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N. 76 - Aprile 2014 (CVII)

POSTFASCISTI O NEOFASCISTI?

a proposito di ALLEANZA NAZIONALE
di Pasquale Nava

 

«Sul fatto che le leggi razziali fossero un’infamia siamo d’accordo. […] La loro odiosa iniquità (riferendosi ai provvedimenti mussoliniani) si rivelò in particolare contro gli ebrei che avevano aderito al fascismo» - è questa la dichiarazione con cui esordisce a Montecitorio Gianfranco Fini, in apertura del convegno “1938-2008: settant’anni dalle leggi antiebraiche e razziste, per non dimenticare”.

 

A più di mezzo secolo dall’adozione in Italia delle misure antisemite, è perciò assai arduo calibrare la portata delle asserzioni del segretario di Alleanza Nazionale, specie se raffrontate all’imminenza delle politiche del 1994. Sorge allora indirettamente un quesito, ovvero se la sua sia davvero una consapevole ritrattazione rispetto all’identità fascista o semplicemente un espediente pourparler per la tornata elettorale di quegli anni. In Inghilterra, con aforisma shakespeariano, si sarebbe difatti detto: «Postfascisti o neofascisti? Questo è il problema!».

 

Difficile appare d’altra parte la classificazione di fine XX secolo della retorica finiana, talvolta rintanata nell’obsoleto background fascista, in altre occasioni disposta invece ad una rivisitazione ideologica e strutturale della ricetta politica di Alleanza Nazionale. Una ricetta correlata senza dubbio alle vicende dell’ottobre 1992, data in cui il Movimento Sociale italiano celebra il 70° anniversario della marcia su Roma.

 

E soprattutto a quelle di quindici mesi dopo, quando il segretario Fini pronuncia un discorso in Parlamento sulla fiducia al governo Berlusconi, con la prevalenza dei cliché della libertà e del metodo democratico. Allocuzione, però quest’ultima, a più riprese bollata dalla politologia moderna, protesa al contrario al disvelamento della maschera postfascista indossata dal partito con la discesa in campo berlusconiana. Non si tratta comunque, per quella appena accennata, di una rinnovata conventio ad excludendum, né di una pregiudiziale ricusazione di questo improvviso inserimento nell’area di legittimità.

 

Tutt’altro. Non si può difatti negare, da parte di Fini, lo scardinamento (seppure timido) della matrice almirantiana, con piena accettazione delle regole democratiche (il partito si struttura ad esempio con meccanismi elettivi per ogni carica). Ma tangibilmente esso non collima con un’abiura della storia e del regime fascista. «Per dare senso alla definizione di postfascisti – analizza non a caso Piero Ignazi - è necessario qualcosa di molto più consistente di qualche dichiarazione ad uso e consumo di platee dal palato facile. è necessario che nell’ambiente missino cominci a circolare una domanda: se non siamo più fascisti, cosa siamo?

 

E se non siamo più fascisti, cosa c’era di sbagliato nel nostro proclamarci fascisti? Perché quell’ideologia era sbagliata? Avevano forse ragione i democratici antifascisti? Sono domande certo fastidiose per chi è arrivato al governo senza modificare in nulla le proprie coordinate. Ma sono le domande cruciali che ogni partito che voglia abbandonare un’identità dai contorni ben precisi deve porsi».

 

E lo deve fare attraverso un evidente diniego della propria immagine passatista e non per mezzo di una mendace riconversione ideologica, poi ad hoc utilizzata per le elezioni del 1994. Nell’autunno di quell’anno, Alleanza nazionale si presenta infatti come un partito dal doppio petto: postfascista al governo, neofascista nella sostanza.

 

Si analizzi ad esempio il suo progetto: non esiste un nuovo programma, non sono state istituite strutture rinnovate, né è stato effettuato un ricambio dirigenziale. «Per An - conferma allora Pietro Ignazi - l’obiettivo è il cambio del nome del Msi. Non altro. Non una nuova carta ideologica, né nuovi riferimenti culturali, soprattutto nuovi dirigenti.

 

Ne consegue che, quando si parla di Alleanza nazionale, si parla del Movimento Sociale. Allo stato attuale, non c’è nessuna differenza».

 

Lo ribadisce in effetti il XVI Congresso del Movimento sociale degli anni Novanta, con la raccolta degli orientamenti dei suoi adepti: i dati mostrano una permanenza del filone conservatore dei "duri e puri" (e quindi delle posizioni stataliste ed antiliberiste), con l’accondiscendenza all’auto-introduzione di tasse e bollette, ai sit-in ed all’occupazione di case sfitte o di fabbriche.

 

Se si aggiunge poi il sostegno ad azioni coatte contro gli scioperi selvaggi, il tema del "ritorno all’ordine" riattiva l’apodittica "militanza" del movimento, con la risorgenza di espressioni come "la disciplina è il pilastro della società". Per quanto concerne invece la politica estera, il 94% giudica imperialisti gli Stati Uniti ed asseconda il terzomondismo, a conferma delle tendenze anti-plutocratiche.

 

Inoltre, il sentimento nazional-patriottico è fiancheggiato da quel sentimento di estraneità rispetto al sistema democratico, che ha fatto sentire i missini stranieri in patria, oltre ad una recrudescenza del razzismo biologico e culturale. Da un punto di vista invece bibliografico, Mussolini ed Evola sono addirittura gli autori più letti, insieme ad altri classici del fascismo: Giovanni Gentile (filosofo ufficiale), Ugo Spirito (teorico del corporativismo), Primo de Rivera, Heidegger e Schmitt.

 

«Il Msi – sentenzia perciò Piero Ignazi - entra quindi negli anni novanta con una cultura politica forgiata sui testi classici del fascismo». Non a caso, nel 1994 l’intellettuale missino Giuseppe Del Ninno ripercorre sul giornale del partito la galleria degli autori di riferimento. I nomi sono i seguenti: Junger, Rocco, Schmitt, Gentile, D’Annunzio, Wagner, Marinetti. Sono nomi, quest’ultimi, indelebilmente radicati nelle coscienze neofasciste e testimoni quindi delle fittizie formule di rinnegamento.

 

«In realtà - conferma Ignazi - esse possono aver colpito solo commentatori disattenti o di corta memoria. Le stesse cose sono state dette e scritte più volte anche in anni lontani, a cominciare da Giorgio Almirante. [...] Hic Rhodus hic salta».

 

Le elezioni però del 27-28 marzo 1994 si rivelano un successo spropositato: il Msi balza infatti dal 5,4% al 13,5%, triplicando quasi i suoi suffragi. E’ il miglior esito elettorale della sua storia, con l’insediamento di ben 109 deputati alla Camera, rispetto ai 34 del 1992. Quali sono allora le ragioni di un tale trionfo?

 

In primo luogo, l’immagine linda del partito. «Progressivamente - illustra Ignazi - il Msi è stato considerato come un attore politico allo stesso livello degli altri. Questa latente accettazione ha reso normale, meno estremista, il voto al Movimento sociale.

 

Votare Msi non significa più porsi in contrasto con il sistema: un voto di protesta sì, ma non più a favore di violenti picchiatori, amici del terrorismo e fanatici del manganello». I quadri dirigenti di An riescono così a far passare ex novo (seppure in maniera fraudolenta) un’effigie innovativa, non più deturpata dall’autoritarismo fascista. «Essa - secondo Ignazi - crea l’illusione ottica di un cambiamento di sostanza, di ideologia e di programmi.

 

Alcune dichiarazioni liberiste ma non thacteriane in economia, qualche gioco di parole sui crimini del fascismo (“Le leggi razziali? Un errore che ha prodotto un orrore”), le ripetute garanzie sul tema della democrazia e della libertà, tutto ciò consente di offrire il prodotto di An come nuovo, originale ed appetibile».

 

In secondo luogo, l’estraneità al sistema delle tangenti. Mani Pulite depaupera difatti lo scenario politico italiano degli attori principali e la sua classe dirigente viene decimata dagli scandali, ad eccezione proprio del neofascismo. «Il Msi - spiega Ignazi - è emerso come l’immacolato oppositore alla Prima Repubblica. In particolare, il partito di Fini ha beneficiato della crisi verticale della Dc, il partito tradizionale più contiguo al Msi.

 

La crisi democristiana ha avuto come esito uno sbilanciamento a sinistra mai registrato nella storia del partito cattolico. Tutto ciò ha lasciato libero il fianco destro dello spazio politico, non più intercettato dalla sempiterna Dc centrista, moderata e rassicurante, e lo ha messo a disposizione di un concorrente di destra».

 

E la coalizione con Forza Italia ipostatizza in toto questo spostamento dell’asse elettorale. L’estremismo, infatti, smussa almeno in apparenza il suo radicalismo e raccoglie il voto del vecchio elettorato democristiano. E lo fa, esponendo il massimo della sua forza attrattiva, specialmente in termini di visibilità: il segretario Fini si candida a Roma, Alessandra Mussolini (nipote di Benito) a Napoli. E la scelta si rivela vincente.

 

«Per la prima volta dai tempi del voto monarchico - afferma in tal modo Ignazi - il Msi trova un interlocutore disponibile ad allearsi con lui. In questo caso il sistema elettorale, invece di facilitare la convergenza al centro e l’emarginazione degli estremi, vista la polarizzazione dello scontro con le sinistre imposta da Forza Italia, favorisce esattamente l’inverso, cioè il successo degli estremi sia di destra (Msi) che parzialmente di sinistra (Rifondazione)».



 

 

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