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N. 2 - Luglio 2005

IL COMPORTAMENTO DI ROMA NEI CONFRONTI DELLE CIVITATES DI SICILIA
Le civitates immunae ac liberae – Parte I

di Francesco Cristiano

 

"Siciliae civitates sic in amicitiam fidemque accepimus ut eodem iure essent quo fuissent, eadem condicione populo Romano parerent qua suis antea paruissent. Perpaucae Siciliae civitates sunt bello a maioribus nostris subactae; quarum ager cum esset publicus populi romani factus, tamen illis est redditus; is ager a censoribus locari solet. Foederatae civitates sunt duae, quarum decumae venire non soleant, Mamertina et Tauromenitana, quinque praeterea sine foedere immunes ac liberae, Centuripina, Halaesina, Segestana, Halycensis, Panhormitana; praeterea omnis ager Siciliae civitatum decumanus est, itemque ante imperium populi Romani ipsorum siculorum voluntate et institutis fuit."

(A. KLOTZ, F. SCHOELL, O. PLASBERG, M. Tullius Cicero. Orationes in Verrem, III  6, 12-13  Leipzig 1923-1949²)

 

"Noi accogliemmo le città della Sicilia in amicizia e fides in modo che esse restassero con gli stessi diritti di prima e obbedissero al popolo romano nella stessa condizione, in cui prima avevano obbedito ai propri governanti. Pochissime città della Sicilia sono state sottomesse con la guerra dai nostri antenati; il loro territorio, benché divenuto proprietà del popolo romano, fu tuttavia restituito loro; di consueto la riscossione dell’imposta su questo terreno è data in appalto dai censori. Ci sono due città federate, non sottoposte di norma al sistema di aggiudicazione delle decime, Messina e Taormina, e inoltre cinque città non federate immuni e libere, Centuripe, Alesa, Segesta, Alicie, Palermo; tutto il resto del territorio delle città siciliane è sottoposto al versamento della decima, e così era anche prima del dominio del popolo romano, per volontà dei Siciliani stessi e secondo le norme da loro stabilite."

(Trad. di  G. BELLARDI, Le orazioni di M. Tullio Cicerone, III, 6, 12-13, Torino, I, 1978)

 

Com’è noto le Verrine, in cui è narrata l’azione che Cicerone si assunse contro Gaio Verre e di conseguenza il processo intentatogli per gravi estorsioni e scorrettezze compiute nell’esercizio delle sue funzioni di governatore della Sicilia dal 73 al 71 a.C., rappresentano la nostra principale fonte d’informazione sugli affari interni della provincia sotto la Repubblica romana.

Secondo A. Pinzone il processo politico-amministrativo di romanizzazione della Sicilia ha inizio con la deditio mamertina che, nel 264, portò allo scoppio della prima guerra punica e giunge a compimento con M. Valerio Levino all’indomani della conquista di Siracusa e dell’unificazione dell’isola sotto il dominio romano. Al termine della prima guerra punica, infatti, i romani erano divenuti padroni della parte maggiore dell’isola già soggetta ai Cartaginesi. Durante la seconda guerra punica, per opera di C. Marcello e M. Valerio Levino fu conquistato il regno di Ierone II.

 

A.J. Toynbee è dell’avviso che la Sicilia negli anni 240-241 a.C., quando ancora era politicamente divisa fra la provincia romana ed il regno di Ierone II, aveva già goduto di un periodo di pace nel quale tuttavia l’isola non era stata ancora unificata dal punto di vista fiscale ed amministrativo. L’unità fiscale, per lo studioso, venne raggiunta nel 227 a.C.

 

Riportando questo giudizio, non si vuole certo negare o sminuire l’importanza storica del 241 a.C., anno in cui la Sicilia ricevette, seppure provvisoriamente, un primo assestamento amministrativo da Q. Lutazio Catulo. Indicative sono infatti le due date del 241 e del 227 a.C. La prima è quella della conclusione della prima punica, importante, tra l’altro, per la presenza, accanto a Lutazio, dei decem legati. In questa occasione, secondo Pinzone, “ad una generale sistemazione delle cose di Sicilia è da aggiungere un primo assetto probabilmente anche in termini di carattere tributario”. La data del 227 a.C. sancisce l’istituzione della provincia Sicilia con l’invio nell’isola di G. Flaminio il cui compito non poteva limitarsi all’organizzazione difensiva della provincia in funzione antipunica, ma “deve aver necessariamente riguardato anche il piano tributario, con una razionalizzazione del sistema delle imposte”.

 

Pertanto è nel 210 a.C. che, con Levino, si ebbe il definitivo ordinamento giuridico-amministrativo e soprattutto economico della provincia. Era questa la Lex Provinciae che, completata e fissata dopo la prima guerra servile dal console P. Rupilio nel 132 a.C. (Lex Rupilia), costituì il definitivo assetto della provincia quale si riscontra al tempo di Cicerone. Essa fissava lo stato giuridico delle singole città e del loro territorio di fronte allo stato romano. G. Manganaro, pur concordando con Toynbee nel ritenere che “la Sicilia descritta da Cicerone…è in effetti la Sicilia di Rupilio”, cioè riflette l’assetto ricostituito da L. Rupilio nel 131 a.C., pensa tuttavia che il modulo di base deve essere stato impostato già dal proconsole Levino quando, nel corso del 208-207 a.C., si dedicò alla riorganizzazione della provincia (la nuova formula provinciae doveva sostituire quella del 241 ormai superata anche per la scomparsa del regno ieroniano). Secondo lo studioso, il modulo di base impostato da Levino per la riorganizzazione della provincia, deve aver già compreso le diverse categorie di città quali si ritrovano nel passo sopra riportato di Cicerone.

 

Secondo S. Calderone, in questo passo Cicerone tende a sottolineare la continuità delle condizioni tributarie della Sicilia e poiché tradizionalmente decumana era tutta l’isola prima della conquista romana, è naturale che l’oratore cerchi di mettere in evidenza il piccolo numero di città che si trovano, per una ragione o per un’altra, in condizioni diverse.

 

M. Genovese, invece, osserva che le parole di Cicerone fanno parte di una sequenza retorica incentrata sul contrasto tra Sicilia e rimanente contesto provinciale, e tendono a far risaltare la situazione privilegiata dell’isola, prima degli interventi di Verre, rispetto alle altre province assoggettate a Roma. Secondo Genovese, è evidente che la condizione dell’isola risultava essere al di sopra di ogni confronto con le ceterasque provinciae grazie ad una politica amministrativa romana che, riguardo alla Sicilia, faceva sì che la Res Publica si presentasse agli occhi dei Siciliani semplicemente come colei che aveva preso il posto dei “beneficiari del sistema impositivo previgente, e per di più magnanimamente rispettosa delle regole che i siculi stessi si erano date”.

 Da Cicerone (Oraz. in Verr.,  III  6, 13,) risultano:

 

·       Due civitates foederatae (quarum decumae venire non soleant): Messana e Taormina; più tardi si aggiungerà anche Noto (Cic., Oraz. In Verr. V  22, 56). Queste città avevano sottoscritto con Roma un trattato (foedus) formalmente bilaterale che definiva con molta precisione la situazione della città, tanto i suoi obblighi quanto i suoi diritti, e postulava la sua indipendenza. Esse, pertanto, non solo mantenevano i loro organi di governo e non erano soggette al potere del governatore della provincia, ma conservavano il territorio ed i beni, generalmente senza obbligo di corrispondere alcun tributo. Se da esse si esigeva qualche prestazione, questa rientrava sempre nel campo del diritto internazionale.

 

·        Cinque civitates sine foedere immunes ac liberae: Centuripe, Alesa, Segesta, Alicie e Panormo. La posizione di queste città dipendeva da un atto unilaterale di Roma, che accordava dei privilegi, ma non li garantiva con un trattato.

 

·      Un numero imprecisato di città il cui ager è soggetto alla decuma, che cioè devono versare una quota decimale dei prodotti del loro territorio (praeterea omnis ager Siciliae civitatum decumanus). Cicerone evita riferimenti numerici precisi per le città decumane indicate come una categoria pressoché generalizzata alla quale attribuisce un’omogeneità sul piano prettamente amministrativo-tributario (soggezione al versamento della decuma). Tra queste - secondo Manganaro - “saranno state annoverate le 40 città che si erano date in fidem del popolo romano e forse una parte delle 20 città occupate per tradimento quali risultano da Livio (XXVI  40, 14)”.

 

·        “Le perpaucae… civitates… bello subactae, il cui ager a censoribus locari solet”. Dovremmo ritenerle le sei città vi captae (“conquistate con azione di guerra”) di cui parla Livio (XXVI 40, 14). Il loro territorio, dichiarato ager publicus (cioè proprietà del popolo romano), fu destinato ad essere affittato dietro pagamento di un canone che i censori stabilivano a Roma ogni cinque anni.

 

In merito alle civitates “decumane” e “censorie” sono sorti, comunque, molti problemi sia per la determinazione del numero sia per l’individuazione della loro posizione giuridica.

Calderone ha ritenuto che, dal punto di vista tributario, la sola differenza tra città censorie e città decumane stava nel fatto che per le seconde l’appalto della decuma avveniva in Sicilia, per le prime, invece, a Roma.

 

Altri studiosi, come G. De Sanctis, hanno supposto l’esistenza di una quinta categoria di città, probabilmente omessa da Cicerone nel passo fondamentale delle Verrine, quelle cioè, che dopo la conquista, avrebbero subito il trattamento peggiore in assoluto nel panorama siculo, in quanto il loro ager, acquisito dalla Res Publica Romana, non est illis redditus.

 

Di recente Pinzone, sulla base del paragrafo 6, 13 delle Verrine, ha individuato, l’esistenza di tre categorie di città, escludendo quella delle civitates censoriae, “di fatto mai ricordata da Cicerone”. Per lo studioso, infatti, le città oggetto di confische territoriali - quando tale confisca era stata parziale o quando era stata restituita parte del loro ager - avevano ottenuto uno stato giuridico uguale a quello delle altre città il cui territorio era tutto soggetto alla fornitura della decima.

 

Vedi anche: IL COMPORTAMENTO DI ROMA NEI CONFRONTI DELLE CIVITATES DI SICILIA - Le civitates immunae ac liberae – Parte II



 

 

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