.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

.

moderna


N. 85 - Gennaio 2015 (CXVI)

IL Teatro Nō
incontri fra Oriente e Occidente

di Paola Scollo

 

Riuscire a cogliere la genesi e gli sviluppi dei teatri dell’Asia in un unico sintetico sguardo d’insieme si configura quale opera di ampio respiro. Frequente è infatti la sensazione di trovarsi di fronte a un fitto e inestricabile intreccio di culture, tradizioni e dottrine arcane complesse e differenti. D’altra parte, la stessa storia dell’Asia sfugge a qualsiasi tentativo di schematizzazione e di classificazione.

 

Il termine Oriente - dal verbo latino orior, ovvero sorgere del sole - dischiude orizzonti semantici suggestivi, recando in sé le nozioni di luce e di nascita. È sorgente di vita materiale e spirituale, culla di civiltà, di arte e di cultura. Ma c’è di più. Orientarsi significa andare alla ricerca del Nord attraverso l’Est: una consapevolezza, questa, che si trova in tutti i viaggiatori e che partecipa a numerosi processi di fondazione di città, templi ed edifici.

 

Nell’immaginario collettivo l’Oriente è sempre stato avvolto da un’aura mitica, sin da quando all’epoca delle guerre persiane le due civiltà greca e asiatica si incontrarono e scontrarono per la prima volta. Per i Greci le popolazioni di lingua non greca costituivano un universo altro, sconosciuto e barbaro, percepito dunque quale fonte di pericolo.

 

La dicotomia tra Oriente e Occidente, già presente in Omero e in Erodoto, percorre tutta la letteratura greca. È stato Alessandro Magno, con il suo sogno di un impero universale, a tentare di congiungere i due mondi mediante la diffusione della cultura greca. Anche per lui l’Asia costituiva un mondo lontano e imperscrutabile. Un universo che, proprio per questa alterità, esercitava un fascino irresistibile.

 

Concepire l’Oriente in termini di opposizione rispetto all’Occidente rappresenta un ostacolo all’approfondimento e alla ricerca degli studi in ambito storico, culturale e letterario. Questi due universi, per quanto differenti, si sono influenzati a vicenda nel corso dei secoli.

 

Tra le espressioni più suggestive del genio asiatico rientra la dimensione teatrale. I teatri dell’Asia costituiscono una categoria culturale e storica prima ancora che geografica: si tratta, infatti, di un insieme di eventi e di esperienze culturali che appartengono alla nostra stessa matrice culturale, con cui hanno intrecciato un dialogo continuo nel corso dei secoli. Senza tale consapevolezza non è possibile avviare alcun discorso sul teatro asiatico.

 

Una delle manifestazioni più notevoli del teatro orientale è rappresentata dal teatro Nō - il teatro classico giapponese - frutto della mescolanza di tradizioni teatrali e di espressioni artistiche quali danza, musica, mimo, architettura e scultura.

 

Sorto in Giappone nel corso del XIV secolo, il teatro Nō è forma teatrale particolarmente complessa, fortemente evocativa e allusiva, specchio di una cultura elevata ed elitaria, in cui ampio spazio è affidato ai rituali, al movimento, al significato dei costumi e delle maschere. Una espressione artistica profondamente legata alla tradizione, particolarmente suggestiva e di difficile comprensione, soprattutto dal punto di vista dello spettatore occidentale. La sua volgarizzazione è rappresentata dal kabuki.

 

Alle origini il teatro Nō costituiva parte integrante, insieme al kyogen, del Sarugaku, spettacolo di danze, mimi e giochi di equilibrismo. Occorre comunque precisare che, mentre il Nō aveva il proprio epicentro nella danza e nel canto, il kyogen, che raggiunse l’acme nel XIV secolo conquistando lo status di forma d’arte autonoma, conferiva maggiore rilievo ai dialoghi e all’improvvisazione sulla base di canovacci prestabiliti. Inoltre, mentre protagonisti del Nō erano prevalentemente esseri soprannaturali - divinità e spiriti - o personaggi della storia e del mito, quelli del kyogen erano persone comuni. A partire dal XVI secolo i due generi hanno intrapreso percorsi differenti. Mentre il Nō veniva interpretato da attori in maschera a partire da testi scritti, il kyogen non tradì la sua natura di forma teatrale improvvisata.

 

Il passaggio dal Sarugaku al Nō è da attribuire agli attori Kan’ami e al figlio Zeam, cui va riconosciuto il merito di aver introdotto elementi di musica e danza direttamente ricavati dal teatro popolare, il ku-se-mai. Un successo ottenuto anche grazie al favore accordato dallo shogun Ashikaga Yoshimitsu nella seconda metà XIV secolo, che incentivò la formazione degli attori.

 

Gli autori principali del teatro Nō sono stati Kan’ami Kiyotsugu, il figlio Zeami Motokiyo e il nipote Motomasa Juro, la cosiddetta Triade della scuola Kanze. Durante il periodo Muromachi furono proprio Kan’ami e Zeami a conferire al teatro Nō l’aspetto che custodisce ancora oggi. Echi di tale espressione artistica sono ravvisabili in altre due forme teatrali, il kabuki e il Butoh.

 

Il teatro Nō è sopravvissuto alla rivoluzione Meiji, epoca in cui ha riacquistato parte dell’antico prestigio grazie al contributo di aristocratici colti. Nel corso del XX secolo ha dovuto affrontare notevoli difficoltà, che ne hanno seriamente messo in discussione l’esistenza. Attualmente sopravvive grazie a un ristretto pubblico di affezionati. Dei circa mille spettacoli portati in scena tra XIV e XV secolo, duecento continuano a costituire parte integrante del repertorio moderno. Ognuno di questi spettacoli è corredato di libretti che illustrano le battute o le pose dell’attore mediante piccole illustrazioni.

 

Le scuole attualmente esistenti sono la Kanze, la Hosho, la Komparu, la Kita e la Kongo, ciascuna delle quali si presenta come una vera e propria società chiusa verso l’esterno, arroccata all’interno delle proprie tradizioni, con al vertice una famiglia nota con il nome di Soh-ke.

 

Con ogni probabilità la più antica rappresentazione Nō è stata l’Okina/Kamiuta, una commistione di danza e rituali shintoisti.

 

Alle origini gli attori il teatro Nō aveva luogo all’aperto, per cui le compagnie teatrali itineranti proponevano i loro spettacoli in differenti città, soprattutto in occasione di festività religiose.

 

Di tale elemento originario ancora oggi la scena custodisce memoria, continuando a distinguersi per l’essenzialità dei tratti. La scena, infatti, prende vita su un palco di Hinoki, cipresso giapponese. Il palcoscenico è vuoto, fatta eccezione per il Kagami-ita, un dipinto raffigurante un pino su un pannello di legno sul fondo del palco.

 

Lo spazio scenico è idealmente considerato il punto di incontro tra sfera umana e sfera divina. Il tetto lo delimita quale spazio sacro, mentre i pilastri che fungono da sostegno sono ritenuti il tramite tra il mondo umano e quello sovrannaturale.

 

La sezione centrale è collegata alla camera dello specchio, definita kagami no ma, mediante un corridoio detto Hashigakari, una passerella a sinistra del palcoscenico che garantisce l’accesso agli attori e che a sua volta confluisce nella kagami no ma, da occidente. Una soluzione, questa, che è stata riproposta anche nel Kabuki, laddove viene definita Hanamichi, ponte dei fiori.

 

Tale ponte potrebbe essere immaginato come il trait d’union tra la nostra realtà e l’altro mondo, rappresentato dalla camera dello specchio. A occidente si troverebbe infatti il paradiso terrestre della Terra Pura Buddhista.

 

I testi sono composti in modo tale da affidare allo spettatore assoluta libertà interpretativa. Tale effetto viene raggiunto anche grazie all’elevato numero di omofoni che la lingua giapponese può vantare. 

 

Fonte inesauribile di ispirazione per il repertorio del Nō è stata l’Heike monogatari (Il racconto degli Heike), racconto di età medievale relativo alla parabola del clan Taira, cantata alle origini dai monaci ciechi con l’accompagnamento del biwa, e il Genji Monogatari dell’XI secolo, considerato talvolta come il primo romanzo del mondo. Ma gli autori hanno tratto ispirazione anche dai classici del periodo Nara e del periodo Heian, oltre che da fonti cinesi.

 

La trama prevede uno scontro di forze tra due principi assoluti, l’attore principale, lo shite, che rappresenta il dio, e il secondo attore, waki, che mediante i suoi interrogativi innesca l’azione. Il racconto introduttivo è in genere funzionale allo svolgimento della danza.

 

Nella rappresentazione più comune è prevista la presenza sulla scena di tutte le tipologie di attori con una durata compresa tra i 30 e i 120 minuti. Complessivamente il repertorio del teatro No può vantare circa 250 rappresentazioni, organizzate in cinque categorie a partire dal nucleo tematico: 1. Sulle divinità; 2. Sui guerrieri; 3. Sulle donne; 4. Varie; 5. Sui demoni.

 

I movimenti degli attori sono ridotti all’essenziale con impercettibili movimenti del capo e del corpo cui si legano specifici significati. Tale fissità si manifesta anche nei ruoli - nel complesso tre - Shite, Waki (comprimario), Kyogen e Hayashi.

 

La preziosità dei costumi di broccato di seta, la perfezione dei movimenti e il ritmo incalzante delle musiche rappresentano veri e propri punti di forza, capaci di affascinare e di suscitare interesse da parte del mondo occidentale nei confronti delle culture teatrali asiatiche.

 

Ulteriori motivi di fascino sono le maschere in legno, che consentono di mutare l’espressione del volto mediante un caratteristico gioco di luci e ombre, e i costumi, veri e propri capolavori artigianali tramandati gelosamente dalle cinque famiglie di attori.

 

Ogni attore principale - Shite - fa uso di maschere che tendono a celare qualsiasi espressione mimica facciale. L’espressività può comunque essere raggiunta grazie alle particolari caratteristiche della maschera, che consentono di cogliere i mutamenti espressivi sfruttando i giochi di luce e ombra dati dall’orientamento e dalla disposizione della luce.

 

Di qui il ruolo di indiscutibile valore esercitato dalla capacità dell’attore di saper creare, mediante l’uso sapiente della maschera, differenti sensazioni e sentimenti, semplicemente attraverso la posizione della testa e dell’illuminazione.

 

Gli occhi sono quasi del tutto coperti, per cui gli attori hanno a disposizione una visuale molto ridotta. Di qui la necessità di punti fissi e di percorsi determinati che garantiscano l’orientamento. A ciascuna maschera è poi associato un nome.

 

La maggior parte delle maschere Nō riproduce donne ed esseri non umani quali divinità, demoni o animali. Limitate invece le rappresentazioni di ragazzi e vecchi. Gli attori privi di maschera interpretano quasi sempre il ruolo di uomini adulti di venti, trenta o quarant’anni. Anche l’attore comprimario waki non indossa la maschera.

 

Alla maschera sono connessi profondi significati simbolici. Punto di incontro tra spatium mythicum e spatium historicum, essa possiede una funzione evocatrice dei morti sulla terra. Indossando idealmente la maschera del defunto, l’attore ne incarna lo spirito. Di qui una vera e propria venerazione della maschera negli istanti precedenti alla messa in scena dello spettacolo. In tal modo, infatti, ogni attore crede di identificarsi nel migliore dei modi nel personaggio rappresentato.

 

Alle origini era diffusa la convinzione che le maschere fossero delle vere e proprie divinità. Tale interpretazione si pone perfettamente in linea con la visione religiosa di stampo scintoista che considera il teatro Nō il mezzo mediante il quale le divinità si manifestano sulla terra.

 

Mediante l’uso delle maschere e dei costumi di scena la divinità o l’avo destinatario del rituale assumono le sembianze dello sciamano. Ogni gesto ha una funzione preparatoria rispetto all’ingresso del Dio, che si propaga lungo un clima ascendente in cui domina il pathos, la partecipazione emotiva agli avvenimenti storici e mitologici del Paese, con conseguente immedesimazione dello spettatore con la divinità, in comunione con l’uomo e con le cose terrene.

 

Gli elementi costitutivi della musica del Nō sono cinque: utai, il canto; fue, il flauto chiamato nōkan; kotsuzumi, il tamburo da spalla; ōtsuzumi, il tamburo da anca detto anche ōkawa; taiko, strumento a percussione. Questi ultimi quattro strumenti formano l’orchestra denominata hayashi, a volte denominata Nō bayashi al fine di distinguerla dall’hayashi del kabuki, oppure shi byoshi a quattro percussioni, con il battere dei piedi degli attori sul palco al di sotto del quale si trovano anfore risonanti.

 

Nel teatro Nō il termine utai indica sia il canto vero e proprio sia il poema, ovvero il testo. La voce può essere sia in falsetto, uragoe, sia naturale, jigoe. Caratteristica della voce del teatro Nō è il timbro sporco, effetto di una respirazione che consente di produrre il suono del diaframma fino alla cassa risonante della gola, acquisendo differenti accenti espressione di differenti stati d’animo.

 

Ad esempio, la voce orizzontale ō viene associata alla forza e alla fermezza, quella verticale shū alla gentilezza, shūgen alla felicità. Il testo dell’utai riflette un linguaggio arcaico dell’epoca Muromachi, mentre la prosa propriamente detta  - di solito definita kotoba - non ha un andamento ritmico o melodico, avendo come unico fine la recitazione.

 

Le parti cantate non presentano notevoli cambiamenti tonali, fatta eccezione per l’accentuazione e il rallentamento dell’andamento ritmico con una variazione dell’intensità e con uno sforzo nella pronuncia delle singole sillabe per un effetto di note e salti discordanti che spezzano la monotonia.

 

Il flauto ha una caratteristica unica, il nodo, gola, vicino alla testa, kashira, in cui è inserita una lastra di cera d’api. Il kotsuzumi è un piccolo strumento a percussione dalla caratteristica forma a clessidra e con due teste ricoperte da pelli, kawa, affinché la parte esterna sia vibrante. Il movimento delle corde, shirabe, consente di variare il tono dello strumento. Il tamburo da anca, ōtsuzumi, realizzato con pelle di bue e legno, produce un suono alto e deciso, senza variazioni. Le corde non hanno valore funzionale ma puramente ornamentale. Il taiko dalla caratteristica forma allungata è sospeso da una struttura in legno.

 

Data l’importanza della dimensione musicale, in molti considerano il Nō una forma di opera. A ben vedere, tuttavia, il canto si avvale di una scala tonale limitata con pochi passaggi ripetitivi, povero di espressioni ma ricco di allusioni. La musica Nō è una mimesi di rituali sciamanici finalizzati a esortare gli dèi a manifestarsi. Il suono incalzante dei tamburi contribuisce alla trance, mentre il flauto serve a riprodurre la discesa degli spiriti.

 

La dimensione musicale attraversa tutto il teatro Nō, ponendosi quasi legge universale di ritmo di vita, di impostazione della propria forma mentis, del proprio universo interiore e modo di pensare. Non casualmente è stato definito «un’invocazione ed un requiem il cui ritmo richiama i fantasmi che danzano una danza di preghiera per il loro riposo… interpretata secondo la filosofia del Ma ed eseguita seguendo il principio del jo-ha-kyū».

 

In queste parole è racchiuso il valore profondo del teatro Nō, ancora oggi considerato la più rara e nobile espressione dell’arte giapponese. Le varie rappresentazioni, in quanto desiderio di ricercatezza di bellezza in senso assoluto, dovrebbero infatti contribuire al raggiungimento di un duplice ideale estetico, quello dello spirito profondo e sottile, detto Yugen, e della novità, Hana.

 

Un valore morale, edificante e catartico che, a ben vedere, caratterizza anche il teatro occidentale sin dalle origini.

 

Sul filo di tale ragionamento, l’attore verrebbe a configurarsi quale mezzo per suscitare nello spettatore passioni e stati d’animo attraverso cui purificarsi e ritrovare se stesso.

 

Siamo molto vicini alle posizioni di Aristotele nella poetica. Nella dimensione estetica l’uomo può sentirsi finalmente libero di respirare il brulichio della vita che è all’origine della vita.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.