.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

moderna


N. 64 - Aprile 2013 (XCV)

nozze Rinascimentali a firenze
cenni sulla storia del matrimonio

di Lorenzo Magnolfi

 

Se tendiamo a collocare l’origine del matrimonio in un passato mitico ormai lontano, allora daremo ragione a Marco Antonio Altieri, trattatista romano del ‘500, che faceva derivare il rituale nuziale dall’atto archetipico del ratto delle sabine.

 

Un evento quindi non pacifico, ma violento, un vero e proprio rapimento che, a detta dell’autore, conservava qualcosa di quell’antica forza nel gesto che il marito compiva di prendere per mano la sposa, conducendola alla sua dimora.

 

A conferma di ciò vi sarebbe il fatto che il padre della donna non partecipava a questa traslatio, il corteo nuziale durante il quale venivano anche trasportati ed esibiti i ricchi doni della dote.


I compagni di Romolo furono però dei buoni mariti. Tant’è vero che le sabine, quando i loro uomini, padri e fratelli vennero in armi per riprendersele, si strapparono i capelli e lacerarono le vesti, evitando un bagno di sangue e permettendo una pacificazione che potrebbe esser vista in fondo come la prima grande alleanza matrimoniale della storia.

 

Le donne romane godevano di una certa considerazione e gli era riconosciuta la personalità del diritto. Le leggi sul matrimonio prevedevano come condizione fondamentale che vi fosse il consenso reciproco tra i due contraenti. Quella del consenso, clausola che per noi può apparire scontata, non lo fu affatto nel medioevo.


Alla Chiesa, che fin dal IV sec. tentava di portare il rituale del matrimonio nel seno delle pratiche cristiane, va riconosciuto il merito di essersi sforzata per far passare l’idea del consenso come una conditio sine qua non irrinunciabile.

 

Sono molteplici gli aspetti del matrimonio moderno che risalgono al periodo romano:l’anello era già usato, anche se aveva il valore di un pegno, di una garanzia sulla dote, il velo nuziale, chiamato flammeum, per il colore arancione, rosso o giallo, indossato dalle donne, era posato sul capo degli uomini alla fine della cerimonia.

 

Esisteva già la dote, oltre alla consuetudine della donatio ante nuptias, ovvero che i futuri mariti facessero un regalo alla sposa prima delle nozze. Sono tutti elementi che ritroviamo nel corso dei secoli, mescolati a quelli di provenienza germanica, sedimentati in un recipiente socio-culturale nel quale si formerà il matrimonio moderno.


L’immagine che abbiamo in genere dei Longobardi è quella di un popolo alquanto rozzo e bellicoso che ebbe il ‘merito’ di spezzare definitivamente l’unità politica dell’Italia, traghettandola nelle nebbie del medioevo. Molti storici si sono presi in passato la briga di rivalutare l’azione complessiva del loro dominio, evidenziando ciò che di buono riuscirono a produrre.


Resta il fatto che la condizione della donna longobarda rispetto a quella romana, era senz’altro peggiore. Secondo il famoso editto di Rotari del 643, alla donna non era riconosciuta alcuna personalità giuridica e la sua tutela era totalmente affidata agli uomini.

 

Era il cosiddetto mundium, un diritto che spettava al padre o in sua assenza ai fratelli, al parente maschio più prossimo o ad un tutore e non passava automaticamente al marito col matrimonio. 

 

Le scarse possibilità di emancipazione delle donne longobarde, erano forse in parte compensate dalla quantità di beni che esse ricevevano dai mariti. La grande differenza tra il matrimonio romano e quello germanico, è che nel secondo sono gli uomini a fare doni alla sposa e non il contrario, come avverrà in seguito per lungo tempo.

 

Con la suggestiva espressione morgengabe (dono del mattino) si indica il regalo, non di rado anche di ingente valore, che il marito faceva alla sposa la mattina dopo la prima notte di nozze. Era questo il suggello definitivo che segnava il compimento del matrimonio e poteva essere costituito da una somma di denaro, preziosi, oppure anche da un appezzamento di terreno.

 

Non furono rari nell’alto medioevo i casi di vedove che si trovarono a gestire cospicui patrimoni, con tutte le implicazioni e i problemi che ciò costituiva per una donna rimasta sola: le pretese dei parenti del marito defunto, le invidie e i sospetti sull’effettivo rispetto della vedovanza di vicini e malelingue.

“Il matrimonio è stato istituito in Paradiso da Dio stesso; per la Chiesa esso costituisce dunque il più antico degli ordini. Ed è anche il più degno, poiché Gesù l’ha onorato con la sua divina presenza e con il suo primo miracolo. Dio, infine, ha voluto che sua madre stessa fosse sposata”.


Leggendo quest’affermazione, il valore sacrale del matrimonio potrebbe sembrare scontato. In realtà a lungo non lo fu affatto. Anzi, possiamo dire che in generale fino al basso medioevo il ruolo dei sacerdoti nelle celebrazioni nuziali era molto limitato, anche se, sin dai grandi concili ecumenici del IV secolo, poi a più riprese nel VII, VIII e IX, si era codificata tutta una serie di preghiere che andranno in seguito a costituire la messa per lo sposalizio.


Che il matrimonio fosse un affare da sbrigare soprattutto tra uomini, lo si è già visto nel mondo longobardo, ma le tradizioni del popolo germanico non erano le uniche destinate a formare questa complicata materia.

 

Verso l’XI secolo assistiamo a un ritorno al diritto romano, all’interno di quel grande tentativo di rinnovamento della chiesa che fu la Riforma Gregoriana. Come per tante altre materie di diritto canonico, dobbiamo questa sistemazione all’opera del giurista Graziano, autore del famoso Decretum.

 

Nel conferire al matrimonio l’autorità di un vero e proprio sacramento, Graziano è innovativo in quanto introduce il principio dell’individualità: in poche parola la donna sarebbe libera di scegliersi il suo compagno e il nulla osta dei genitori non avrebbe più avuto valore vincolante.

 

Si recuperava inoltre l’idea romana del consenso reciproco, che a dire il vero, la Chiesa aveva sempre mantenuto ferma tra i suoi principi. Questo almeno era l’auspicio.

 

Sappiamo che la realtà fu molto diversa e ancora per secoli la libertà della donna venne spesso messa in discussione. arrivando non di rado a usare la forza per piegare la sua volontà.

 

Emblematico il caso di Luzia, figlia di Gian Galeazzo Visconti che nel 1399 fu costretta a sposare un nobile della Turingia a lei non gradito. La donna riuscì a far annullare l’unione mal sofferta, anche se solo dopo la morte del padre. L’evoluzione verificatasi nell’XI secolo riguardò anche l’anello, divenuto ormai il simbolo universalmente riconosciuto dell’unione coniugale.

 

Presente nel mondo tardo antico, in quello bizantino, in quello ebraico e passato poi nella Francia normanna, esso acquisì un nuovo status attraverso la benedizione religiosa da parte del sacerdote, che precedeva il gesto del marito di porlo al dito della sposa. Suggestivo ci è parso a riguardo il rituale normanno, nel quale lo sposo, dopo le domande di rito e la benedizione, prima pone l’anello al mignolo della sposa, dicendo: “Con quest’anello ti sposo in nome del padre”, poi all’indice, aggiungendo “e del figlio” e infine al medio, dicendo “e dello Spirito Santo”.

 

Da notare che spesso l’anello nuziale era portato al medio e non all’anulare, come siamo abituati a vedere oggigiorno. Per comprendere quale sarà la portata delle nuove disposizioni in materia di matrimonio, via via sempre più puntuali, fino alla grande svolta del Concilio di Trento, è bene ricordare che durante tutto il medioevo per sposarsi non era strettamente necessaria alcuna legittimazione formale o giuridica.

 

Bastava spesso la comune volontà dei futuri coniugi e un bacio o una stretta di mano potevano esser sufficienti a garantire l’avvenuta unione. Ciò vale soprattutto per i ceti meno abbienti, che magari non disponevano nemmeno della somma per pagare il notaio che avrebbe dovuto scrivere e registrare gli atti.

 

Tutte queste innovazioni non si diffusero ovunque in modo uniforme e impiegarono anni per essere accolte nelle varie regioni, dove comunque sopravvissero ancora a lungo tutta una serie di peculiarità locali. Tale diffusione fu più facile ad esempio nel Nord della penisola italiana, maggiormente urbanizzato, mentre si rivelò più lenta al Sud rurale. Nel meridione d’Italia e non solo, non erano rari i casi di donne che ancora dopo la Riforma Gregoriana, continuavano a pretendere il morgengabe.


Condizione imprescindibile per una donna che avesse voluto sposarsi, era la dote che accrebbe sempre più la sua importanza a scapito dei doni del marito. Le donne del basso medioevo avevano perso gran parte dei diritti sul patrimonio del coniuge defunto e paradossalmente si trovarono ad essere meno emancipate che in passato.

 

Dal XII secolo la dote divenne la principale componente monetaria a garanzia del matrimonio ed era previsto, sin dall’epoca romana, che tornasse al padre della sposa, se questa moriva senza lasciare figli.

 

I mariti però cominciarono ben presto a rivendicare maggiori diritti e sovente ci si accordava per riavere la metà della cifra versata inizialmente, ma in poco tempo questa consuetudine decadde del tutto. La dote si componeva di due parti: le donora, ovvero il corredo della sposa (quello che veniva custodito nei cassoni matrimoniali ed esibito durante il corteo nuziale), comprendente vesti, gioielli e altri accessori, alle quali si aggiungeva una somma di denaro liquido.

 

La spesa che la famiglia della futura sposa si trovava a dover sborsare per maritare una o più figlie, poteva essere anche molto ingente, specie nel caso di unioni tra lignaggi illustri e di condizione elevata. Quella della dote divenne una questione di primaria importanza nella vita delle comunità cittadine e in particolare per i casati aristocratici o per le nuove dinastie mercantili e bancarie che avevano fatto da poco fortuna. I nuovi ricchi vi vedevano un vero e proprio mezzo di ascesa sociale, che dava loro la possibilità di imparentarsi con famiglie nobili e prestigiose.

 

Nell’Italia dei Comuni, dilaniati dalle lotte intestine tra fazioni, non facciamo troppa fatica a immaginarci quale rilievo ebbero le alleanze matrimoniali a livello politico ed economico. Delle nozze ben organizzate potevano servire a sanare un contrasto, a rinforzare un’alleanza o a crearne una nuova.

 

I comuni italiani si servirono in pratica dei matrimoni come mezzo di pacificazione interna. La stessa funzione il matrimonio la rivestì a livello più ampio quando si allargarono le sfere di influenza degli stati cittadini, divenuti ormai regionali e nazionali, e i matrimoni dinastici tra principi e sovrani furono uno dei cardini della strategia dell’equilibrio, inaugurata dopo la pace di Lodi del 1454.


Se il matrimonio dotale era per i ceti superiori uno strumento di lotta politica, funzionale anche all’accrescimento dei patrimoni, per le classi meno agiate esso aveva essenzialmente un valore economico e una finalità riproduttiva.

 

Tra poveri forse vi erano sentimenti più sinceri e l’amore reale, non quello romantico idealizzato nei componimenti poetici, poteva avere più sbocchi rispetto alle strategie matrimoniali delle grandi famiglie, che mettevano in secondo piano l’attrazione reciproca tra uomo e donna.


Sorsero non pochi problemi quando il valore delle somme richieste dalla famiglia del marito per accogliere nella sua casa la sposa, cominciò a crescere in modo esponenziale, favorendo la nascita di un vero e proprio mercato delle doti, nel quale la donna e il suo corpo diventavano mera merce di scambio.

 

Molte famiglie, specie del ceto medio, si indebitarono per far sposare anche solo una figlia. Già Dante si lamentava di questo immorale mercimonio, paragonando i suoi tempi a quelli della Firenze sobria e pudica degli avi: “Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, ché ‘l tempo e la dote /non fuggien quinci e quindi la misura”.

 

Leon Battista Alberti metteva in guardia dall’abitudine di scegliere la sposa solo in base alla dote che ella portava con se: “E tolgasi per allevar figliuoli in prima; dipoi, si pensi che alle fortune più sono e’ buoni parenti fermi, e a giudicio de’ buoni, utili più che la roba. La roba in molti modi si truova essere cosa fuggiasca e fragile, e’ parenti sempre durano parenti, dove tu gli reputi e tratti non altrimenti che parenti”.

 

E infine per completare il quadro dei grandi scrittori che si occuparono di questo tema, Guicciardini ebbe a dire, ormai in pieno ‘500: “non è cosa nel vivere nostro civile che abbia più difficoltà che il maritare convenientemente le sue figliuole”.


Vediamo come intorno alla dote e al matrimonio si aprirono tutta una serie di questioni socio-economiche alquanto importanti e complesse. È ben noto il destino che era riservato a quelle ragazze che non potevano essere maritate per mancanza di denari. Per loro si spalancavano, spesso controvoglia, le porte dei conventi che certo non mancarono mai a Firenze, raggiungendo livelli pletorici nel XVII secolo, l’epoca delle mal monacazioni per eccellenza.


Nel ‘400, a dire il vero, le leggende agiografiche sono ancora ricche di giovinette che supplicano i genitori, intenzionati a farle sposare, di accogliere la loro sincera vocazione per la vita claustrale. Poteva accadere perfino che fanciulle venissero sacrificate e date in spose a pretendenti ormai anziani, che si accontentavano di doti modeste.

 

Lo Stato non mancò di intervenire per consentire anche alle donne di condizione meno agiata la possibilità di sposarsi. Fu istituito nel 1425 il Monte delle Doti, un fondo dove i genitori potevano versare, sin dall’infanzia delle loro figlie, piccole somme, di fatto un prestito al Comune, che lo restituiva sotto forma di interessi maturati negli anni e che andavano appunto a costituire la dote della futura sposa. Se la giovane moriva o decideva di farsi monaca, il padre o il convento ricevevano solo l’importo iniziale.


Uno dei motivi per i quali il valore della dote raggiunse livelli tanto consistenti fu che essa doveva servire in parte a pagare le spese del matrimonio e in particolare del banchetto, evento che nei casi di unioni tra grandi famiglie dell’aristocrazia cittadina, assumeva la portata di una festa pubblica, alla quale erano invitati centinaia di ospiti.

 

Tra i pranzi di nozze più fastosi ricordiamo quello offerto per lo sposalizio di Bernardo Rucellai con Nannina de’ Medici, al quale parteciparono 500 invitati, fatti accomodare sotto un tendone allestito per l’occasione davanti al palazzo gentilizio. Furono servite ben venti portate e la spesa complessiva ammontò a 6.638 lire.


Abbiamo detto che la dote, oltre alla parte propriamente monetaria, era costituita anche dalle donora, il corredo della sposa. Per dimostrare il proprio prestigio, la famiglia della donna tendeva a “gonfiare” la quantità e il valore di questi beni, costringendo così il marito, in un complicato gioco di equilibri, per non essere da meno e non rimetterci la sua reputazione, a fare ricchi doni alla futura moglie. Una quota della dote versata inizialmente era quindi subito recuperata, attraverso le spese sostenute per le celebrazioni e i regali preziosi, che entravano di fatto nel patrimonio personale della giovane.

Come ci si sposava nella Firenze tra XIV e XV secolo?

 

Semplificando e schematizzando, possiamo dire che tutto partiva da accordi preliminari, portati avanti in genere da un sensale o da mezzani delle famiglie che intendevano imparentarsi. Si sceglieva il candidato più adatto ai propri fini, valutandone le sostanze, l’aspetto e la forma fisica e si iniziavano le lunghe trattative che nel complesso potevano durare anche mesi. Veniva quindi redatto un primo documento informale, che non aveva ancora valore vincolante.

 

Queste fasi iniziali del matrimonio erano prerogativa esclusiva delle parti maschili delle famiglie, che partecipavano ad un primo incontro diretto per conoscersi e render più fermi i patti. Era l’’impalmamento’, così detto perché suggellato con una stretta di mano tra i padri degli sposi. Seguivano dunque le “giure” o “giuramento grande”, in pratica le nostre pubblicazioni, che servivano a manifestare alla comunità la volontà delle famiglie di legarsi col matrimonio e permettevano a eventuali oppositori di fare le proprie rimostranze.

 

Le giure erano un impegno fortemente costrittivo e non potevano essere rotte se non con gravi conseguenze, come una pesante multa decisa dai tribunali competenti. Un notaio allora scriveva il contratto dotale, indicando anche arbitri e garanti che avrebbero dovuto sovrintendere al pagamento della dote.

 

A questo punto tutto era pronto per le nozze. Gli sposi, i loro genitori, i rispettivi parenti e il notaio, si radunavano, di solito in una casa privata o davanti al sagrato di una chiesa per la celebrazione della cerimonia, in realtà alquanto semplice. Il notaio poneva le domande di rito, alle quali i due rispondevano “Volo” e poi si procedeva allo scambio dell’anello, che poteva esser stato precedentemente benedetto da un sacerdote.

 

Possiamo farci un’idea di questo momento osservando i molti quadri e affreschi che rappresentano Lo sposalizio della Vergine, motivo iconografico assai diffuso nella Toscana tra ‘300 e ‘500, rappresentato da artisti del calibro di Giotto nella cappella degli Scrovegni e di Raffaello nella tavola conservata a Brera.


Tornando al discorso storico, l’aspetto che salta più agli occhi e sul quale insiste molto anche la Klapisch-Zuber, è la scarsa attenzione, verrebbe da dire quasi l’indifferenza che i fiorentini, nutrivano nei confronti dei dettami della Chiesa in ambito matrimoniale. Il precetto della benedizione prima dello sposalizio e l’invito a partecipare subito dopo l’unione ad una messa, erano spesso ignorati. Nel 1356 il Comune emanò una legge secondo la quale i giuramenti dovevano esser fatti all’interno di una chiesa, ma lo fece, non tanto per motivazioni religiose, quanto piuttosto per la neutralità del luogo e al fine di una ricercata pacificazione sociale.

 

Quando il 19 settembre 1477, Filippo Strozzi sposò in seconde nozze Vaggia Ginfigliazzi, giacché si intendeva celebrare il matrimonio in campagna, non si riuscì a trovare un notaio. Solo per il caso e l’opportunità, fu chiamato un parroco del luogo. Il matrimonio però non poteva ancora dirsi davvero compiuto finché non veniva consumato. Gli sposi novelli si coricavano insieme per la prima volta (spesso sotto gli occhi di testimoni che dovevano verificare l’avvenuto accoppiamento!) la sera del ‘dì dell’anello’, il nome che i fiorentini davano al giorno dello scambio dei voti.

 

In alcune città, come a Genova, si raccomandava, al fine di preservare l’iniziale purezza del vincolo matrimoniale, senza farsi traviare subito dalla lussuria, di trascorrere insieme la prima notte di nozze, tre giorni dopo la cerimonia.

 

I festeggiamenti infatti venivano prolungati e duravano quattro giorni. Curiosamente in alcune occasioni accadeva anche il contrario, cioè che si anticipasse la consumazione del matrimonio per paura del malocchio che avrebbe potuto compromettere la fertilità degli sposi.


Infine la parte più spettacolare, quella che rendeva pubblico il rito privato, ovvero il corteo nuziale. La sposa, alla quale era permesso eccezionalmente di cavalcare un destriero bianco, veniva ‘prelevata’ dalla casa natale dagli amici dello sposo e condotta, attraverso le vie e le piazze cittadine, fino alla dimora del marito.

 

Il già ricordato Altieri vedeva in ciò la riproposizione e l’attualizzazione del mito archetipico del ratto delle sabine, confermata dall’assenza del padre che non prendeva parte al corteo. In quest’occasione le famiglie avevano la possibilità di mostrare a tutti la propria ricchezza, attraverso gli abiti variopinti del corredo, appesi ed esibiti su supporti montati sui carri, le raffinate decorazioni dei cassoni e i preziosi gioielli. Ma vi potevano essere degli inaspettati risvolti.

 

Durante i cortei brigate di giovani erano solite far scherzi, a volte anche pesanti, lanciando contro i partecipanti cose poco gradite. In genere comunque ci si limitava a bloccarne il passaggio stendendo nastri o ghirlande attraverso le strade. Barriere queste che venivano rimosse dietro il pagamento di un obolo, di solito un anello, riscattato alla fine del banchetto pagando una somma di denaro, che i birbanti spendevano per i loro bagordi.


Incidenti ben più gravi capitavano quando erano in corso lotte tra i lignaggi e i cortei nuziali diventavano occasione di atti provocatorii che sfociavano talvolta in veri e propri tumulti.

Si è già ricordato più volte come il corredo, le donora, fossero parte integrante della dote. Esse quindi ricadevano sotto la gestione del marito, allo stesso modo che i denari, anche se la donna ne conservava comunque il diritto d’uso. Se la moglie restava vedova era consuetudine che le donora o una cifra corrispondente, le venissero restituite.

 

Nel caso di una somma pecuniaria, vi era un evidente vantaggio, dal momento che il valore preso come riferimento era quello della stima fatta quando i beni erano ancora nuovi. All’atto della restituzione non si teneva quindi conto del fatto che, trattandosi di oggetti d’uso, nel frattempo si fossero deteriorati. E se invece era la moglie a morire?


Fin dal XIV sec. era decaduta la consuetudine di restituire il corredo alla famiglia della sposa e tutt’al più ci si accordava per riconsegnare almeno gli abiti e le cose più intime e personali. Nel ‘400 non vi era comunque nessun vincolo legale che imponesse tale restituzione, di fatto lasciata all’arbitrio e all’animo caritatevole del vedovo.


La tradizione del corredo è qualcosa che ci appare ormai abbastanza distante e suscita il nostro stupore vedere la quantità di oggetti, da quelli più comuni ai più minuti, che lo componevano.


Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, esso non comprendeva la biancheria per la casa: lenzuola, federe, tovaglie, panni per pulire erano a carico del marito, mentre erano numerose le vesti, confezionate con tessuti preziosi, dai colori sgargianti e tagliate secondo la moda più recente.

 

In un buon corredo non potevano poi mancare almeno due dozzine di camicie, ‘sciugatoi’ per il corpo, magari ricamati, fazzoletti, grembiuli, calze, zoccoli e pantofole. Si regalava alla sposa perfino il corallo, col quale venivano realizzati piccoli amuleti contro il malocchio per i neonati che andavano a balia. I gioielli erano uno status symbol irrinunciabile per ogni dama: Cinture e ornamenti per il capo, rifiniti con perle e metalli preziosi, vezzi e anelli abbellivano tutta la persona.


Uno specchio, il pettine, i profumi, le essenze, i nastri per i capelli e il sapone, completavano la serie degli accessori più strettamente legati al corpo femminile. Vi erano inoltre tutta una serie di articoli per noi insoliti, come i preziosi “libriccini di donna” o “di Nostra Donna”, piccoli codici devozionali di squisita fattura, spesso miniati, rilegati finemente, coperti in velluto o altre stoffe di lusso e chiusi da fermagli cesellati in argento. Si accompagnava la preghiera sgranando paternostri e rosari realizzati con materiali di pregio, come argento dorato, ambra, diaspro, corallo e perle.


La serie degli oggetti di culto proseguiva poi con i quadretti, le immaginette e i crocifissi, che avrebbero decorato e protetto la camera da letto. Del tutto particolari e pertinenti unicamente all’universo religioso femminile, sono infine le statuine devozionali, le “sante bambole” che rappresentavano il Bambin Gesù o qualche santa alla quale si era legate. Anche queste bambole avevano il loro piccolo corredo di vestitini e venivano sistemate su altarini appositamente realizzati. Libriccini di preghiere e statuine pie erano i beni che, più di sovente, una madre trasmetteva alla figlia che andava in sposa.


L’istituzione del matrimonio è ormai da tempo in crisi in Occidente e non spetta certo a noi ripercorrere le vicende di questo decadimento. Ci limiteremo a ricordare come esso abbia rivestito un ruolo sociale, economico e politico fondamentale non solo nel periodo da noi preso in considerazione.

 

Tale importanza si manifestò con usanze, riti e cerimonie diversi da luogo a luogo, da regione a regione e mai riconducibili a un unico modello. Nella vita degli uomini dell’Europa medievale, così profondamente compenetrata di aspetti religiosi, abbiamo visto che a lungo, proprio il matrimonio, destinato a diventare uno dei cardini della Controriforma, fosse avvertito come un evento sostanzialmente laico.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Klapisch-Zuber Ch., La famiglie e le donne nel rinascimento a Firenze, Bari, Laterza, 1988.

Pedrini A., Il mobilio, gli ambienti e le decorazioni del rinascimento in Italia, secoli XV e XVI, Genova, Stringa Editore, 1969.  

Schiapparelli A. (a cura di), La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, voll. I-II, Firenze, Sansoni, 1908. In edizione anastatica, a cura di Maria Sframeli e Laura Pagnotta, Firenze, Le Lettere, 1983.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.