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N. 76 - Aprile 2014 (CVII)

IL DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA
ALLE BASI DEL POTERE TIRANNICO

di Silvia Mangano

 

Per definire il Discorso sulla servitù volontaria, di Étienne de La Boétie, possiamo dire che fu un trattato pubblicato da tutti, ma studiato da pochissimi. Il suo carattere feroce, il linguaggio schietto e appuntito e la violenza con cui attacca l’istituto monarchico, hanno fatto di esso una bandiera contro l’oppressione della tirannia.

 

Tuttavia, se lo si legge accuratamente, ci si accorge che ben poco ha del trattato politico e che il messaggio di protesta, sebbene presente, mai si trasforma in incitamento alla rivolta armata. Rimandiamo la comprensione di queste prime parole al momento in cui ci immergeremo nel testo. Per adesso, basti tenere in considerazione la portata innovativa, intuibile dal titolo, che un testo del genere poteva avere nella prima metà del Cinquecento.

 

Étienne de La Boétie nasce a Sarlat, città della Guienna, nel novembre del 1530. Rimasto orfano, viene cresciuto dallo zio, curato di Bouilhonas. In quegli anni, è vescovo di Sarlat, Niccolò Gaddi, personalità affascinata dagli ideali umanistici e che influenzerà molto la formazione del giovane scrittore.

 

Dopo i primi studi, La Boétie si iscrive alla facoltà di Diritto all’Università di Orleans. Qui conosce Anne du Bourg, un altro umanista convertito al calvinismo che verrà giustiziato per eresia sotto Enrico II. Un mese dopo l’ottenimento della laurea in giurisprudenza, ottiene la licenza per esercitare la carica di Cancelliere al Parlamento di Bordeaux.

 

È grazie alla professione comune che La Boétie ha la possibilità di incontrare il parlamentare Michel De Montaigne, colui che diventerà il suo più caro amico. Negli anni di servizio al Parlamento, i due assistono con rammarico alle lotte religiose e politiche scoppiate nella Guienna: sebbene cattolico, Étienne rimane molto colpito dalle condanne a morte, ordinate dalla monarchia contro gli ugonotti (prima fra tutte quella del suo maestro Anne du Bourg).

 

La sua carriera spicca il volo nel 1560, quando gli viene affidata una missione segreta presso Caterina de Medici, l’allora reggente al trono di Francia per il giovanissimo Carlo IX. Alla corte, conosce e apprezza Michel de l’Hospital, sotto il cui cancellierato si forma il famoso gruppo dei politiques. Soltanto tre anni dopo si ammala, forse di peste, e muore in pochissimo tempo. Dopo questo breve accenno biografico, possiamo passare a trattare del testo di nostro interesse.

 

Le regole stilistiche vorrebbero che per l’esposizione corretta di una vicenda storica o di un problema storiografico a essa collegato si cominci dal principio e si prosegua analiticamente sino alla fine per poi trarne le dovute conclusioni. Nel caso del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie sembra necessario, piuttosto, partire dalla fine della storia e arrampicarsi nell’erto cammino della sua gestazione letteraria e ideologica.

 

La nostra storia inizia, o dovremmo dire finisce il 18 agosto 1563. Étienne de La Boétie giace morente nel suo letto a Germignan, nei pressi di Bordeaux; al suo capezzale accorre il migliore amico, il filosofo Michel De Montaigne, il quale resta talmente sconvolto dalla morte di La Boétie da dedicare a lui l’intero trattato sull’amicizia all’interno dei suoi Saggi. In una lettera rimasta famosa, Montaigne racconta al padre di aver preso in custodia tutti gli scritti del giovane politico, con la promessa di pubblicarli e garantire così a Étienne un posto nel Pantheon della Memoria.

 

Dopo otto anni, nel 1571, l’editore pubblica finalmente la prima raccolta degli scritti di La Boétie; ma con gran sorpresa di chi conosce bene le opere del parlamentare, nel volume non v’è alcun accenno al Discorso. Montaigne giustifica l’omissione editoriale sostenendo che il trattato politico di La Boétie dovrà costituire la parte centrale dei suoi Essais, (che in quegli anni sta ancora scrivendo). Tuttavia, nove anni più tardi, cioè nel 1580 (a 17 anni dalla morte di La Boétie), al momento della loro pubblicazione, al posto del Discorso vengono inseriti ventinove sonetti scritti da Étienne.

 

Gli storici che hanno cercato di ricostruire la storia editoriale del libello, sono rimasti perplessi di fronte a questa presunta mancanza di rispetto di Montaigne nei confronti del suo migliore amico. Alcuni hanno sostenuto che il motivo fondamentale per cui il testo non venne mai pubblicato sia da rintracciare nell’invidia letteraria che il filosofo provava per La Boétie; tuttavia, questa teoria viene facilmente contraddetta dall’evidenza storica. Allo stesso modo, si è rivelata infondata quell’ipotesi sostenuta all’inizio del XX secolo da Armaingaud che il Discorso sia stato scritto da Montaigne in persona. Dunque, perché non fu mai pubblicato?

 

Accanto a ragioni puramente storiche (ricordiamoci che dal 1563, anno di morte di Étienne de La Boétie, fino al 1593, anno dell’entrata a Parigi di Enrico IV, la Francia viene devastata dalle lotte religiose e uno scritto del genere mal sarebbe stato accolto dalla corona, soprattutto se pubblicato da una personalità di spicco come Michel De Montaigne), vanno affiancate ragioni che oggi potremmo definire di copyright intellettuale. Infatti, già nel 1574 alcune parti del Discorso sulla servitù volontaria erano confluite in un testo ugonotto antimonarchico, fatto circolare anonimo con il titolo di Le Reveille-matin des François et des leurs voisins. Il testo era probabilmente giunto tra le mani di alcuni ugonotti, i quali arguendo l’intensità e l’acutezza del pensiero espresso da Étienne, non si erano fatti scrupolo di appropriarsi dei passi che ritenevano migliori.

 

Nel 1576, poi, il Discorso venne pubblicato integralmente in Mesmoires des Estats de France sous Charles le Neuviesme con il titolo di Contr’uno. Il volume, curato da un calvinista ginevrino di nome Goulard, era una raccolta di saggi antimonarchici, fatti circolare durante la V guerra ugonotta (1574-76). Il destino letterario del Discorso fu così fissato prima che Montaigne avesse la possibilità di dare al testo una giustificazione d’esistere: gli venne attribuita l’etichetta di pamphlet politico, in cui veniva idealmente giustificata la resistenza alla monarchia.

 

È possibile supporre che fu per questo motivo che Michel De Montaigne cercò di minimizzare l’importanza del Discorso, attribuendone la redazione a un esercizio di gioventù e non a una volontaria invettiva contro il re di Francia. Nella prima edizione degli Essais, Montaigne sostiene che il testo sia stato scritto nel 1548, cioè quando La Boétie aveva diciotto anni, ma nella seconda edizione, Montaigne abbassa ulteriormente l’età della redazione a soli sedici anni. L’analisi attenta del testo ha portato, però, gli studiosi a sostenere che esso non possa essere stato scritto prima del 1552, quando La Boétie aveva ventidue anni, ma è impossibile stabilire la data esatta del completamento dell’opera.

 

A ogni modo, le affermazioni di Montaigne non convinsero né i lettori del XVI secolo né quelli dei secoli a venire. A tal proposito, ad esempio, è interessante leggere ciò che scrisse l’editore nella prefazione al Discorso della prima edizione italiana risalente al 1864: “Egli (Montaigne) diè fuori il Trattatello della servitù volontaria o il libro del Contr’uno, avvertendo che fu per avventura un giuoco dell’ingegno precoce dell’autore a sedici o come altri vuole a diciotto anni. Qui il Vermorel (il curatore dell’edizione italiana) ha ragione a dire che quello scritto non è una declamazione (cioè un esercizio scolastico); [perchè] ha tale sostanza di ragioni, tal serietà di convinzione, che è assurdo prenderlo per un trastullo di eloquenza sofistica.

 

Egli avrebbe anche ragione di dire che si cercò di sfatarlo o farlo dimenticare, perché era luce e fiamma troppo ardente agli spiriti, e ai tempi torbidi fu veramente diffuso per eccitare a libertà. La servitù volontaria porta nel suo titolo la condanna più dei servi che dei tiranni. Se l’uomo perde la metà dell’anima il dì che diventa servo, egli diventa servo per averne prima perduta l’altra metà: onde lo schiavo è un bruto, ma volontario […]. La Boétie mette la scure alle radici della tirannide, provando che ella nasce e vive della comune viltà. Tutte le declamazioni contro gli abusi della tirannide sono meno efficaci che il dire ai servi: contatevi. Questo libro è eterno come l’imbecillità umana, a cui cerca di venire in aiuto”. Dopo quest’introduzione, sembra doveroso tuffarsi nel vivo del testo.

 

Il Discorso sulla servitù volontaria si può dividere in tre macro-sezioni: un’introduzione (1), seguita da una prima parte di invettiva generale (2), a cui si succede la seconda parte (3), nella quale si descrivono i motivi della servitù volontaria. Per meglio addentrarci nel testo, abbiamo deciso di affrontarlo in maniera sincronica e ripercorrere lo sviluppo del pensiero dell’autore su alcune tematiche (la servitù, la tirannia, etc.) lungo l’arco dell’intero discorso.

 

L’opera si apre con una citazione dell’Odissea ed entra subito in medias res con una prima stoccata contro il “potere d’uno solo”. La Boétie specifica che non intende “discutere la questione tanto dibattuta se altre forme di regime politico siano preferibili alla monarchia”, ma vuole innanzitutto sapere se la monarchia può detenere un posto tra i “diversi modi di occupare la cosa pubblica”; poiché “è ben difficile credere che vi sia qualcosa di pubblico in quel governo in cui tutto è nelle mani di uno solo”. A questa affermazione metodologica, ne segue un’altra: il giovane precisa che il Discorso non è un trattato politico istituzionale, bensì una riflessione personale sulla condizione umana.

 

Scrive infatti: “Vorrei solo comprendere com’è possibile che tanti uomini […] sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se non quella che essi gli danno, che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero subirlo invece di contrastarlo” e continua mostrando stupita amarezza nel vedere “migliaia di uomini asserviti miseramente, con il collo sotto il giogo, non già costretti da una forza più grande, ma in qualche modo, come sembra, incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero né temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce”(pp.4-5, ed. Chiarelettere). Ecco che si delineano i protagonisti del saggio: da una parte il tiranno, dall’altro il popolo che, per sua volontà, si fa servo.

 

Il tiranno descritto da La Boetiè è un personaggio ambivalente: titanico nel male, è essenzialmente inoffensivo se privato dell’appoggio del popolo. È questa la particolarità del Discorso: alla monarchia non è attribuita una sorta di mistica del potere di cui va dimostrata l’insensatezza; il re non è l’unto del Signore, ma soltanto un individuo tra tanti che si è erto sugli altri grazie al loro, consensuale o forzato, appoggio.

 

Dunque, qualora questo sostegno dovesse venir meno, il tiranno si ritroverebbe completamente solo. Da qui prendono inizio tutti gli appelli di La Boétie al popolo, che vale la pena leggere: “colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di diverso da quanto ha il più piccolo uomo del grande e infinito numero delle vostre città, eccetto il vantaggio che gli fornite per distruggervi. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se voi non glieli forniste? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, donde gli verrebbero se non fossero i vostri? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro?”.

 

La Boétie individua tre tipologie di tirannide. Usando una terminologia contemporanea diremmo che vi sono tre modi per conquistare il potere: il tiranno può ottenerlo democraticamente (ossia per “investitura popolare”), oppure con un colpo di stato (attraverso la “forza delle armi”), o per eredità (o, come dice La Boètie, “per diritto di successione”). Nessuno si salva: anche i mezzi, che nella nostra percezione risultano democratici, per il francese nascondono il fardello dell’oppressione. Infatti “essi arrivano al trono per vie diverse, ma il loro modo di regnare è pressoché identico. Quelli eletti dal popolo lo trattano come un toro da domare, i conquistatori come una preda, i successori pensano di farne i propri schiavi naturali” (p. 20). Al contrario dei sudditi, i tiranni sono ben coscienti della precarietà del loro potere, poiché “facendo del male a tutti, sono costretti ad aver paura di ognuno”.

 

La prova a conferma di questa tesi viene rintracciata nelle truppe mercenarie: quale re armerebbe il popolo che ha tanto maltrattato? Risulta così più sicuro per il tiranno assoldare soldati di ventura. Un’altra particolarità in cui ci si imbatte lungo il testo, e che merita di essere presa in considerazione, riguarda la presunta abilità miracolosa del sovrano. Parlando delle invenzioni del popolo incolto, La Boétie cita anche la sacralità del tiranno e la sua capacità di fare miracoli.

 

Sebbene gli esempi riguardino soltanto i re del passato, quando si tratta di menzionare i re taumaturghi di Francia scrive: “Per quanto mi riguarda, come che sia, non voglio evitare di crederci, poiché né noi né i nostri antenati abbiamo avuto finora motivo di dubitarne, avendo sempre avuto dei re così buoni in pace e così valorosi in guerra, che, benché sino nati re, non somigliano affatto ai re per natura, ma sembrano invece scelti rima di nascere da Dio onnipotente in vista del governo e della conservazione di questo regno”. Siamo di fronte all’unico passo in cui la monarchia è vista sotto una luce positiva e in cui, dopo aver gettato parole di discredito sull’intera istituzione, La Boétie pare voler fare un’eccezione per la Francia.

 

È probabile che questa frase vada letta in chiave antifrastica e che altro non sia se non un estremo tentativo di non attirarsi le ire della corona, per la quale – peraltro – lavora. Se, infatti, leggiamo come conclude il discorso, risulta chiaro la vera intenzione di La Boétie: “non vorrei per questo scendere in campo per discutere la verità delle nostre storie, né esaminarle dettagliatamente, per non eliminare questo splendido tema su cui potrà esercitarsi la nostra poesia francese […]. Sarebbe certo da parte mia un oltraggio se osassi smentire i nostri libri e fare incursioni nei campi dei nostri Poeti”. Con poche parole, la penna di La Boétie sconfessa una volta per tutte la sacralità che circondava da secoli la figura del sovrano, classificando gli stessi re taumaturghi come argomento di poesia e produzione artistica.

 

Non esistendo una differenza ontologica della persona del re rispetto al resto dell’umanità, La Boétie sostiene che sia lecito al popolo resistere al tiranno senza incorrere in castighi divini. E a quei sudditi che non vogliono prendere le armi per paura, egli ribatte che non c’è bisogno di combatterlo, né di distruggerlo, il suo potere – e lui stesso – verrà meno non appena “il paese non acconsentirà più alla propria servitù”. Non è un appello alla rivolta, o alla violenza, non c’è alcun bisogno di spargimenti di sangue, l’unico incitamento di La Boétie è quello a non servire più: “non voglio che vi scontriate con lui, o che lo facciate crollare, limitatevi a non sostenerlo più, e lo vedrete, come un grande colosso cui sia stata sottratta la base, cadere d’un pezzo e rompersi”(p. 14); e ancora: “se non gli si consegna niente, se non gli si obbedisce affatto, senza combattere, senza colpirli , ecco che restano nudi e sconfitti, non sono più nulla”.

 

Se è così facile deporre un tiranno, perché gli uomini vivono ancora assoggettati? Su questo tema, si dispiega l’intero trattato, l’intera ricerca filosofica di La Boétie, che prova a comprendere e spiegare ai lettori, perché i sudditi si macchino di quell’“orribile vizio” (parole sue), che lui chiama servitù volontaria. La Boétie è onesto, ammette che, se un tiranno fosse potente come Ercole o Sansone, non consiglierebbe mai di ergersi contro di lui; ma nella Francia del XVI il re è soltanto un omuncolo, “spesso il più vigliacco e il più effemminato della nazione”, “non avvezzo alla polvere delle battaglie, ma a mala pena è abituato alla sabbia dei tornei”.

 

Dunque perché non negare l’appoggio a una personalità capricciosa, in grado con un comando di togliere tutto, persino la vita, ma che da solo è poco più che un omuncolo? La carica stilistica delle pagine di La Boétie e l’ardore con cui si esprime fanno pensare a questo giovane filosofo a lume di candela con una piuma in mano, chino nel suo studio, che si strugge per le sorti della Francia. Alza lo sguardo in cerca di una parola: “Dio mio, che cosa mai è questa? Come diremo che si chiama? Di che sventura si tratta? […] Se mille o un milione di individui non si difendono contro uno solo, non si tratta di codardia: questa non arriva a tanto […]. Allora, che vizio mostruoso è mai questo, che non meriti più il nome di codardia, per il quale non c’è una parola abbastanza offensiva, che la natura disconosce d’aver creato e che la lingua si rifiuta di nominare?” (pp.6-8).

 

Gli occhi prima rivolti verso il muro, adesso trapassano la finestra e osservano il paesaggio, la natura. Com’è possibile la servitù  volontaria? “poiché tutti gli esseri che hanno coscienza avvertono il male della soggezione e ricercano la libertà; […] che disgrazia è mai stata quella che ha potuto tanto snaturare l’uomo, in verità l’unico nato per vivere libero, e fargli perdere la memoria del suo stato primigenio e il desiderio di riconquistarlo?” (p. 18). Non mi voglio soffermare sulle incredibili somiglianze al pensiero di Rousseau. Secondo La Boétie, la servitù è contraria alla legge naturale: “se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dati e i precetti che essa ci insegna, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, soggetti alla ragione, ma non saremmo servi di nessuno” (p.14).

 

A queste parole segue una bellissima pausa dall’invettiva, tutta incentrata sul tema della fratellanza, che fa da contraltare alla servitù. La natura, secondo un La Boétie – ripetiamo – molto in anticipo rispetto al pensiero filosofico della sua epoca, la natura ha creato tutti gli uomini uguali, li ha fatti con “lo stesso calco” affinché si riconoscano fratelli. E, se nella “distribuzione dei doni”, ha avvantaggiato uno piuttosto che gli altri, non è per permettere al primo di instaurare un potere sugli altri, né per istigare i secondi alla lotta armata; ma perché voleva “dare spazio all’affetto fraterno e mettere gli uomini in grado di praticarlo, avendo gli uni la capacità di offrire aiuto, gli altri bisogno di riceverne”. “Inoltre questa buona madre (la natura) ha dato a tutti noi la terra come dimora, […] ci ha impastati con la stessa pasta affinché ciascuno potesse vedersi e quasi riconoscersi nel suo prossimo; se ha fatto a tutti questo gran dono della voce e della parola per conoscerci e meglio fraternizzare, e realizzare attraverso la dichiarazione comune e scambievole dei nostri pensieri la comunione delle nostre volontà; […] non è da mettere in dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, poiché siamo tutti uguali; e a nessuno può saltare in mente che la natura, che ci ha fatti tutti uguali, abbia reso qualcuno servo. […] La libertà è naturale, e a mio parere bisogna aggiungere che siamo nati non solo in possesso della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla” (pp. 15-16).

 

Ricapitoliamo: La Boétie considera la libertà un diritto naturale e auspica il raggiungimento di una “comunione di volontà” nell’essere liberi e nel non sottomettersi più al tiranno. Pur sostenendo l’uguaglianza di tutti gli uomini, non ne sopprime le differenze, poiché sono necessarie affinché si instaurino rapporti di amicizia e fratellanza. La Boétie non incarna idee rivoluzionarie e non si può certo immaginarlo prendere parte a rivolte, lo dimostra la sua vita, che spese al parlamento e a corte, cercando di risolvere i dissidi tra la fazione cattolica e quella ugonotta. La Boétie afferma che la libertà interiore non è slegata dai rapporti sociali, una persona non può essere libera solo nella propria coscienza, mentre nella vita politica è sottomesso a un tiranno. Il suo incitamento alla rivolta è intellettuale: la libertà va conquistata al proprio interno, bisogna voler essere liberi per tradurre questa aspirazione in realtà politica. Il segreto della libertà, per il filosofo, sta proprio nella sua facilità di ottenimento: basta volerlo e si è liberi.

 

Quando giunge a definire compiutamente la servitù volontaria, La Boétie si lascia andare al completo sconcerto. Non a torto, potremmo definire la servitù come il paradosso della libertà, quest’ultima è intrinseca alla natura umana, e ne caratterizza il patrimonio genetico, ma viene soppressa dalla volontà che si riduce, consenzientemente, in schiavitù.

 

Il potere del sovrano non ha un fondamento oggettivo, sia esso di diritto divino o di diritto naturale, è il frutto del rapporto creato unicamente dai sudditi e consegnato in mano ai sovrani. “È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che potendo scegliere se essere servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca. […] Se per avere la libertà occorre unicamente desiderarla, se è necessario un semplice atto di volontà, può mai esserci un popolo che ritenga di pagarla troppo cara potendo ottenerla con il solo auspicio […]?” (pp.10-11).

 

Quali sono, allora, i motivi per cui il popolo si sottomette al tiranno e rinuncia alla propria libertà? La Boétie ne individua tre. Il primo, e il più scontato, è l’abitudine, quella particolare propensione umana a cancellare ciò che viene spontaneo e naturale e sostituirlo con comportamenti, anche opposti, dettati dall’educazione. Scrive: “Senza dubbio l’abitudine, che in ogni campo esercita un enorme potere su di noi, non ha in nessun altro campo una forza così grande come nell’insegnarci la servitù. È proprio l’abitudine […] che c’insegna a ingurgitare, senza trovarlo amaro, il veleno della servitù. […] I germi del bene che la natura deposita in noi sono così fragili e minuti da non poter resistere al minimo impedimento proveniente da un’educazione a essi contraria. Coltivarli è cosa assai più difficile che snaturarli, corromperli e addirittura farli degenerare” (pp. 22-23). Il popolo si assoggetta al tiranno e decreta il proprio stato di servo volontario per aver dimenticato, o abituato il proprio animo a non sentire, l’anelito alla libertà.

 

Ma c’è, secondo La Boétie, un particolare gruppo di persone che si distaccano dal “popolo crasso”, individui “con idee ben chiare e mente lungimirante” che “non s’accontentano di ciò che hanno sotto gli occhi, ma prestano attenzione al prima e al dopo, continuando a ricordare il passato per giudicare gli eventi del futuro, e per valutare il presente: si tratta di individui che, avendo per natura un’intelligenza acuta, l’hanno poi anche educata con l’esercizio e il sapere” (p.29). Questa tribù di sapienti, di eletti, ha l’incarico di mantenere viva l’immagine e il sentimento della libertà, deprecando totalmente la servitù; infatti, parlando del Gran Turco, l’imperatore ottomano, dirà: “si è reso ben conto del fatto che i libri e l’istruzione più di ogni altra cosa danno agli uomini il sentimento e l’intelligenza di riconoscere se stessi e d’odiar la tirannide” (p.30). Possiamo azzardare, senza incorrere in errori di critica storica, di trovarci di fronte a un passo fortemente autobiografico, La Boétie si sentiva molto chiamato in causa nella dialettica sapienza/libertà-ignoranza/servitù. La Boétie continua: “sotto i tiranni, è facile diventare vili ed effemminati […]. È dunque sicuro che con la libertà si perde simultaneamente il valore. Gli individui assoggettati non hanno in battaglia né ardire né costanza; affrontano il pericolo costretti e quasi intorpiditi, come chi compie con sforzo un dovere, e non sentono affatto ribollire nel loro animo l’ardore della libertà […].

 

Ma gli individui sottomessi non perdono soltanto il coraggio bellico ma anche soprattutto la vitalità, e divengono pusillanimi e fiacchi, incapaci di ogni grandezza. I tiranni ne sono ben consapevoli e, vedendo che prendono questa piega, fanno il possibile per renderli sempre più deboli e vili” (pp.32-33). Si delinea in questo modo, la seconda ragione per cui gli uomini si sottomettono al tiranno: la viltà. In questo breve passo, ricco di considerazioni potremmo dire “antropologiche” e in cui risuona l’eco delle pagine di Erodoto, che La Boétie cita molte volte direttamente, l’autore indica nella rilassatezza dei costumi e della tempra, l’appiglio su cui il re fa leva. Per sostenere la sua tesi, riporta agli occhi del lettore due esempi storici in cui si narra “l’astuzia dei tiranni nell’abbrutire i propri sudditi”. Il primo è la conquista della Lidia da parte di Ciro: dopo aver deposto il re Creso, Ciro venne a sapere della rivolta della città di Sardi; non volendo saccheggiare la città, elaborò un espediente per assicurarsene il controllo: “fece aprire bordelli, taverne e sale da gioco, e fece pubblicare un’ordinanza che autorizzava i cittadini a servirsene”.

 

La risposta fu talmente positiva, che non ebbe più bisogno di utilizzare misure di forza sul popolo della Lidia. Vale la pena di leggere il commento finale di La Boètie: “Certo, non tutti i tiranni dichiarano ufficialmente di voler effemminare i propri sudditi, ma in realtà quello che Ciro ordinò a tutte lettere, la maggioranza degli altri l’ha fatto di nascosto” (p.35). Il secondo esempio è il comportamento degli imperatori romani con il populus: demagoghi per eccellenza, allettavano le folle con la distribuzione di cibo e la sovvenzione di spettacoli pubblici. E commenta: “teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, bestie feroci medaglie, dipinti, e consimili droghe, erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannide”, un crescendo molto drammaturgico, “questo sistema, questa pratica, questi allettamenti erano gli strumenti con cui gli antichi tiranni addormentavano i loro sudditi sotto il giogo. In tal modo i popoli instupiditi […] s’abituavano a servire pedissequamente”. Oltre all’abitudine e alla viltà, di cui abbiamo parlato, La Boétie individua un terzo elemento importantissimo su cui si regge tutta l’impalcatura della tiranni. Questo altro non è che la cupidigia. Dei tre motivi, la cupidigia è il motivo che più indigna l’autore e al tempo stesso ne riconosce l’importanza, poiché la definisce “la molla e il segreto della dominazione, il sostegno e il fondamento della tirannide” (p.44). Essa fa sì che attorno al tiranno si riuniscano e si strutturino in maniera gerarchica tutta una serie di persone legate al potere. Questi uomini “rosi da sfrenata ambizione e da non comune avidità, si raccolgono attorno a lui (al sovrano) e lo sostengono per aver parte al bottino e comportarsi a loro volta come tirannelli3 sotto  il grande tiranno” (p.46). In questo modo il re riesce a sottomettere i sudditi grazie all’appoggio di altri sudditi, a cui

La Boétie riserva parole di fuoco: “queste anime perse”, scrive, “abbandonate da Dio e dagli uomini, sono ben liete di sopportare il male per farne a loro volta non già a chi gliene fa, ma a chi come loro sopporta senza reagire” (p.47). Costoro abbracciano la servitù e negano la propria stessa natura, si sottomettono a un giogo volontario soltanto per ottenere beni che non varranno più nulla quando il tiranno, o quello che verrà dopo di lui, deciderà di togliergli.

 

Se non si scardina questo perverso meccanismo, non si potrà mai edificare una società naturale, in cui la libertà dell’individuo venga preservata e coltivata. Il tema della compattezza sociale, il cui collante è costituito dall’amicizia, ha un’estrema importanza nella visione utopica di La Boétie. Secondo lui, gli stessi sapienti, di cui si parlava poco fa, pur esistendo e battendosi attivamente non possono far nulla per migliorare la situazione, perché non si conoscono o non sono sufficientemente coesi tra loro. Serve a questo la sua invocazione finale: “impariamo dunque una buona volta, impariamo a far bene. Leviamo gli occhi al cielo o per il nostro onore o per lo stesso amore della virtù, o per dire ancor meglio, per l’amore e l’onore di Dio onnipotente, testimone fidato delle nostre opere e giudice delle nostre colpe” (p.57).

 

A prescindere dall’intenzione con cui venne scritto e dalla cattiva interpretazione che le correnti rivoluzionarie gli hanno attribuito, il testo venne utilizzato con fini di polemica politica fin dalla morte dell’autore. Venne ripreso persino dai cattolici durante il contrasto con la fazione ugonotta guidata da Enrico di Borbone e utilizzato come manifesto da quei giuristi che sostennero il diritto di uccidere un sovrano divenuto tiranno. Il Discorso conobbe sorti alterne ed Étienne de La Boétie, considerato teorico delle prime rivoluzioni nel Cinquecento, scomparve per lungo tempo per poi ricomparire durante gli anni che prepararono la Rivoluzione Francese.



 

 

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