezzelo aveva avuto in feudo; la lite si concluderà con una nuova investitura”. Insomma, in questo periodo i da Romano ingrandirono i loro possedimenti con l’acquisto della curtis di Godego dalla chiesa vescovile di Frisinga. A tal riguardo, sempre il Castagnetti aggiunge che “poiché fra le località in cui si trovavano i possessi donati dagli Ottoni viene nominata anche quello di Onara, non ci sembra forzato supporre che anch’essa facesse parte in origine del complesso di beni dipendenti dal centro maggiore, Godego, ove si trovavano un castello e la curia ovvero il centro signorile e feudale”.


Siamo di fronte, pertanto, a un territorio molto esteso, posto in una zona strategica per il controllo sia delle vie di transito sia dei territori appartenenti a Padova, Vicenza e Treviso. E queste città, oltre a Verona, svolgevano, allora, un ruolo da protagoniste nelle vicende politiche della regione, grazie soprattutto al costituirsi delle loro popolazioni in comuni cittadini. Tale nuova forma istituzionale si affermerà a Verona nel 1136, a Padova due anni dopo, a Vicenza nel 1147 e, infine, a Treviso verso la metà degli anni Sessanta. Naturalmente, quattro città di tale importanza, situate all’interno di un territorio alquanto circoscritto, nella fascia pianeggiante e pedemontana, fra Adige e Piave, giunsero ben presto a contrapporsi. Ma il motivo principale che le spingeva alle lotte era la tendenza, comune a questi governi cittadini, ad attuare quella che il Varanini ha chiamato una “ricomposizione territoriale”. Così – prosegue questo storico – “generale è l’attitudine a intervenire in modo tendenzialmente organico nel distretto, dando a esso un inquadramento amministrativo e fiscale e promuovendo la fondazione di borghi franchi o altri insediamenti ‘programmati’, in funzione oltre che di un più intensivo sfruttamento organico anche di difesa contro i vicini”. Inoltre, un po’ ovunque si manifesta l’orientamento a ridimensionare il potere ecclesiastico così come in tutte le città si passa da un regime consolare a uno podestarile.


Questi sviluppi porteranno alla nascita di “signorie rurali laiche di tipo ‘zonale’ – come afferma il Varanini – non limitate al controllo di una sola fortezza, ma basate su relazioni e dipendenze ‘plurime’, che offrivano alle famiglie titolari ampi margini di manovra e più chances per svolgere un ruolo politico attivo”.


La ristrutturazione dei poteri dentro le grandi città venete e all’interno dei territori a esse soggetti sarà l’elemento che le porterà allo scontro. Già negli anni Quaranta divampò una guerra combattuta tra Verona e Vicenza, da una parte, e Padova e Treviso (che erano in guerra anche contro Venezia), dall’altro. Come ci ricorda il Castagnetti, “i motivi principali del conflitto sono indicati chiaramente dal trattato di pace di Fontaniva del 1147: controllo delle vie di acqua e di terra per le comunicazioni e per il commercio; supremazia politica su alcuni grossi centri rurali quali Bassano, Marostica e Montegalda, che erano certamente contese fra Vicenza, Padova e Treviso”.


Ed è in occasione della firma di questo trattato di pace che, tra i Tarvisiani, troviamo il nome di Ezzelino I da Romano, detto il Balbo, con un suo fratello, a significare la rilevanza che la famiglia in questione doveva rivestire nella gestione delle trame di potere trevigiane e venete.


Ezzelino il Balbo, che appare nei documenti a partire dal 1135, era il figlio di Alberico, fratello di Ezzelo, entrambi figli di Ezzelo d’Arpone.


Nel 1169, Ezzelino il Balbo appare come vassallo dei canonici di Treviso. Infatti, il 15 gennaio di quell’anno, egli, assieme ad altri vassalli dei canonici, pronunciò una sentenza in un processo per il possesso di case in città.


Anche i da Romano, peraltro, come tutti i potenti dell’epoca, al fine di accrescere i loro domini territoriali, promossero un’oculata politica matrimoniale. A tal proposito Sante Bortolami rammenta il noto episodio per cui “Ezzelino il Balbo, bruciando sul tempo i Camposampiero, combinò un matrimonio tra la ricchissima Cecilia di Abano e il figlio Ezzelino il Monaco, dopo il 1168. […] E ben a ragione Rolandino osserva che il Balbo sperava ‘per talem nurum magnum habere dominium in partibus paduanis’”. Le stesse mire guidavano probabilmente il matrimonio dell’altro figlio Giovanni con Beatrice da Baone, avvenuto prima del 1183. Ma, in entrambi i casi, le aspettative del da Romano andarono deluse.


Invece, di maggiore interesse appare il ruolo che Ezzelino il Balbo giocò all’interno della coalizione contro Federico Barbarossa. Infatti, nelle trattative di Montebello tra l’imperatore e i rappresentanti della Lega Lombarda, accanto ai consoli e ai rettori delle varie città si distinsero anche lo stesso Ezzelino il Balbo e anselmo da Dovara. E nel privilegio – meglio noto come pace di Costanza – riconosciuto dall’imperatore ai Comuni nel 1183, Ezzelino venne “espressamente riammesso nella grazia imperiale, segno anche di un ruolo politico e militare assai attivo”.


Da quel momento in poi, i da Romano, sfruttando l’intreccio di rapporti e rivalità tra le quattro maggiori città di pianura (ossia Vicenza, Verona, Treviso e Padova), cercarono di fondare su solide basi la loro potenza economica e si affermarono, grazie alla loro ricchezza in beni terrieri e alla loro abilità negli affari politici, come “una di quelle famiglie cosiddette podestarili, tanto frequenti nella storia d’Italia di quegli anni”.
Nel 1178, Ezzelino il Balbo era iscritto tra i cittadini di Treviso, città nella quale si era fatto costruire un palazzo. Altri palazzi aveva fatto erigere a Vicenza e Padova. Nella prima città, nel 1183, ricoprì anche la carica di podestà.


Intanto, il figlio, Ezzelino II, detto il Monaco, nel 1187 rivestiva l’ufficio di console del comune di Treviso assieme al conte Schinella; tre anni dopo divenne podestà della stessa città, restando in tale magistratura dal luglio 1190 al luglio 1192. Questa carica testimonia dell’alta considerazione di cui doveva godere ed proprio in quanto esponente di una delle famiglie più in vista dell’intero territorio trevigiano prese parte alla guerra per la conquista del bellunese, nella quale furono coinvolti un po’ tutti i paesi circostanti: da Belluno a Feltre, da Padova a Verona, dal Patriarcato di Aquileia a Conegliano, Ceneda e Vicenza. Fu questa una guerra che, come osserva il Rapisarda, “né mediazione dei Rettori della Lega Lombarda, né minacce di sanzioni ecclesiastiche, né scomuniche papali ebbero il potere di arrestare, guerra che si concluse da sé, dopo ben undici anni di accanito impegno nel farsi reciprocamente il maggior danno possibile (1192-1203)”. E a proposito dell’asperità di questo scontro, il Castagnetti sottolinea come esso andasse di pari passo all’accrescersi della violenza anche all’interno delle varie città. Questa asperità, per molti versi, rappresentò un elemento di novità causato dal fatto che “i centri di potere da ‘conquistare’ divennero sempre più i comuni cittadini, verso i quali si orientarono, prima o dopo, tutti gli antichi potentati politici locali, dalle dinastie marchionali e comitali ai maggiori feudatari e ai signori minori”. Insomma, nacquero in questo periodo quelle divisioni all’interno delle mura della stessa città che saranno una costante della vita dei comuni negli anni successivi.

 

Certo, le divisioni sociali, le lotte politiche intestine erano esistite anche prima. Tuttavia, quelle che si riscontrano nella prima età comunale avevano caratteristiche diverse. Prima le contrapposizioni erano avvenute sulla base delle differenti estrazioni sociali; a cominciare da questo periodo le lotte avvenivano all’interno dello stesso ceto. Inoltre, come spiega ancora il Castagnetti, le nuove lotte generavano altre forme inedite di alleanze: quelle tra gli appartenenti alla medesima pars, ma in città differenti. “Ora - afferma lo storico - sono la volontà e nello stesso tempo la difficoltà […] di prevalere nell’ambito di un singolo comune cittadino, che spingono le partes, che hanno a capo le famiglie più potenti, le quali nei fatti coincidono con le famiglie più antiche, a cercare rapporti e collegamenti con le partes agenti in altre città, come conseguenza, dunque, delle lotte intestine”.


Questa complessa situazione, basata sull’intreccio di lotte diffuse dentro le singole città e alleanze su base sovracittadina, favorì nel giro di breve tempo il sorgere di potentati a carattere territoriale, la cui azione non si limitava più al controllo di una sola fortezza o di un solo castello, ma si estendeva al governo di relazioni e domini plurimi e articolati, che consentivano alle famiglie ampi margini di manovra e ampie possibilità di esercitare un rilevante ruolo politico. In tale prospettiva, dunque, l’azione di famiglie illustri come quelle dei da Romano, degli Estensi, dei da Camino, dei Camposampiero, dei Sambonifacio e altre ancora permetteva di agire su più terreni cittadini e - come nel caso specifico dei da Romano - coltivare e realizzare disegni egemonici su scala regionale, magari facendo leva su quelle masnade, il cui apporto si dimostrerà risolutivo per tutto il periodo dell’attività politico-militare della famiglia.


A conferma di questa tesi si può citare l’evoluzione che, tra il 1193 e il 1195, ebbero i contrasti a tra le fazioni vicentine dei Maltraversi, con a capo il conte Uguccione, e dei Vivaresi, dalla cui parte erano schierati i da Romano. Ben presto queste dispute si trasformarono in una vera e propria guerra. In seguito ai primi scontri Ezzelino il Monaco era stato cacciato dalla città. Ma, da lì a poco era ritornato con la forza. Ma la pace non era arrivata. Dopo alterne vicende e distruzioni di ingenti beni e danneggiamenti degli stessi centri di Bassano e Marostica, la guerra ebbe termine nel 1199 con Ezzelino costretto a staccarsi dall’alleanza con Padova (che minacciava Bassano) e a chiedere la mediazione del podestà di Verona, rimettendosi al suo arbitrio per la composizione dei dissidi tra le parti.


È palese che il motivo principale che spingeva le grandi famiglie ad allearsi era il tentativo di dar corpo al disegno politico di ognuna ossia alla realizzazione di un vero e proprio “modello signorile: dalle loro basi rurali si proiettano alla conquista delle città”. Tuttavia, le forme di tale collegamento erano proporzionate alla loro posizione sociale e al loro potere signorile. In tale prospettiva le famiglie signorili che avevano saputo mantenere ampie basi di potere in più comitati o in zone di confine, poterono o tornarono a svolgere un ruolo politico essenziale.

 

Fu questo anche il caso dei da Romano, che per ampiezza del potere e influenze politiche avevano ben pochi rivali. Il centro del loro vasto potere restava Bassano, all’epoca una cittadina con una stratificazione urbana e professionale non lontana dai centri più importanti della zona, nonché snodo di comunicazione di straordinaria importanza. I da Romano attuarono, allora, quella che Silvana Collodo ha definito una “politica famigliare” diretta a creare o consolidare un grande dominio territoriale. In questa “politica famigliare” rientrava, naturalmente, la scelta delle dinastie cui legarsi tramite i matrimoni dei propri rampolli. “Per questo – scrive ancora la Collodo – i da Romano si imparentarono con le maggiori stirpi signorili del Veneto e anche della Padania. Nel XII secolo erano legati ai Camposampiero, una casata fiorita in area attigua, nel XIII secolo Ezzelino III e Alberico strinsero alleanza matrimoniale con i Torelli e con gli Estensi, prima gli uni e poi gli altri signori di Ferrara”.


Naturalmente, l’importanza strategica, economica e politica di Vicenza non sfuggiva neanche ad altri grossi Comuni. Prima tra tutti Padova che, dopo aver cacciato da Vicenza anche i Vivaresi, appoggiava Ezzelino fin dal 1188. Ma, nel 1198 il da Romano ruppe l’alleanza coi padovani per avvicinarsi a vicentini e, soprattutto, veronesi, mentre maturava anche l’intesa con Ferrara, dove infuriava lo scontro tra le famiglie Torelli e d’Este. Ma non finì qui poiché, immediatamente dopo, i da Romano riuscirono persino a isolare completamente i padovani attraverso una lega tra i Comuni di Treviso e Verona e la neutralità di Vicenza e Venezia.


Nel frattempo, proseguiva la politica di espropriazione dei territori ecclesiastici trevigiani, tramite l’introduzione di statuti che permettevano, dietro indennizzo di un sesto del valore reale, l’alienazione forzata delle concessioni feudali della Chiesa locale. Così appena un anno dopo, nel 1199, le diocesi di Feltre, Belluno e Ceneda erano sottomesse a Treviso, mentre i da Prata, avvocati di Ceneda, addirittura si riappacificarono coi da Romano e il Comune e ne riconobbero la giurisdizione.


Ancora l’anno successivo (1200) il vescovo bellunese, la cui cattedra era stata unificata con Feltre, cedette al podestà Guglielmo da Pusterla – alleato di Ezzelino il Monaco – le corti di Oderzo, Mussolente, Soligo, Maser e Fregona, che in brevissimo tempo si ritrovarono definitivamente sottoposte ai da Romano.


Sul versante militare ormai la guerra stava volgendo alla conclusione e il progetto ezzeliniano aveva iniziato a prendere consistenza: nonostante le proteste del papa Innocenzo III, nasceva un centro di potere sovracittadino.


Lotte per il potere fino alla divisione dell’eredità di Ezzelino II


La sete di potere della famiglia da Romano non si limitò al controllo di un territorio che, tuttavia, anche geograficamente rappresentava la base per il lancio di ulteriori e più consistenti espansioni.


Le prime spedizioni cominciarono con la penetrazione attraverso il Livenza, alla conquista delle signorie feudali del Patriarcato di Aquileia che porterà nel 1219 alla ribellione – “pilotata”, secondo il Manselli - dei nobili castrensi di Polcenigo, Soffumbergo, Villalta, Caporiacco, Strasso, Fontanabona, Budrio, Castelli e da Prata, che accettarono anch’essi la sottomissione alla giurisdizione di Treviso e divennero membri a pieno titolo del partito ezzeliniano.


Nello stesso 1200 un importante fronte interno si apre a Ferrara. In questa città, Salinguerra II Torelli riuscì, infatti, a tessere le fila di un’alleanza con Verona - tanto che le due città giunsero a scambiarsi i podestà – dando così vita, in entrambi i Comuni, a un asse tra le partes avverse ad Azzo VI d’Este. In quell’occasione a Verona divenne podestà lo stesso Salinguerra, futuro genero di Ezzelino II, e immediatamente si impegnò nelle lotte in atto nella parte orientale della Marca, dove era in corso di definitiva affermazione la supremazia ezzeliniana sugli episcopati e il loro tradizionale potere secolare.


Nel secondo semestre dello stesso 1200 i progetti di Salinguerra presero corpo: due ferraresi divennero podestà di Treviso e Vicenza; nella prima Pietro di Remengardo, fratello di Salinguerra, nella seconda Marchesino dei Mainardi, che mosse subito guerra contro la pars vicentina, alleata di Azzo VI d’Este. Costui, in quell’occasione, risultò essere circondato dai nemici e, con lui, anche Padova, città sua alleata della quale era stato podestà l’anno precedente, e l’altra lontana alleata Mantova.


Ma il potere di Salinguerra non durò né a Verona né a Ferrara. Dalla prima città venne cacciato nel 1206 dallo stesso Azzo VI, il quale, nell’occasione, sconfisse una coalizione sostenuta dai da Romano, i quali, nel frattempo, si erano collegati ai veronesi Montecoli. Poi, mentre Ezzelino II lottava contro una grave malattia, Azzo si impadronì di Ferrara, rivolgendo infine le sue truppe contro Vicenza. Tra l’altro, nel 1208 il signore Estense ottenne dal papa il marchesato di Ancona, passato, alla sua morte (1213), prima al figlio Aldobrandino e poi all’altro figlio Azzo VII Novello (1215).


Dal punto di vista di Ezzelino II, l’alleanza con i Montecoli e con Salinguerra – diventato nel frattempo suo genero, rappresentò – come ha sottolineato ancora il Castagnetti – la scelta politica più consona per contrapporsi “alla intensa e potente attività espansionistica degli Estensi”. In tal modo si venne accentuando anche la ricerca di collegamenti con le famiglie anti-estensi, ovunque queste si trovassero. Fu allora che, con tutta probabilità, prese definitivamente forma il disegno di una politica di potenza su base regionale.


A porre momentaneamente fine alle lotte tra l’Estense ed Ezzelino il Monaco fu l’intervento dell’imperatore Ottono IV, in viaggio verso Roma, il quale costrinse i contendenti a riappacificarsi. Immediatamente il da Romano ne approfittò per rinsaldare il suo potere su Vicenza, tenuta ininterrottamente dal 1209 al 1211, e a capo della quale collocò due suoi fedeli alleati lombardi: Drudo Buzzacarini e Guglielmo l’Ardito, che saranno anche tra i massimi alleati di Ezzelino III. La preoccupazione principale di costoro fu quella di sottomettere l’aristocrazia feudale.


La tregua, però, fu alquanto breve e anzi le lotte divamparono più feroci che mai. I prodromi dell’imminente scontro fu dato dal fatto che i vicentini di tendenze anti-ezzeliniane fuggirono alla volta di Verona, mentre i veronesi avversi agli Estensi fecero il tragitto inverso. Tutto era pronto per la guerra. Nel 1212, a Ponte Alto, avvenne lo scontro, conclusosi con una schiacciante vittoria del da Romano. Tale risultato apparve ancora più clamoroso in virtù della morte dei due grandi nemici dei da Romano: Bonifacio di Sambonifacio (10 novembre 1212) e Azzo d’Este (18 novembre 1212).


A questo punto, sembrò che Ezzelino fosse realmente il padrone della Marca. Infatti, avendo già in pugno Treviso e Vicenza, si insediò anche a Verona e, d’accordo con i padovani, procedette a dare il colpo di grazia alla potenza estense mediante la distruzione del castello di Este. Peraltro, fu proprio in questa occasione che si mise in luce il figlio di Ezzelino II, Ezzelino III.


Naturalmente il dominio della famiglia da Romano su un territorio di tale vastità andava a toccare e sconvolgere interessi e rapporti locali consolidati. Sicché immediata fu la reazione dei potentati – comunali e non – lesi. Prima tra tutti si levò la voce del papa Innocenzo III, che, in una lettera del 1213, definiva il marchese d’Este “difensore della Chiesa”, legittimandolo nella sua funzione di opposizione ai da Romano, mentre scomunicava Ezzelino II. Della pronuncia del papa approfittarono immediatamente Padova e Venezia (che ormai guardava con estremo interesse alla terraferma), le quali si schierarono contro lo scomunicato. Quasi nello stesso periodo, sempre in funzione anti-ezzeliniana, fu promossa una coalizione che avrebbe assicurato la pace per un decennio. Era sicuramente un modo efficace per bloccare Ezzelino II e per dar tempo ai suoi avversari, che erano sempre più numerosi, di riorganizzarsi. E, in effetti, da lì a poco, Ezzelino, accerchiato, fu costretto ad abbandonare Vicenza e, nel 1218, dovette lasciare agli stessi vicentini anche Marostica. Tuttavia, il tentativo di ridimensionarlo, fino a ridurlo al rango di un signorotto pedemontano, fallì. Infatti, sotto la guida del giovane Ezzelino III, i da Romano contrattaccarono e riuscirono a sconfiggere i vicentini a Bressanvido, ritornando a essere padroni della città. Però sapevano che l’accerchiamento non era terminato. I nemici erano dappertutto e loro avevano ancora bisogno di tempo per organizzare valide controffensive dirette non solo a difendere quanto già acquisito, ma a conquistare nuovi territori e domini. Di questo stato di cose, all’inizio del 1219, approfittarono i padovani che, prima, costrinsero i da Romano a rinunciare al castello di Campreto e, poi, costruirono vicino Onara un borgo fortificato per meglio controllare le loro mosse: Cittadella.


A questo punto, per uscire da una impasse preoccupante, Ezzelino II avviò una nuova ‘politica matrimoniale’. Fece sposare i due figli Alberico ed Ezzelino III rispettivamente con Beatrice, figlia di un ricco borghese locale, e Zilia, sorella di Rizzardo di Sambonifacio, che, a sua volta, ebbe in moglie Cunizza, sorella dei primi due. L’intento, neanche tanto occulto, di Ezzelino II, regista di tutti questi matrimoni era quello di aprirsi la strada in direzione di Verona e nel contempo far fronte, con un’alleanza militare straordinaria, alla pressione del Comune di Padova. Ma, i Sambonifacio, che miravano anch’essi al dominio di Verona, presero ben presto le distanze, mentre a Ferrara tornarono gli Estensi, il maggior esponente dei quali, Azzo VII, era divenuto persino delegato di Federico II.


Fu in questa situazione di grave instabilità politica, sempre sull’orlo di una guerra, perennemente carica di tensioni e di piccoli e grandi dissidi, dentro e fuori le città, che Ezzelino II decise di ritirarsi in convento (1223). In realtà, già dal 1218 egli risultava infirmus e nel 1221 aveva ricevuto una lettera di felicitazioni dal papa per aver rinunciato alla ‘militia’ e ai ‘desiderii’ del mondo.


Il più vecchio dei da Romano, stanco, malato, desideroso di pace e – per certi versi – soddisfatto dei domini acquisiti, si ritirò nel convento di Oliero, senza pronunciare i voti monastici, dopo avere provveduto alla divisione, tra i due figli, degli ingenti beni della casata, dei quali solo una minima parte (Godego, Treville, Villarozzo, Loria, Romano, Castiglione e Angarano) tenne per sé.


Gli anni dell’affermazione del rampollo


Con la divisione dei beni, avvenuta a Bassano, il 5 luglio 1223, Alberico ed Ezzelino III entrarono in possesso di un vastissimo patrimonio, che divenne la base della loro potenza futura.


Ezzelino il Monaco lasciò alla sorte l’assegnazione delle parti. Ad Alberico, fra beni feudali e allodiali, toccarono: Bassano, Fontaniva, Angarano, Rossano, Cartigliano, Romano, Mussolente, Borso, Cassanago, Sant’Ilario, Solagna con tutta la gastaldia, Enego, Gallio e i possedimenti di Pieve di Arsié e, in Valsugana, di Cassola, di Vicenza e del vicentino più la metà di tutti i crediti.


A ezzelino toccarono San Zenone, Lediolo, Crespano, Bessica, Pietrafosca, Loria, Cismon, Spineda, Pagnaro, Medolo con la gastaldia, Fontanelle con la gastaldia, Godego e Treville con le loro curie, Cortiglione, San Martino di Lupari, Treviso, i beni di Cismone, Feltre, Fonzaso, Belluno, Cesan, l’avvocatizia di Belluno, i beni del Patriarcato di Aquileia e del Monastero di Pero, con tutti i diritti su questi terreni e la metà dei crediti.


Intanto, però, il doppio vincolo di parentela tra da Romano e Sambonifacio aveva messo in allarme i veronesi Montecoli, che si sentivano minacciati. Ma non ci fu bisogno di addivenire a nuovi scontri poiché l’alleanza tra le prime due famiglie si ruppe subito. “Quali siano stati i veri motivi della rottura – afferma il Rapisarda – non si può dire con precisione, perché i cronisti su ciò sono poco d’accordo fra loro”, ma quasi sicuramente sono da ricercare nella rivalità accesasi per il possesso di Verona e zone limitrofe.


Liberatosi dal vincolo dei Sambonifacio, Ezzelino passò dalla parte dei Montecoli. Costoro, assieme ai loro alleati Quattuorviginti (transfughi del partito dei Sambonifacio, nel 1225, avevano preso le armi contro gli stessi Sambonifacio e, fatto prigioniero il podestà Giuffredo da Pirovano, si erano impadroniti di Verona. In tal modo Ezzelino, legato ancora a Salinguerra e in rotta coi Sambonifacio, colse l’occasione per inserirsi nelle vicende veronese e, schierandosi coi Montecoli, allungò le mani sulla città.


Il 4 giugno 1226 i Sambonifacio vennero cacciati e, al posto di Leone delle Carceri, divenne podestà Ezzelino medesimo.


Secondo Gerardo Maurisio, nell’assumere quella determinazione, agì su Ezzelino il rancore verso i conti di Sambonifacio, mentre per Rolandino era stato lo stesso Salinguerra a chiedere aiuto per iscritto. In realtà, è molto più verosimile che il da Romano volesse – come si è rilevato poco sopra - semplicemente impadronirsi della città e magari usarla come piattaforma per la conquista della zona pedemontana. Tanto più che in quel momento i da Romano, nella persona di Alberico, erano stati banditi da Vicenza a opera del podestà bresciano Lorenzo Martinengo, dopo che questi aveva scoperto una congiura contro di lui, architettata dallo stesso Alberico e dai signori di Breganze.


Il governo di Ezzelino su Verona durò fino al settembre 1227, sostituito da Manfredo di Cortenuova. Fu questa la fase in cui, nell’esercizio della sua autorità, il podestà veronese fu affiancato dalla nuova istituzione della ‘Comunanza’. Quest’organo collegiale, nel quale erano rappresentati tutti gli esponenti delle fazioni cittadine, avrebbe dovuto assicurare la pace e la convivenza tra le partes, pace alla quale era interessata verosimilmente non solo la cittadinanza di Verona, ma tutta la Lega Lombarda, la quale, superato il contrasto con l’Imperatore e iniziate le pratiche per l’amnistia, aveva seri motivi per volere la pace in città: un eventuale accentuarsi delle discordie avrebbe infatti avvantaggiato solo Federico II, al quale il partito vinto avrebbe inevitabilmente fatto ricorso. L’arbitrato della Lega avvenne a Nogara l’8 giugno 1227. La pacificazione tra le parti sembrava cosa fatta. Questo periodo di tregua portò, a distanza di un anno, alla stesura del nuovo statuto cittadino.


Nel 1228, intanto, dopo il periodo di lontananza, Ezzelino tornò a Treviso, dove continuava a coltivare solide amicizie come quelle dei Guidotti, dei da Cavaso, degli Arnaldi, dei da Vidor e di elementi ‘popolari’ come i Fabris e i Riccardi. Ripreso in mano il destino della città, il da Romano rilanciò le lotte per l’espansione, soprattutto contro i vescovi di Feltre e Belluno. Anche questi due Comuni vennero conquistate, ma ben presto l’intervento dei padovani, tutori di quei vescovi, coadiuvati dal Patriarca di Aquileia e da Azzo VII d’Este, determinò la riconquista delle due città.


Nel 1230, mentre si trovava a Treviso, fu raggiunto dalla notizia di alcuni tumulti verificatisi a Verona, in Campo Marzo, in seguito ai quali i capi delle fazioni contrapposte erano stati condannati l confino a Venezia dal podestà Ranieri Zeno. Ezzelino si recò in quella città e, con i Montecoli e i Quattuorviginti, sconfisse i Sambonifacio, che difendevano il podestà in carica, dei quali era emanazione. Il conte Rizzardo fu fatto prigioniero - e per la sua liberazione venne mobilitato persino il francescano Antonio da Padova – e le torri cittadine abbattute, volendo significare con ciò che Verona era nuovamente delle forze filo-ezzeliniane. Soltanto ai Rettori della Lega Lombarda – chiamati in causa dai padovani – il da Romano si decise a consegnare il conte prigioniero, dietro promessa della consegna del castello di San Bonifacio e del Comune di Verona, cosa che poi non accadde e che contribuì a spingere Ezzelino verso Federico II.


Infatti, nel gennaio 1232, a Ravenna, si tennero i primi contatti tra il da romano e Salinguerra, da un lato, e l’imperatore, dall’altro. La formale adesione al ‘partito’ imperiale avvenne nella primavera di quello stesso anno. Non sappiamo se, fino a quel momento, i da Romano avessero affrontato il problema delle città comunali in un orizzonte meramente localistico, intra-Marca in particolare, ma è certo che l’alleanza con l’imperatore rappresentò anche per Ezzelino un salto di qualità militare e politico, coincidente peraltro con un radicale cambiamento strategico. Infatti, già nel 1226 i da Romano avevano provato ad accostarsi alla Lega Lombarda con l’obiettivo di poter giocare un ruolo di condizionamento e di indirizzo sulle città lombarde e venete.

 

Ma soprattutto i Comuni lombardi non avevano nutrito verso quella schiatta ‘straniera’ alcun sentimento amichevole e anzi avevano preferito l’appoggio degli Estensi e dei Sambonifacio – ‘stranieri’ anch’essi, ma verosimilmente con connotati meno aggressivi. In un primo momento il da Romano tentò addirittura di ingraziarsi il papa promettendo di consegnargli, con gesto disperato, il vecchio padre accusato di eresia, ma senza successo. Allora pensò di legarsi all’imperatore, il quale, in quel momento, si muoveva per l’Italia con l’obiettivo espresso di distruggere le libertà comunali. Tuttavia, per attuare questo piano - che era anche un forte programma politico - Federico II aveva bisogno di forze fedeli in grado di garantirgli il controllo della situazione allorché sarebbe giunto il momento per attuare ciò che la volontà di Dio e l’eredità imperiale di Roma imponevano. Certamente, vi erano città di tradizioni ghibelline cui l’imperatore avrebbe potuto appoggiarsi.

 

Era questo il caso di Cremona e Parma, ma anche del Patriarcato di Aquileia. Ma delle città non poteva fidarsi fino in fondo: erano perennemente esposte a colpi di mano e a vagolare da uno schieramento all’altro. Il Patriarcato di Aquileia, oltre tutto, era debole e isolato, senza grandi garanzie di sicurezza, un corpo separato rispetto al blocco delle città guelfe o anti-imperiali. È qui che allora Federico si rende conto di avere bisogno della Marca. E questo per più ragioni. La prima era da ricercarsi nella vastità del suo territorio, il quale – come evidenzia ancora il Rapisarda – “avrebbe formato una larga base per un buon accentramento di forze e, quel che più contava, avrebbe assicurato la via di Verona e dell’Alto Adige alle cavallerie tedesche, su cui Federico faceva tanto affidamento”.

 

La seconda ragione riguardava proprio la questione più squisitamente militare. Infatti, quando in Lombardia iniziarono le prime lotte, Federico – come scrive Eberhardt Horst – poteva contare solo su “una forza di non più di 2000 cavalieri, frutto dell’unione delle varie milizie e finanziati dalle tasse del Regno di Sicilia e dall’oro della dote della britannica Isabella”. In questo contesto, allora, le numerose forze compatte, fedeli e disciplinate di Ezzelino rappresentarono un bene inestimabile. Fu grazie a tali forze del “formidabile Ezzelino” se le truppe imperiali poterono resistere e permettere così agli eserciti delle città lombarde filo-imperiali di giungere indisturbate a Verona, nel 1236. All’esercito di Federico, poi, si aggregarono “cavalieri toscani, fanterie inglesi, francesi, ungheresi e di altri sovrani”, fino a raggiungere un effettivo di 12-13 mila combattenti. “Per soprannumero – aggiunge David Abulafia – Ezzelino era un valente generale, come avrebbe dimostrato da lì a non molto ai comuni lombardi che appoggiavano l’imperatore”.


Ma, come si vedrà, il da Romano era anche un abile politico con un disegno chiaro in mente: l’istituzione di un dominio unico su tutte le città della Marca, le quali sarebbero state federate all’interno del grande progetto imperiale di Federico II. Per dirla con Philip Jones, l’obiettivo di Ezzelino era quello di fondare un “dominium sub umbra imperii (Rolandino), con delegati, capitanei e vicarii imperii”. Naturalmente, dal suo punto di vista, non fu il desiderio disinteressato di servire l’imperatore a spingerlo sulla strada di questa alleanza, ma la necessità di uscire dalla situazione critica in cui si era venuto a trovare dopo l’abbandono della Lega.


Il primo atto di Ezzelino, dopo l’alleanza con Federico II, fu quello di cacciare il podestà di Verona, Guidone di Rho, e sostituirlo con un fedele seguace dell’Impero, il cremonese Guglielmo da Persico. Alla fine dello stesso anno, con un atto pubblico, Federico elogiava i da Romano per aver messo a disposizione della causa imperiale la loro potenza e accordava loro la speciale protezione sua e dell’Impero. Inoltre, fece scrivere ai vescovi di Padova, Vicenza e Treviso per indurli ad annunciare coram populo il patto tra l’Impero e i da Romano.


Subito dopo divampò nuovamente la guerra. Questa volta per il mantenimento del controllo su Treviso. Qui, i fratelli Guecello e Biaquino da Camino, in contrasto col Comune di Treviso, controllato da Ezzelino, si rivolsero a Padova, alla quale si sottomisero, e a Conegliano, città della quale Biaquino era primo procuratore. In tal modo si saldò un’alleanza strategica tra Padova, Conegliano, i da Camino, cui in poco tempo aderirono anche i Sambonifacio, gli Estensi, i Camposampiero, il vescovo di Feltre e Belluno, il Patriarca di Aquileia e i vicentini. Per tutta risposta i trevigiani si rivolsero a Verona, ai da Romano e al conte Guida da Vicenza. La guerra scoppiò, ma proprio quando le vicende stavano volgendo al meglio per i trevigiani e i da Romano, si pervenne alla tregua, detta ‘dell’Alleluija’, nella primavera del 1233, grazie all’intervento del frate Giovanni da Vicenza (o fra’ Giovanni da Schio), grande predicatore e, verosimilmente, inviato di Gregorio IX.


Ma anche la tregua durò poco. Nel 1234 Ezzelino, cacciato da Treviso da Rizzardo di Sambonifacio, dando seguito alla sua intenzione di metter le mani definitivamente su Verona, ottenne il controllo della medesima città. Però, non accettando incarichi ufficiali (si limitò, infatti, a un brevissimo periodo – 11 giorni: dal 27 giugno all’8 luglio – di rettorato), impose come podestà il fedele modenese Roberto dei Pii.
A questa mossa di Ezzelino risposero immediatamente i suoi nemici, devastando ampie zone della bassa veronese e spingendosi fino alle porte della città. Il da Romano resistette, pur ridotto a malpartito, finché non giunsero, il 16 maggio 1236, le avanguardie dell’esercito imperiale, ossia 500 cavalieri tedeschi accompagnati da 100 arcieri saraceni. Il 17 agosto, poi, arrivò anche Federico, alla testa di altri 3000 cavalieri.


Presa Verona, i prossimi atti del da Romano prevedevano l’azione a oriente contro Padova, Vicenza e Treviso, mentre Federico andava verso Cremona per ricongiungersi con le forze dei Comuni ghibellini di Cremona, Parma, Modena e Reggio Emilia.


Intanto, a Vicenza, la situazione era alquanto fluida. A controllare la città era Azzo d’Este, anch’egli filo-imperiale, come si sa, benché acerrimo nemico di Ezzelino. Alla fine dell’agosto 1236 Federico inviò legati a costui con la richiesta di obbedienza da parte dei vicentini. Azzo non li ricevette nemmeno e ciò scatenò l’ira dell’imperatore, il quale decise di puntare tutto su Ezzelino, rinsaldando ulteriormente quell’alleanza e quell’amicizia che aveva retto alle prove più dure. Sul piano politico venne dato immediato ordine di conquista di Vicenza. La città resistette meno di tre mesi. Il 1 novembre 1236, Vicenza, dopo un logorante assedio da parte delle truppe ezzeliniane e federiciane, fu presa, saccheggiata e data alle fiamme. Il successo fu tale che Federico, affidate Vicenza e Verona al fedele alleato, tornò in Germania, promuovendo, nei fatti, il da Romano “a suo alter ego – scrive Hyde - a primo compagno su cui contare in vista delle nuove e terribili prospettive che aveva davanti: non solo la riconquista di questa o quella città ribelle, ma l’annientamento, in tutta l’Italia del nord, della stessa idea della città-stato”.


Pochi mesi dopo, estenuata dalle discordie intestine, da intrighi e tradimenti, abbandonata dagli Estensi, incapaci di fronteggiare la situazione esplosiva e arresisi all’imperatore, anche Padova cadde, senza neanche tentare di difendersi. Il 25 febbraio 1237 Ezzelino fece il suo ingresso trionfale da Porta Altinate.


Una settimana dopo, il 3 marzo, stesso destino toccò a Treviso, la quale si consegnò spontaneamente al da Romano. La città venne occupata da Gaboardo di Arnstein, in veste di rappresentante dell’imperatore, ma in realtà era nelle mani di Ezzelino come le Padova, Vicenza e Verona. In quel momento il da romano concentrava sotto di sé un potere immenso su un territorio di estensioni straordinarie.

Ma non solo.

 

Il suo era un’entità statuale dai connotati originali, fondata sull’intreccio e la composizione di quattro delle più grandi, attive e forti città dell’epoca. Era l’esempio di come l’epoca delle città-stato – come le chiama Hyde – stava per finire o sarebbe potuta finire.



 

 

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