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N. 76 - Aprile 2014 (CVII)

NUOVI MARI, VECCHI ORIZZONTI
L’ETA’ DELLE SCOPERTE GEOGRAFICHE TRA MEDIOEVO E MODERNITà - Parte I

di Gabriele Passabì

 

Prima che l'Europa divenisse 'moderna' un altro mondo era l'avanguardia culturale ed economica, considerato patria di regni dalle ricchezze inimmaginabili, crogiolo vasto e profondo di popoli, scambi e conoscenze: l'Oriente. L'Asia vantava alcune delle città più grandi del mondo, gli studi più avanzati in campo astronomico, matematico e filosofico. Nel cuore del Medioevo suscitava sentimenti di attrazione irresistibile per gli europei, era non soltanto meta prediletta e redditizia delle grandi direttrici commerciali ma anche vera e propria fonte di storie fantastiche legate alla sua fama di eccezionale ricchezza. In poche parole, era ancora vista ed immaginata come Arabia felix (Gordon, 2009, p. XIII).

 

Secondo la grande storiografia questa visione immaginifica e meravigliosa dell'Oriente sembra infrangersi nel momento stesso in cui l'Europa scoprì se stessa, la sua potenzialità e la sua secolare grandezza.

 

Se con l’Umanesimo in Europa vengono rivendicate la dignità umana e la vorace curiositas scientifica, è con l'epoca delle grandi scoperte geografiche che l’uomo moderno diventa navigatore e conquistatore, si apre al mondo e lo conquista arrivando addirittura a scoprire ciò che non era contemplato dalle carte.

 

Ma osservando più da vicino proprio questo fascio di secoli si può notare come le premesse e le motivazioni che spinsero gli europei all'espansione oltremare non sono tanto legate alla consapevolezza della propria superiorità razionale o ad un afflato spirituale teso alla conoscenza. L'uomo europeo alle soglie della modernità ha ancora radici saldamente innervate nel passato, nel mondo medievale.

 

L'epoca delle grandi scoperte geografiche trovò propulsione attraverso stimoli che appartenevano profondamente alla mentalità medievale nella cultura, nell'economia, nell'immaginario ed anche per certi aspetti nelle conoscenze teoriche e tecniche. Per questo motivo l'Asia almeno fino ai primi decenni del XVI secolo, nonostante la scoperta del Nuovo Mondo, restava ancora l'obiettivo da raggiungere e allo stesso tempo il sogno da realizzare. Per mezzo di questa lente risulta quindi particolarmente interessante cercare di indagare le “basi medievali” dell'espansione europea tra '400 e '500; significa in realtà provare a riconoscere il germe identitario dell'uomo moderno, le radici di quella che ancora oggi chiamiamo modernità.

 

Dal 1450 al 1550 gli europei “impararono a conoscere il mondo nella sua totalità ed a considerare tutti i mari come un mare unico” (Parry, 1963, p. 9). In poche parole, gli spagnoli e i portoghesi che furono i protagonisti di quello che un po' grossolanamente è stato definito Primo Colonialismo, riuscirono a tracciare un rudimentale profilo del mondo in quella che si intravedeva potesse essere la sua interezza.

 

Eppure, non solo le tendenze intellettuali cinquecentesche erano fortemente conservatrici ma anche davanti all'evidenza dei fatti, con di fronte agli occhi le prove evidenti circa l'esistenza di terre sconosciute che i navigatori (soprattutto inconsapevolmente) andavano scoprendo, i dottori dell'epoca erano riluttanti a trarne analogie utili alla ricerca. L'insegnamento così come la conoscenza erano saldamente imperniati attorno i principi scolastici e si basavano su autorità assolutamente insindacabili.

 

Se in ambito accademico la situazione era rimasta pressoché invariata rispetto all'epoca precedente, lo stesso si può dire per la mentalità popolare comune, soprattutto tra marinai e navigatori, celebrati a lungo come paradigma del moderno spirito europeo. La gente di mare tra quattrocento e cinquecento era infatti particolarmente scettica nei confronti delle teorie scientifiche ed era sempre fedele alla secolare esperienza pratica e alla consuetudine (Parry, 1963, p. 12). Già dalla fine del trecento erano state realizzate delle buone carte nautiche che segnavano accuratamente le direzioni di rotta per le vie mercantili tipiche dell'orizzonte commerciale del Medioevo (se non addirittura dell'età tardo-antica), ossia il Mediterraneo, il Mar Nero e le coste dell'Europa Occidentale. Tali strumenti continuavano ad essere usati poiché utili per i tragitti relativamente brevi del traffico abituale che si svolgeva lungo porti sicuri e conosciuti.

 

Unica via per avere un'idea dei grandi percorsi oceanici e del mondo extra europeo poteva essere quella di consultare alcuni tra i trattati accademici più diffusi o i racconti di viaggi. Entrambe queste forme di letteratura consideravano nell'estensione del loro orizzonte geografico il mondo asiatico e sommariamente l'Africa, in quella parte settentrionale che era coinvolta nei traffici mediterranei. Le fonti che avevano maggiore influenza nella mentalità e nell'immaginario comuni erano i libri che trattavano dei viaggi affrontati da esploratori autentici o, come molto spesso accadeva, fantastici.

 

La letteratura araba era particolarmente ricca di opere di questo tipo, basti pensare ai dettagliatissimi racconti dell'esploratore Ibn Battuta o alle innumerevoli relazioni di viaggi scritte tra '200 e '300. Tra i racconti di viaggio che erano parte del background culturale dell'epoca quello che ha avuto maggiore influenza sulle conoscenze europee dell'Asia è sicuramente Il Milione di Marco Polo. Si tratta del racconto del viaggio e delle esperienze vissute dal mercante veneziano nelle terre più estreme del continente asiatico, è un'opera ricchissima di dettagli anche abbastanza affidabili riguardo la vita, gli usi ed i costumi della popolazione orientale.

 

L'opera di Marco Polo è quindi un documento di straordinaria importanza non soltanto per il suo carattere di sobrietà ma soprattutto poiché è uno scritto sgombro da ogni elemento fantastico o grottesco, prerogative che invece erano tipiche delle contemporanee narrazioni di viaggi fantastici.

 

Sull'onda di Marco Polo seguirono numerose altre opere come ad esempio il libro di viaggi di Odorico da Pordenone che descrive fantasiosamnte i costumi cinesi e soprattutto le relazioni del viaggiatore inglese John Mandeville. Queste ultime infatti furono causa di durature suggestioni per la mentalità del tempo tanto da essere tradotte in numerose lingue.

 

Il trattato ha l'obiettivo di descrivere le cose più sorprendenti e notabili che si trovano al mondo ed è ricchissimo di dettagli pittoreschi, fantastici e assolutamente immaginari riguardo terre e popoli lontani. Questa letteratura, nonostante il suo pesante carico di immaginazione, ha avuto un’influenza sostanziale sugli europei addirittura fino ai primi anni del cinquecento, essi infatti erano propensi a credere agli scritti di un testimone oculare come Marco Polo con la stessa intensità con cui confidavano nella veridicità delle storie di Mandeville che non aveva mai raggiunto effettivamente i luoghi di cui scrive.

 

Un altro elemento fondamentale della formazione culturale europea era il corpus delle opere di tradizione scolastica e quelle dei sapienti antichi tradotti in genere dall'arabo. Tra queste particolarmente diffuse erano le mappae mundi, rappresentazioni geografiche del mondo nelle quali simmetria e ortodossia religiosa costituivano i principi.

 

I continenti erano disposti in maniera simmetrica rispetto al centro che si identificava con Gerusalemme, ogni carta era quindi una vera e propria miniera di erudizione biblica ed aristotelismo. Nella medesima impronta veniva interpretata anche la Geografia di Tolomeo (II secolo d.C.).

 

Introdotta nel mondo latino solo nel 1406, ebbe una grandissima diffusione e influenzò notevolmente la cartografia e di conseguenza anche la concezione dell'orizzonte geografico. Non a caso restò almeno fino al XVI secolo il modello della tipica rappresentazione accademica della Terra, come tale prevedeva solo l'Europa e le parti conosciute dell'Asia e dell'Africa mentre alle estremità orientali ed occidentali erano segnate delle misteriose quanto generalmente ignorate terrae incognitae.

 

La convinzione di assoluta scientificità della Geografia tolemaica e la sua duratura influenza dipendevano dal fatto che la mentalità comune riconosceva una superiorità irraggiungibile agli antichi in ogni campo del sapere umano, fatta eccezione ovviamente per la religione. Per questo motivo gli studiosi europei già del primo quattrocento non avevano criteri validi per confutare l'opera di Tolomeo che per quasi due secoli fu la fonte principale di tutto il sapere geografico.

 

Ogni forma di rappresentazione geografica del mondo quattrocentesco, sia accademica che tecnico-mercantile, non celava il fatto che il polo d'attrazione più forte fosse l'Asia, anche dopo la scoperta del nuovo continente. L'Oriente conosciuto era meta preferita dei traffici commerciali di vasta portata ma erano soprattutto le zone più remote ed estreme a infiammare i desideri e la fantasia.

 

Si credeva fossero la sede di animali e creature meravigliose, di popolazioni ai limiti dell'umano, e di comunità cristiane simili ad oasi lussureggianti. Infatti, secondo la leggenda esisteva un ricchissimo regno cristiano fondato dal martire Tommaso, un predicatore che aveva compiuto la sua missione nel cuore dell'Asia. Tale mito era riportato su un documento che ebbe una vastità di diffusione straordinaria nel Medioevo così come nei primi secoli d'Età moderna: la lettera di Prete Gianni.

 

Questo scritto giunse per la prima volta in Occidente nel 1165 grazie all'imperatore bizantino Manuele I Comneno. Il mittente era un certo presbitero Giovanni. Egli si presentava nella lettera come governatore delle “Tre Indie” che si estendevano dalla Torre di Babele fino all'orizzonte, era sovrano di un regno cristiano dalle ricchezze strabilianti tanto che il palazzo dove risiedeva era costruito con gemme incastonate nell'oro. Dalla diffusione di questo documento in molteplici versioni e lingue iniziò il duraturo quanto irriducibile  fenomeno del tentare di raggiungere tale regno e consegnare a Prete Gianni in persona delle lettere con le quali gli si proponeva un'alleanza per il trionfo del Cristianesimo contro gli infedeli e realizzare finalmente la Gerusalemme terrestre (Phillips, 1990, p. 61).

 

Possiamo notare quindi come l'immaginario geografico medievale rimase saldo anche nella mente degli uomini moderni che proprio per questa ragione, nonostante la vastità del mondo cominciasse a schiudersi davanti ai loro occhi, mantennero come fine il raggiungimento di quelle lussureggianti terre che la mentalità comune e il fervore religioso facevano individuare in Asia.

 

Ovviamente l'epoca delle grandi scoperte è animata anche da straordinari avanzamenti rispetto ai tempi appena trascorsi, soprattutto in ambito tecnico e nautico. Sono evidenti i progressi nell'ambito della costruzione navale e nel campo della tecnica di navigazione che ora riusciva a sfruttare in maniera più accorta correnti e venti specialmente nelle zone inesplorate. Più di altro i miglioramenti nei cantieri navali permisero ai navigatori europei di raggiungere terre sconosciute; basti pensare all'innovazione rappresentata dalla caravella, nave rapida e leggera che necessitava solo di un piccolo equipaggio per essere governata e quindi adatta all'esplorazione.

 

Alla luce di questo quadro è necessario dunque chiedersi quali fossero i moventi dell'espansione europea ad opera di spagnoli e portoghesi, quali stimoli spinsero navigatori e sovrani a tentare di salpare alla volta di acque sconosciute. John Parry nella sua opera Le grandi scoperte geografiche individua fondamentalmente due cause principali: il desiderio di acquisire maggiori ricchezze e lo zelo religioso.

 

Fin dalla fine del quattrocento la piccola nobiltà era costretta a impossessarsi di terre fuori dall'Europa, in luoghi disabitati o dove la popolazione poteva tranquillamente essere sottomessa. Ciò è dovuto al fatto che in patria il potere legale del sovrano si faceva sempre più stabile parallelamente alla formazione di una entità statale forte. Inoltre il commercio nel Mediterraneo era quasi completamente monopolizzato dai mercanti italiani, per cui spagnoli e portoghesi erano costretti a cercare nuovi mercati per i prodotti più richiesti del tempo (pesce, oro, avorio e spezie) arrivando ad avventurarsi nelle pericolose acque dell'Atlantico (Parry, 1963. p. 33).

 

La devozione religiosa è un'altra delle condizioni che spronarono i navigatori iberici a prendere il largo. La devozione religiosa di esploratori e conquistadores aveva assunto aspetti di rigida ortodossia e spirito pratico. Di conseguenza si delinearono due principali direttrici d'azione che costituirono una costante dell'approccio europeo alle nuove terre in Asia, Africa e America: la conversione dei miscredenti attraverso la predicazione oppure l'affermazione violenta del cristianesimo.

 

La prima via richiedeva grandi sforzi, molta pazienza e prospettava poche possibilità di guadagno, la seconda al contrario era tanto sbrigativa quanto redditizia, poiché la volontà di Dio diveniva giustificazione perfetta per il saccheggio e lo sterminio. Proprio per queste caratteristiche si è pensato che le prime conquiste europee avessero per base i motivi tradizionali della crociata ma in realtà si tratta di fenomeni ben diversi che nascono da condizioni storiche differenti.

 

Eppure non si può negare che gli spagnoli verso la fine del XV secolo ancora indossavano il mantello crociato trovandosi nel cuore della loro guerra santa locale, quella della Reconquista ai mori del territorio iberico che si sarebbe conclusa solo nel 1492 con la presa di Granada. Sia in Portogallo che in Castiglia dunque l'idea della crociata aveva ancora il potere di accendere il fervore e l'immaginario degli uomini, specialmente nei nobili e negli spiriti avventurosi. Questa mentalità nei suoi alti e bassi e nelle sue trasformazioni strutturali restò infatti un substrato culturale importante in una terra che da sempre aveva vissuto con un'altra civiltà la quale in un modo o nell'altro ne aveva influenzato la lingua e i costumi.

 

Possiamo notare quindi come il bagaglio culturale dell'Europa alle soglie della sua espansione oltreoceano, nonostante le trasformazioni, le innovazioni nella tecnica e negli strumenti e per certi aspetti le nuove necessità, abbia profonde radici innervate nella mentalità, nella cultura e nell'immaginario medievale. Spagnoli e portoghesi non sono uomini nuovi, vogliosi di afferrare il futuro ma figli del loro tempo e che di esso portano le strutture mentali così come i desideri, le pulsioni e soprattutto gli orizzonti geografici.

 

Tradizionalmente l'uomo che ha intrapreso per primo l'impresa dell'espansione per mare con lo scopo di scoprire nuove terre fu il sovrano portoghese Enrico di Aviz, il Navigatore. Egli infatti patrocinò moltissime spedizioni che permisero la scoperta e l'esplorazione della costa occidentale dell'Africa.

 

Nel 1434 Gil Eanes superò capo Bojador che era considerato a quell'epoca il punto più meridionale conosciuto in Europa, nel 1444 Dinis Dias raggiunse la foce del fiume Senegal e Capo Verde e nel 1455 Alvise Ca' da Mosto sbarcò presso le isole di Capo Verde. Tra il 1430 e il 1460 i portoghesi realizzarono dei successi talmente rapidi e sorprendenti da aver suscitato negli storici il pensiero che tale espansione fosse un progetto razionale preordinato il cui regista era stato proprio Enrico. Per questa ragione al re di casa Aviz gli è stata attribuita nel corso del tempo una cultura di ampio respiro umanistico-rinascimentale, gli sono stati riconosciuti i meriti di essere stato un sovrano erudito ed illuminato, sempre circondato da uomini di scienza dei quali seguiva consigli ed aspirazioni.

 

Sempre come espressione della sua volontà quindi si sono interpretate le principali innovazioni tecniche in ambito nautico e cartografico. Ad Enrico infatti venne attribuita l'introduzione della caravella per i viaggi di esplorazione, quando in realtà era già presente in Spagna, e la produzione di carte nautiche con tecniche rivoluzionarie. La figura del Navigatore è stata dipinta in maniera oleografica come il perfetto uomo moderno che realizza l'aspirazione rinascimentale. Eppure già il suo principale cronista Azurara, esponendo i motivi che avevano spinto Enrico all'esplorazione, ci mostra un quadro ben differente.

 

Il Navigatore voleva certamente conoscere le terre che si estendevano oltre le Canarie e Capo Bojador per sfatarne le dicerie, ma al tempo stesso desiderava con maggiore intensità trovare nuovi poli di scambio e ottenere nuovi profitti, saggiare la forza sui mari dei musulmani, conoscere fin dove si estendeva la loro influenza, in caso soccorrere cristiani in pericolo e soprattutto espandere la fede e la possibilità della salvezza e redenzione delle anime. Egli era sicuro infatti che questa fosse la sua missione come gli aveva rivelato il suo oroscopo al quale credeva ciecamente (Diffie, Winius, 1985, p. 100).

 

Appare evidente quindi che Enrico non rappresentava esattamente il prototipo del “sovrano-scienziato” moderno, animato dalla sete di conoscenza dell'ignoto ma era un uomo del suo tempo, con un forte sostrato culturale di stampo medievale. Ne è una testimonianza anche lo sforzo al quale di fatto costringeva i cartografi di corte di conciliare le conoscenze geografiche tradizionali, mutuate da quelle antiche, con le evidenze delle recenti esplorazioni: non era previsto infatti che la costa africana proseguisse così ostinatamente per centinaia di miglia verso Sud-Ovest prima di curvare bruscamente verso Est aprendo di fatto la possibilità di un passaggio verso l’Asia (Diffie, Winius, 1985, p. 150).

 

Con sul trono Giovanni II i portoghesi continuarono l'esplorazione della costa del continente africano. Con la spedizione del 1487 Dias raggiunse il Capo di Buona Speranza trovando finalmente ciò che gli esploratori del tempo di Enrico anelavano. Affacciatosi leggermente oltre l'estremo meridionale dell'Africa notò che la costa curvava drasticamente verso Oriente: era stato trovato un passaggio dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano. La via per le Indie era aperta e Dias aveva trovato il modo più sicuro per raggiungerle. Ora per il regno portoghese si presentava la possibilità di aprire un nuovo fascio di rotte verso l'Asia e quindi di potersi affermare come valido concorrente commerciale nel panorama internazionale.

 

Allo stesso tempo però le fonti testimoniano che era ancora molto sentita la necessità di appurare l'esistenza del mitico regno di Prete Gianni. Chi continuando la ricerca tradizionale in Asia, chi invece spostando il campo verso l'Africa, molti erano comunque gli esploratori che avevano il compito di scovare il famigerato reame e consegnare delle missive al sovrano. Con questo scopo infatti partì Pedro de Covilhão percorrendo un tragitto via terra che da Calicut lo condusse fino a El Cairo, e il religioso etiope Luca Marcos che aveva il dovere di consegnare al mitico sovrano le lettere di Giovanni II il quale, come è riportato nelle epistole, era  “desideroso della sua amicizia” (Diffie, Winius, 1985, p. 199).

 

Ma fu durante il regno di Manuele I che il Portogallo e l'Europa si resero conto delle reali dimensioni dell'Africa e delle opportunità che si estendevano nelle acque oltre il Capo di Buona Speranza. Protagonista di questa straordinaria conquista fu Vasco da Gama. Egli portò a termine il primo viaggio noto di congiunzione tra Oriente e Occidente raggiungendo definitivamente l'India via mare.

 

La sua spedizione venne preparata con cura e precisione al contrario di molte delle imprese precedenti: non era soltanto un viaggio di esplorazione ma anche un'ambasceria commerciale (per di più armata).

 

Salpato da Lisbona l'8 luglio 1497 giunse a Calicut il 18 maggio 1498 dopo una lunga e difficile traversata, la sua missione venne continuamente osteggiata dai mercanti arabi ma alla fine riuscì finalmente a  concludere un importante patto commerciale con le autorità indiane. Da Gama realizzò infatti il sogno che era stato di tutti i suoi predecessori e che affondava le sue radici fin nel Medioevo.

 

Allo stesso tempo fu il primo artefice di una trasformazione della storia economica mondiale alla quale gli effetti del viaggio di Colombo, avvenuto sei anni prima, avrebbero cominciato a contribuire solo una generazione più tardi.

Dopo innumerevoli tentativi l'Occidente aveva trovato l'Oriente, si era realizzato ciò che le conoscenze geografiche scolastiche ritenevano inconcepibile: l'Africa non soltanto era di gran lunga più estesa di quanto si immaginasse ma era possibile aggirarla lungo la costa in modo tale da raggiungere da Occidente le acque dell'Oriente.

 

Il viaggio di da Gama ebbe un impatto di straordinario rilievo per il futuro dell'Europa nonostante i suoi obiettivi si iscrivessero all'interno di un panorama geografico e culturale, quello del desiderio ardente di raggiungere l'Asia, che ha carattere medievale. Era finalmente aperta una rotta che prima era considerata impensabile, di conseguenza si era avviato un nuovo mercato con l'India basato sullo scambio di spezie e preziosi (Garcia, 1998, p. 33).

 

Ma soprattutto la scoperta dell'ammiraglio permise l'entrata del Portogallo nei grossi traffici con l'Asia; si scatenava ora una seria competizione con gli scambi che si svolgevano lungo le vie carovaniere che fino a quel momento erano state esclusivo appannaggio di Venezia. La dominatrice dell'accesso alla via tradizionale del commercio levantino venne gradualmente sorpassata dal Portogallo poiché una nuova via al commercio era stata finalmente aperta. 



 

 

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