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N. 13 - Giugno 2006

TALAMON/TELAMONE

Il tempio e la battaglia – Parte IV

di Antonio Montesanti

Il rilievo frontonale. L’analisi.

Il frontone di Talamone rappresenta, ad oggi, il documento iconografico riguardante il mito dei 'Sette a Tebe' più esauriente, cioè con più personaggi identificabili e più completo nella realizzazione.

Il rilievo è costituito da un’ambientazione estremamente vivace e movimentata dei personaggi, laddove non è trascurato neanche l’aspetto emotivo o scenico. Il momento in cui è stata “fotografata” la scena frontonale è l’attimo successivo allo scontro fratricida, narrato nella tragedia.

Centro. Parte bassa.

Esattamente nel centro vi è la figura ‘perno’ dell’intera vicenda: Edipo, evidentemente cieco, inginocchiato, ha le mani alzate mentre si dispera, distrutto psichicamente, per la mera sorte sua e della famiglia. Indossa una tunica lunga, tipica dei re arcaici, ed un mantello ricadente sulla spalla sinistra, ha le mani rivolte verso gli dei e il cielo che acutizzano la profonda disperazione che è possibile leggere sul suo viso estremamente sofferente ed emaciato.

Il volto è allungato appositamente dall’artista con un effetto ottenuto dalla smorfia di dolore, accentuata a sua volta dalla verticalità della lunga barba; a questa si contrappone l’orizzontalità delle ciocche della capigliatura inarcata sulla fronte, che seguono l’espressione dei solchi sopraccigliari contratti per la sofferenza. Quello stesso dolore che, violento, impotente e rassegnato, si completa espresso già nel debole portamento, manifestandosi in maniera ancor più impressionante nella bocca semiaperta e nello 'sguardo' degli occhi accecati, indicati soltanto da una linea orizzontale separante le palpebre. 

Edipo viene sostenuto da un personaggio, forse un aiutante avvolto in un chitone cinto in vita, a maniche corte, che lo sostiene da dietro, sotto le braccia.

A sinistra e destra del padre vi sono i figli: Polinice ed Eteocle.  

Il primo è plasmato, quasi in posizione a carponi, mentre sta per accasciarsi al suolo o nel momento in cui viene sostenuto, nell’ultimo tentativo di risollevarlo di un inserviente, sorreggendolo sull'anca, in chitone e mantello, che lo distacca dal suolo che il gemello sfiora solamente con la punta del piede. La testa, perduta, pendeva come il braccio destro verso il basso; inoltre impugnava ancora nella mano la spada che era applicata direttamene in metallo.

Indossa un’armatura flessibile al di sopra del chitone, eseguita con grande precisione, costituita da una serie di strisce verticali congiunte ad altre orizzontali che presentano segni obliqui a cui si accostano una duplice fila di placchette (ptéryges). Del mantello resta qualche lembo panneggiato che si diparte dalla spalla. Calza dei sandali con suole chiodate.  

Anch’egli è sostenuto da una figura maschile, certamente non un guerriero, visto che è vestito esclusivamente con una tunica ed un mantello tenuti da una fibula circolare sopra lo sterno. Questo personaggio trattiene il corpo di Polinice e si aiuta con la gamba destra che pone sotto al suo bacino per aiutarsi nello sforzo.

Alla destra del padre si trova invece Eteocle, nell’atto di ricadere seduto a terra e col dorso in avanti in una sorta di chiasma reale, in cui il busto è reclinato all’indietro di circa 30° che lo porterebbe verso terra se non si sostenesse con lo scudo rotondo che tiene con la sinistra e che poggia al suolo, mentre la testa, oggi perduta, reclinava direttamente sul petto.

L'avambraccio destro era poggiato sull'addome, come dimostrano tracce sulla corazza. Anch’egli come il fratello porta sul chitone un’armatura morbida e una corazza anatomica forse di metallo, con duplice fascia di ptéryges che cingono l'inguine ed le spalle, coperte a loro volta da una piccola mantella, i cui lembi erano appuntati sul petto. La presenza di un elmo è confermato dai resti dei ciuffi del cimiero presenti sulla nuca. Sandali a lunghe stringhe fasciano le gambe fin su ai polpacci. 

In quest'ultimo atto, Eteocle viene sostenuto da una figura femminile genuflessa, nella quale alcuni hanno voluto riconoscere la madre Giocasta, che è accorsa a sostenergli il busto.

La madre, piegata sulle ginocchia, tiene su un lato il figlio ferito che sta stramazzando al suolo lentamente all’indietro. La donna porta un chitone coperto a sua volta da un mantello svolazzante che la cinge alla vita; è chinata verso di lui in uno dei gesti d’amore più universalmente riconosciuti (Pietà michelangiolesca) mentre lo sostiene da dietro le spalle. La disperazione materna è sottolineata dalla presenza di alcune ciocche di capelli che ricadono disordinatamente sulle spalle. 

In realtà non sappiamo a quale dei due fratelli corrispondano le raffigurazioni plastiche e, per questo motivo potremmo essere autorizzati a pensare ad una inversione di ruoli o di figure, cosicché l’armato alla destra di Edipo potrebbe essere Polinice, sostenuto dalla sorella Antigone, che potrebbe essere più verosimile visto il finale della tragedia in cui si ricorda il rito funebre espletato dalla sorella.

Centro. Parte alta.

La centralità del soggetto sopradescritto indica la chiave del dramma e quindi del messaggio. Prospetticamente alle spalle di questa scena, che si trova in primissimo piano, si completa il dramma: è l’atto finale in cui si riconosce l’assalto ultimo per la presa di Tebe mentre lo scontro si avvia a conclusione con esito favorevole agli assediati. 

Tre guerrieri in atto di scalare le mura sono disposti secondo le linee discendenti del frontone, i pannelli che li compongono si dispongono, secondo la ricostruzione, al di sopra delle scene di disperazione familiare. 

La lastra di Capaneo invece lascia più dubbi, poiché, pur essendo riconosciuto il personaggio è conservato in maniera molto frammentaria e la ricostruzione non è certa. 

A differenza degli altri due personaggi, Capaneo, è disposto quasi frontalmente sulla scala con la gambe tese. Il corpo è nudo e indossa soltanto un mantello svolazzante legato al collo. La mano destra il cui braccio era piegato sul busto, impugnava probabilmente una spada; della scala, invece, appoggiata alle mura coreograficamente inesistenti di Tebe, sono sopravvissuti solo alcuni frammenti: tra Giocasta e l'aiutante di Edipo, uno dello staggio con un piolo, sotto il mantello di Capaneo ed un frammento isolato, la cui direzione, però, ci viene indicata anche dal taglio marginale della lastra adiacente a sinistra. 

Il braccio sinistro teneva forse uno scudo e il cadavere di un guerriero o più probabilmente, un uomo di piccola taglia armato di scudo rotondo ben presente nel mito etrusco: esso si riscontra finora soltanto su quattro urne chiusine ed in particolare sulla n. 105.

Una ricostruzione di questa figura non è stata possibile, perché ne esistono forse solo altri due frammenti; ciononostante, per indicare la presenza di quest'altro guerriero, sono stati inseriti nel rilievo il suo scudo ed il frammento di scala al posto più verosimile, senza pretesa di esattezza. 

L'identificazione di questo guerriero è discussa: sono stati proposti il tebano Melanippo, portato da Capaneo a Tideo ferito (versione tarda del mito Theb. , 8, 745-750) o un anonimo guerriero tebano precipitato dal muro. Si potrebbe anche identificarlo con il figlio di Creonte, Meneceo, che si gettò dalle mura per salvare la città con il suo sacrificio. 

Ai lati di Capaneo si trovano altri due guerrieri nudi mentre tentano anch’essi la scalata alle mura. Il guerriero di sinistra, per chi guada, è armato di scudo tondo verso l'alto, mentre il balteo scende a tracolla sul petto, il braccio destro è pronto per scagliare il fendente e lascia immaginare una spada nella mano.

Dalla parte opposta, in maniera quasi identica e simmetrica, per situazione ed armamento, si trova un nuovo combattente. Dello scudo restano solo due frammenti con ovuli che ne incorniciavano la circonferenza.

Gli eroi speculari, di cui Capaneo che ne rappresenta lo spartiacque, si muovono all’interno di uno spazio indefinito e la loro posizione su di un piano elevato deve essere interpretata come la risultante di una ricerca prospettica in lontananza altrimenti impossibile in un ambito così limitato come il frontone. 

Il motivo iconografico dei due aggressori nudi è ben noto sia all'arte greca che a quella etrusca, ma la loro disposizione simmetrica e la loro interrelazione sembrano caratteristiche esclusive delle officine di urne perugine. 

Parte sinistra.

Nella parte sinistra del frontone, ancora più a destra di Edipo, Adrasto barbato indossa un’armatura in atteggiamento regale, fugge dal campo di battaglia coperto alle spalle dallo scudo che tiene con la sinistra, la gamba destra è in avanti, mentre la sinistra, ruotata all’indietro, sorregge il peso e rende la torsione del busto prestante. 

Indossa una corazza di cuoio anatomica separata dall’epidermide da un chitone, chiusa con due legacci sulle spalle e rinforzata ai bordi aguzzi ed è coperta sulle spalle da un mantello. Nelle parti mobili è completata da una doppia fascia di ptèryges: una sul bordo inferiore e l’altra, più corta, sulla spalla, analogamente alle corazze dei gemelli. 

Il disco a protezione del petto è quasi completamente perso, d’altronde anche dell'elmo italo-corinzio è andata perduta l’intera calotta; sono riconoscibili ancora tracce del cinturone. La posizione dell'eroe sembra dare un’aria d’indecisione. 

Sul suo carro si trova una figura femminile ad ali spiegate (Furia) che lo avvinghia quasi a volerlo accogliere come per assisterlo o indicargli la via, ma alla quale lui rivolge le spalle. La Furia avvicina la mano destra al ventre e la sinistra alle spalle come se lo accogliesse o gli rivolgesse un segno di affidamento totale nei suoi confronti. L’abbigliamento dell’essere infero è identico a tutte le altre presenti nel rilievo: indossa una veste corta con bretelle incrociate sul petto nudo al pari dell’intero busto e delle braccia. 

La loro interpretazione è ancora decisamente problematica poiché non è chiara se queste figure proteggano, come in questo caso, gli uomini, o li conducano negli inferi o addirittura suppliscano le forze sovrannaturali come esemplificazione di un ipotetico affiancamento al cavallo magico Arione.

L'abitacolo rettangolare del carro ha pareti verticali rinforzate e profilate leggermente ripiegate all'interno, le ruote sono a otto raggi e sono rese ellitticamente per restituire una resa prospettica; al di sotto dell'abitacolo si trovava il timone che forse terminava con una protome di animale. Il carro di Adrasto, tirato nel mito dal solo cavallo magico Arione, è rivolto verso l’alto ad indicare non solo la salvezza del re argivo ma anche i poteri legati all’equide.

Il carro è trainato verso sinistra, da due (o quattro) cavalli in pieno galoppo, di cui uno quasi completamente conservato. Le bestie travolgono due guerrieri nudi caduti ed altri (presenti solo in frammenti) che tentano di fermarlo. L'uno, di spalle, al di sotto delle zampe anteriori del cavallo s’impianta sul braccio destro mentre tenta di bloccare con la sinistra la zampa anteriore dell’animale che s’impenna. 

L'altro, ginuflesso sulla gamba destra, è reso con la parte inferiore del corpo schematicamente di profilo, mentre quella superiore è ripresa frontalmente. Questi due guerrieri conservano il cinturone della spada a tracolla e i mantelli legati al collo. Il braccio sinistro piegato tiene lo scudo tondo anch’esso prospetticamente ovalizzato con l’orlo perlato; nella mano destra sollevata brandiva probabilmente la spada, in quanto la guaina appesa alla bandoliera è vuota. Indossa solo una mantella corta svolazzante fermata alla gola da una fibula circolare. 

Dal cavallo Arione fino al vertice dell’angolo, almeno due, o forse tre guerrieri caduti riempivano lo spazio fino all'angolo frontonale. 

Parte destra

Nella parte destra del frontone, in maniera speculare al carro di Adrasto troviamo quello di Anfiarao. Qui la scena è esattamente opposta, nella costituzione, nell’intenzione scenica e nella direzione a quella gemella del carro del re argivo. 

Prima di passare ad analizzare la scena dell’indovino, si osservi, a metà del discendente di destra, tra la parte centrale e la sua quadriga, su un piano superiore, una figura femminile alata con una fiaccola verso il basso. Questa sembra incedere, quasi volando verso il centro, mentre osserva il Vate e lo addita con il suo braccio sinistro. 

La figura veste un peplo e un apoptygma (fascia, cinta) allacciato al di sotto del seno, lasciato distrattamente scoperto; nell’incedere la gamba si allunga spostando la veste pesante.

Non ci è dato sapere, vista la suddivisione prospettica su piani differenti, se il suo avanzare fosse concepito in volo o se appartenesse ad un’altra scena. Probabilmente trattandosi del piano posteriore attribuibile al fallimento della scalata della città, la figura femminile incede verso i guerrieri che sono destinati a perire nell’impresa e osserva a malincuore Anfiarao che le sfugge. 

Si differenzia dalle furie per l’abbigliamento per l’acconciatura e per l’espressione corrucciata.

Questa non ha né confronti e né paralleli nell'arte etrusca e viene ritenuta un’accompagnatrice dei morti. 

Fra lei e la quadriga è stato collocato il torso di un guerriero vestito come i due fratelli e come i guerrieri sui carri. Il braccio destro, molto sollevato, lascia supporre che si stesse lanciando in un attacco. 

Anfiarao, barbato, a cui Zeus ha concesso un destino importante, si trova su una quadriga che scompare obliquamente verso le viscere della terra e per questo viene indirizzata, ‘instradata’, da tre figure femminili alate che in Etruria accompagnavano le anime dei morti nell’Aldilà. Per questo Anfiarao sembra distogliere lo sguardo dalla terra nella quale sta per entrare o forse per guardare per l’ultima volta il guerriero frammentario con corazza alle sue spalle.

Anche Anfiarao si trova su un carro, il cui parapetto è ovale e le cui ruote sono compresse essendo collocate obliquamente. Come Adrasto, indossa, su un corto chitone, una corazza di cuoio, decorata da una stella, porta un elmo italo-corinzio ed ha la spada al fianco. Molto efficace è la resa del mantello che, fermato in vita, si agita al vento.

Con il grande scudo rotondo il Vate si copre la parte sinistra del corpo, mentre il braccio destro, come in tutte le sue rappresentazioni fin qui citate, è sollevato in un gesto di terrore con la mano spalancata, a giudicare dai frammenti conservati. Il suo sguardo è abbassato e volto all’indietro verso la Furia che emerge dal terreno. La quadriga, circondata da tre esseri demoniaci, costituisce sicuramente il gruppo artisticamente più efficace del rilievo frontonale.

Nell’angolo di destra, un giovane demone maschile, dal sottile naso adunco, le orecchie ferine e piccole ali sulla testa, emergente dalle viscere della terra, rivolto verso i cavalli, trascina il primo di essi verso gl’Inferi, da cui fuoriesce con il solo busto e dove Anfiarao proseguirà nella sua opera di vate.

Il demone ha un mantello sulla spalla destra; inclina il busto, in uno sforzo evidente, dalla tensione della muscolatura all’indietro, come per afferrare i cavalli ed assorbirne l’urto allo stesso tempo, tanto da sporgere in posa plastica al di fuori del campo frontonale; nelle sue mani forate avvinghiava le redini che originariamente erano metalliche.

Il personaggio che ‘afferra’ il carro, riconosciuto da v. Vacano come maschile ed identificato come 'Caronte', è una variante di Hermes, il dio che ha funzioni di accompagnatore. Alcuni rilievi di urne etrusche con il ratto di Persefone, illustrano i diversi gradi del passaggio da Hermes a un personaggio giovanile, con orecchie ferine e ali sulla testa.

Il coroplasta deve essersi ispirato a rappresentazioni di questo tipo per introdurre nel mito questa figura demoniaca. Al contrario, per il particolare schema iconografico con più Furie o personificazioni ad esse affini (ad es. Ananke), mancano ad oggi paralleli nell'arte greca e suditalica.

Due Furie alate lo assistono nello sforzo, vestite di un corto chitone con il petto nudo sottolineato da due fasce che si incrociano al centro. Una sporge dagli inferi fino al bacino ed impugna una spada in terracotta con la destra, mentre con la sinistra probabilmente tirava a se le redini del cavallo più esterno della quadriga. 

L'altra Furia, dietro i cavalli, è visibile fino al busto: il braccio destro sollevato doveva frustare gli animali. Dietro al carro di Anfiarao doveva spuntare una terza Furia, della quale si riconoscono solo due frammenti. Al pari del demone, anche le Furie hanno sulla testa piccole ali, intorno alle quali si dispongono i capelli sollevati in tre ciuffi; una cuffia cinge le loro tempie e la calotta mentre le frange incurvate all'indietro la coprono e dalla nuca scendono invece lunghi riccioli. 

La cuspide dell'angolo frontonale è colmata da una figura ammantata, conservata solo per metà, ferito che si puntella all'indietro ed una pelta, nella quale alcuni riconoscono un ferito. , chiudono a destra il rilievo frontonale. 

Ricostruzioni

W. v. Vacano proponeva di inserire subito a destra di Polinice, ossia del gemello alla sinistra di Edipo, la figura di Partenopeo, sulla base di analogie di altre rappresentazioni e di frammenti non inseriti nella ricostruzione. Dei sette guerrieri argivi tre sono identificabili con certezza: Adrasto, Anfiarao e Capaneo, se lo riconosciamo nel guerriero a destra che scala le mura. 

Durante gli scavi vennero rinvenuti anche i frammenti di due statue, sempre in terracotta, di cui una quasi integra mentre la seconda riconoscibile solo da pochissimi frammenti, che sono stati identificati come due 'geni' alati e portatori di fiaccola. In un primo momento si tentò di inserirli nel rilievo frontonale, ma ben presto ci si rese conto che dovevano essere esclusi dalla ricostruzione. 

Questa avvenne grazie ad un sapiente e non troppo complesso lavoro di raffronto iconografico. Vennero prese tre urne etrusche che sembravano avere le caratteristiche più coincidenti con i pannelli del frontone ricostruiti e quindi venne proposta la ricostruzione dell’intero ciclo.

Queste tre urne cinerarie illustravano il mito dei 'Sette contro Tebe' ed avevano in comune scelte iconografiche molto simili all’opera di Telamone, in particolare la centralità di Edipo e le figure dei figli ai lati. Le urne erano una perugina (Villa Giulia 50314), una chiusina (Chiusi 215) ed una volterrana (Volterra 374). La prima mostrava, dietro Edipo, Capaneo nell’atto di arrampicarsi sulla scala affiancato dalle figure di due guerrieri; la seconda rappresentava due quadrighe in fuga in senso opposto divergenti dal centro – il gruppo di Adrasto sembrava identico a quello del frontone! – con Capaneo che si arrampicava sulla scala; mentre l’ultima restituiva chiaramente lo schema delle quadrighe. 

L’intero schema venne ricostruito totalmente nel momento in cui, partendo delle urne, s’individuò nella figura femminile che sostiene uno dei fratelli, attaccato al chitone, un frammento della scala sulla quale il combattente nudo visto frontalmente appoggia il piede sinistro: questo elemento consegnava la prova sicura che la parte centrale si trovava in basso e che era sovrastata da una parte più alta. 

L’urna Villa Giulia 50314 restituiva anche il duce argivo nudo di spalle identico nel frontone, che in un primo tempo venne considerato l’auriga di Adrasto; in seguito identificato nel torso di Capaneo, il palafreniere di Anfiarao, Baione.

Si pensò dopo poco che il lungo bastone al fianco del mantello non era una parte del carro e allora fu facile riferirlo alla scala, identificandone così il personaggio.  

Veniva così costituito l’asse centrale formato dalla simmetria del gruppo di Edipo e i figli e dal sovrastante Capaneo sulla scala, che comunque non ci restituiva l'altezza assoluta del rilievo, che doveva giungere quasi fino al vertice del timpano.  

A questo punto era possibile tentare una ricostruzione matematico-geometrica dell’intero frontone, tramite l’adattamento dei frammenti alle lunghezze ed inclinazioni dei lati brevi del triangolo. Purtroppo questo tentativo cadeva anche con la misurazione dell’inclinazione dei lati che non formava un triangolo isoscele ma scaleno (a sinistra 15° 30', a destra 18°). Da tale misurazione si otteneva l’angolo del vertice superiore, e da esso la lunghezza dell’intero frontone di 8, 80 m ca. per un’altezza di 1, 50 m ca. 

Queste misure coincidevano esattamente con numeri interi se divise per la misura di un piede etrusco-italico (= 29, 4 cm) dando rispettivamente 30 piedi di lunghezza e 5 di altezza. Questo risultato trovava la sua conferma nella ricostruzione della pianta e dell'alzato del tempio, elaborata indipendentemente. 

Ancora oggi dopo accurati studi e ricerche non si è ancora certi della ricostruzione proposta. In linea di massima sono stati individuati i personaggi chiave con le dovute riserve e posizioni, in senso sommario. La parte sinistra, per chi guarda, concernente il carro di Adrasto sono state scelte distanze dall'angolo in modo che, immaginando anche per il re argivo una quadriga al pari di Anfiarao, si possano distribuire quattro cavalli, anche se tutti i frammenti potrebbero essere riferiti anche al solo Arione. 

Inoltre la ricostruzione del personaggio centrale nudo si basa esclusivamente sul confronto con l’urna perugina, il suo posto potrebbe essere alternato con la Furia con la fiaccola rovesciata o con il guerriero con corazza frammentario. 

Una analisi del gruppo di Anfiarao, mostra in quale misura proprio i demoni, che il coroplasta ha affiancato al carro, accrescano con la loro visione obliqua la dinamica della scena: la Furia che frusta i cavalli e spinge il carro fuori del campo frontonale, quella con la spada che sembra invece frenare e trattenere il cavallo a lei più vicino ed infine il demone che indica la direzione e trascina gli animali con sé nell'abisso. Inoltre, anche le teste molto ben conservate ed espressive dei demoni e dei cavalli frementi, contribuiscono ad evidenziare la drammaticità dell'azione.  

Interpretazioni 

Le dimensioni ridotte del tempio, desunte da una errata ricostruzione del frontone come allegoria storica, indussero a pensare che si trattasse di un'edicola, eretta quale ex voto per la vittoria romana sui Galli nella grande battaglia di Talamone dell'anno 225 a.C.  

Dubbi interpretativi permangono ancora sulla presenza e sull’attribuzione dei c. d. Geni della Morte che, pur appartenendo alla decorazione del tempio, non è pertinente al rilievo dei "Sette a Tebe". Ciò nonostante dovevano essere separati e posti o lateralmente all’ingresso o sulle colonne più esterne o in alto come acroteri. 

L’ipotesi di collocamento cronologico subito dopo la battaglia contro i Galli del 225 a. C. a cui parteciparono contingenti etruschi alleati, vede una metodica detstrutturazione topografica per l’abbinamento Tempio – Battaglia o per lo meno Frontone – Battaglia. W. v. Vacano affermava che, avendo avuto luogo, come risulta dalle recenti ricerche di Sommella, nei dintorni del Poggio Ospedaletto a 3 Km. dal colle, nei pressi dell’Osa, “è inverosimile una sua relazione diretta con il tempio del Talamonaccio, di là non visibile”. 

D’altro canto accettava di buon grado la fase di distruzione del Tempio con lo sbarco di Mario rientrato dall'Africa nell'87 a.C. , dove qui riorganizzò la lotta contro Silla e dopo aver assoldato un manipolo di mercenari si mise in cammino verso Roma. Per questo motivo l’intero centro antico, che in seguito sarebbe stato spostato nell’attuale centro moderno, sarebbe stato distrutto da Silla in una delle sue tante rappresaglie, e i cui segni sono ben visibili nelle fasi di distruzione del tempio.

Tuttavia non abbiamo alcuna notizia che relazioni l'incendio con la vittoria delle truppe sillane dell'82 a. C. presso la colonia romana di Saturnia, situata nell’entroterra vulcente lungo la valle dell'Albegna. Anche se l’intera zona fu teatro continuo di scontri tra mariani e sillani non si svolse in Maremma fino a Chiusi. 

W. v. Vacano datava il rilievo intorno al 150 a. C. sulla base di criteri storico-artistici: le formelle fittili che compongono l’opera sono contemporanee e messe in opera alla stesso tempo, rispetto alle lastre di rivestimento dell'architrave e dei travicelli. Le stesse caratteristiche tecniche del tipo ornamentazione sarebbero della stessa officina di quelle corrispondenti del tempio D di Cosa, datate su basi stratigrafiche alla metà del II sec. a.C. Inoltre veniva tirato in ballo il maestoso altare di pergamo le cui ‘nuove’ espressioni facciali conferivano un nuovo volto all’arte e influenzavano a loro volta i modelli classico-ellenistici di IV sec. a.C.

Le figure che avrebbero dovuto rappresentare un prototipo per il rilievo frontonale erano Alcioneo sull’altare pergameno (Pergamon Museum, Berlino) e il Laocoonte del gruppo omonimo (Musei vaticani, Roma), in cui l’espressività facciale dei soggetti, contemporanea con le datazioni proposte dallo studioso tedesco, bene si conciliava con le datazione del rilievo e del gruppo statuario. 

In questo caso sarebbe errato definire il frontone come “il più grande esempio di coroplastica templare etrusca poiché nel 150 a.C., la regione era ormai da oltre di un secolo abbondantemente romanizzata. Sappiamo che il substrato tirrenico permase radicato fino al termine del millennio, ma non probabilmente in queste aree, almeno non così a lungo. In queste zone che videro l’istallarsi della prima colonia romana, di diritto latino, già nel 273 a.C.  

Sarebbe più opportuno, ad oggi, chiederci realmente il significato semantico di un tempio che guardava la colonia romana collocata dall’altra parte dell’Argentario. Un mito come quello dei ‘Sette contro Tebe’ che aveva nella chiave la disperazione di Edipo e il duplice fratricidio doveva necessariamente ricondurre ad un significato storico imponente. 

Una nuova rivisitazione degli elementi inscenati al suo interno che riporterebbero a nudità eroiche, coperte di solo mantello, a personaggi degli inferi già codificati e rintracciabili nelle tombe delle principali città dell’Etruria Meridionale e soprattutto un confronto con gli armamenti e le strutture dei carri dei personaggi, potrebbero ricondurre ad un periodo molto più antico rispetto alla datazione tradizionale: il frontone avrebbe così realmente dato un’interpretazione degli eventi storici che trova puntuale riscontro per tutti gli elementi di cui sopra, nelle rappresentazioni della Tomba François di Vulci, in un territorio del tutto pertinente in cui i paragoni e i confronti sono talmente tanti da lasciare più di qualche dubbio sulla reale attribuzione cronologica attuale. 

I soli confronti delle panoplie degli armati, ma anche la fisionomia degli stessi, presentano analogie sconcertanti (Anfiarao e Adrasto con i due Aiaci) oppure la presenza del genio della morte tra Patroclo e Achille e quello con la torcia verso il basso, senza andare a ricercare la raffigurazione del fratricidio che diamo per scontata. 

Il messaggio nel territorio vulcente di un legame fraterno con Roma è recepito dalla popolazione che usa l’arte, la storia e il mito per spiegare quello che razionalmente non è concepibile: uno scontro, forse, durissimo tra genti che una volta erano legati da una fratellanza indissolubile e che si concluderà con lo schiacciamento degli Etruschi del Sud tra gli ultimi anni del IV sec. ed i primi 30 (colonia di Cosa) del III a.C.

 

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