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N. 21 - Settembre 2009 (LII)

La terracotta invetriata
Alchimia e magia di una tecnica a lungo sconosciuta

di Michele Broccoletti

 

L’arte di lavorare la creta, modellarla, smaltarla, decorarla e cuocerla è un tema biblico, che contiene in sé qualcosa di sacro e spirituale. Fin dall’antichità erano realizzati oggetti con impasti argillosi che venivano sottoposti a cottura per mezzo del fuoco. Le principali fasi del processo produttivo sono rimaste sostanzialmente invariate, dai metodi primitivi fino alle procedure più elaborate e moderne. Gli oggetti e le sculture in terracotta sono realizzati tramite la modellazione di un impasto di argilla, le cui caratteristiche principali determinano il grado di porosità, la refrattarietà ed il colore del prodotto finale.

La modellazione, che è la prima fase della lavorazione, può essere eseguita a mano, al tornio o a stampo. La seconda fase è invece l’essiccazione che può avvenire esponendo l’oggetto sia all’aria aperta, sia in un ambiente caldo dove, per deumidificazione, la pasta può acquistare consistenza e stabilità, in modo da evitare deformazioni in fase di cottura. Dopo la modellazione, prima della cottura ed eventualmente della decorazione, si passa all’impermeabilizzazione che può avvenire con mezzi e sistemi diversi, tra i quali i più diffusi sono la brunitura (consiste nell’esercitare pressione sull’oggetto, con un ciottolo o uno strumento abbastanza duro, al fine di togliere la porosità dell’oggetto stesso), l’ingobbio (si tratta di una copertura realizzata con un miscuglio di argilla cuocente in bianco, sulla quale era poi dipinta la decorazione, che veniva fissata, prima della cottura, da un sottile strato di cristallina), lo smalto stannifero (caratterizza le maioliche e consiste in una vernice opaca che, stesa sull’oggetto sottoposto ad una prima cottura, garantisce la copertura totale del colore delle argille di base) e l’invetriatura.

L’impermeabilizzazione per invetriatura è ottenuta immergendo l’oggetto nella cristallina (o vetrina): si tratta sostanzialmente di una vernice trasparente costituita da silice pura ed ossido di piombo, componenti che vengono sciolti in acqua dopo essere stati macinati e ridotti in polvere. Il processo di invetriatura riunisce in se, oltre alla fase dell’impermeabilizzazione, anche la fase della decorazione, in quanto, tramite l’uso di terre naturali, la cristallina può essere colorata: l’azzurro si ottiene con il cobalto, il verde con il rame, la porpora ed il turchino con il manganese, il bruno ed il giallo con l’antimonio ed il ferro, mentre aggiungendo ossido di stagno, si ottiene il bianco.

Dopo la fase dell’impermeabilizzazione, avviene la cottura. In particolare, i prodotti senza ingobbio, senza smaltatura e senza invetriatura necessitano di una sola cottura, che varia in relazione alla plasticità dell’impasto. Per fissare invece l’ingobbiatura, la smaltatura e l’invetriatura sono indispensabili più cotture, che danno origine ai vari tipi di terracotta: la terracotta ingubbiata, smaltata ed invetriata. Ogni diverso tipo di vernice ha bisogno di una cottura particolare, in base alla sua temperatura di fusione: sono pochi i colori che resistono alle alte temperature e, se escludiamo il verde, il blu, il porpora ed il giallo, tutti gli altri colori devono essere applicati a fuoco più basso.

Questi procedimenti tecnici resteranno propri della produzione di ceramica fino all’inizio del XVIII secolo, quando in Europa venne introdotta la porcellana. È curioso però ricordare come la terracotta era apprezzata già dai Romani. Lo stesso Plinio, nella sua Naturalis Historia, parla della terracotta, non solamente come materia utilizzata per la realizzazione di oggetti quotidiani, ma la considera anche come una primitiva forma d’arte: “Di nient’altro servendosi che della terra stessa, Butades, vasaio di Sicione, per primo fece ritratti d’argilla, da quando sua figlia, innamorata di un giovane in procinto di partire, ne disegnò il profilo su di una parete, seguendo il contorno dell’ombra proiettata dalla lucerna. Su queste linee il padre impresse l’argilla e la modellò, cuocendola poi nel forno come altri oggetti di terracotta”. Nel periodo medievale invece, l’utilizzo della terracotta in campo artistico passò in disuso, in quanto veniva considerata un’arte minore rispetto alla pittura, alla scultura ed all’architettura. È con il Rinascimento però che avvenne la riscoperta generale di tutte le arti: l’uomo va alla ricerca della perfezione e dell’armonia delle forme, ispirandosi ai canoni di bellezza greco-romani.

Anche la terracotta, ed in particolar modo la terracotta invetriata, rinasce e ritorna in auge, come vera e propria forma d’arte, soprattutto grazie a Luca Della Robbia, allievo di Ghiberti. È innegabile che la terracotta invetriata sia indissolubilmente legata al nome dei Della Robbia, che, fiorentini d’origine, furono, tra il XV e il XVI secolo, una delle famiglie più celebri e importanti di scultori e ceramisti. In particolar modo Luca Della Robbia fu colui il quale capì che i vantaggi della terracotta potevano essere molti, sia dal punto di vista economico che da quello della rapidità dell’esecuzione. Lo scultore fiorentino riscoprì la tecnica della ceramica invetriata, realizzando opere impermeabili, lucide, compatte, resistenti e facilmente trasportabili, grazie all’uso di una vernice, composta da piombo e silicio, applicata sulla superficie dell’opera.

Lo stesso Vasari ci racconta Luca in questa maniera:“considerando che la terra si lavorava agevolmente e con poca fatica, e che mancava solo trovare un modo mediante il quale l’opere che di quella si facevano si potessono lungo tempo conservare, (Luca) andò tanto ghiribizzando che trovò modo da diffenderle dall’ingiurie del tempo; perché, dopo avere molte cose esperimentato, trovò che il dar loro una coperta d’invetriato a dosso, fatto con stagno, terra ghetta, antimonio et altri minerali e misture, cotte al fuoco d’una fornace aposta, faceva benissimo questo effetto e faceva l’opere di terra quasi eterne.” Il biografo aretino sostiene anche che Luca Della Robbia sia stato l’inventore dell’invetriatura, ma in realtà, sul piano del procedimento tecnico, Luca non inventò nulla di nuovo, ma perfezionò una tecnica già nota: l’uso di rivestire stoviglie, vasi, piastrelle e oggetti ceramici con un protettivo e splendente strato stannifero, eventualmente colorato e solidificato in seconda cottura, era infatti stato tramandato dalle civiltà dell’antico Oriente, al mondo romano-bizantino, ed aveva trovato la sua massima espressione tra i popoli arabi, che a loro volta lo riportarono in auge, nelle regioni europee di cultura moresca.         

Sempre Vasari ci dice che Luca Della Robbia aveva […] una meravigliosa pratica della terra, la quale diligentissimamente lavorava, trovò il modo di invetriare essa terra co’l fuoco, in una maniera che non la potesse offendere né acqua né vento […]. Il vero segreto di Luca non stava nella scoperta dello smalto bianco stannifero, che come abbiamo detto era conosciuto anche in antichità, bensì nell’incredibile livello di bellezza, lucentezza e corposità dello smalto stesso: l’artista toscano riuscì in questa maniera a portare la ceramica, che dai più era relegata tra le arti minori, al livello della scultura e della pittura. I colori caratteristici delle ceramiche robbiane, il bianco ed il blu, divennero, e sono tutt’ora, una sorta di marchio di fabbrica della famiglia.

In particolare, il bianco dello smalto, riflettendo la luce, riesce a mettere in risalto la plasticità di ogni dettaglio, determinando così una grande veridicità anatomica e naturale. Lo smalto bianco che si carica di luce e di candore, assume un importante valore teologico. Luca Della Robbia, in sostanza, riuscì ad elaborare un linguaggio espressivo sfavillante ed equilibrato, che era allo stesso tempo colto e popolare, vigoroso e pieno di grazia. Le figure dei Della Robbia, che si pongono perfettamente a metà strada tra pittura e scultura, sono realisticamente umane: la Madonna ha il volto felice e sereno nel tenere in braccio il proprio figlio, mentre Gesù è un bambino che dolcemente si affida alle cure della madre.  

Per quasi 150 anni, la bottega dei Della Robbia, in via Guelfa a Firenze, produsse una grandissima quantità di ceramica invetriata, che si diffuse, in questa maniera, prima in tutta l’Italia centrale, poi nell’intero territorio nazionale, fino ad arrivare a scavalcare i confini della penisola. A Luca (1399-1482), che fu il fondatore della bottega, subentrò il nipote Andrea (1435-1525) il quale continuò ed ampliò la produzione e raggiunse livelli di produzione proto-industriali, grazie alla creazione di un laboratorio molto efficiente che permetteva di realizzare le opere in tempi relativamente brevi. Andrea lasciò poi la bottega al suo terzogenito, Giovanni (1469-1530), il quale sperimentò la tecnica ampliando il numero di colori disponibili e usandoli con maggior enfasi. Infine, con Girolamo (1488-1566), il quinto figlio di Andrea, le terrecotte robbiane approdarono alla corte di Francesco I e raggiunsero una fama internazionale.       

Il successo presso le corti ed i collezionisti aristocratici di tutta Europa, le enormi e numerose commissioni e la concorrenza e rivalità fra artisti, fecero in modo che la formula della terracotta invetriata rimase per molti secoli un vero e proprio mistero: tutti i Della Robbia nascosero gelosamente metodi e procedimenti tecnici, riuscendo così a convincere i contemporanei del fatto che avessero realizzato una grande invenzione. Si dice però che un concorrente dei Della Robbia, Benedetto Buglioni, venne a conoscenza della “magica ricetta”, tramite una donna di casa Della Robbia, e da allora diede origine ad una produzione industriale delle famose ceramiche invetriate.

Non è questo però l’ambito per riuscire a distinguere fra storia e leggenda…, piuttosto è doveroso ribadire che senza i Della Robbia, l’arte contemporanea, in questo particolare settore, avrebbe compiuto un tragitto diverso: le maioliche di Picasso, le meraviglie di Lucio Fontana e i cretti di Alberto Burri devono tutte qualcosa alle opere robbiane.

 



 

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