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ANTICA


N. 2 - Febbraio 2008 (XXXIII)

Sardegna. Il tempio del SardUS patEr ad Antis

UN CROGIUOLO CULTURALE - Parte II

di Antonio Montesanti

 

Il tempio di Sardus Pater in epoca Romana

 

Le rimanenze del tempio che oggi ammiriamo pare siano da attribuirsi al periodo romano. Utilizziamo il termine ‘pare’ poiché vi sono tante interpretazioni sulla possibilità di modifica delle strutture originarie, nel tempo, di cui noi non possiamo essere a conoscenza. Per lo meno una conoscenza diretta, ma indiretta e soprattutto deduttiva è possibile.

 

Sappiamo che i restauri strutturali erano necessari nell’antichità molto meno di quanto lo fossero adesso, ma erano pur sempre frequenti e doverosi.

 

Secondo alcuni il tempio di Sid si mantenne almeno fino al I secolo a.C. o Tarda Età Repubblicana nell’Epoca Romana. Le fonti di conoscenza induttiva ci riporterebbero ad un tale inquadramento cronologico: le risultanze coronologiche derivate da un confronto tra materiali e stratigrafia archeologica mettono in relazione i livelli funzionali di appartenenza con il più indicativo dei frammenti ceramici di questo periodo: un frammento di ceramica a vernice nera con l'iscrizione votiva neopunica graffita A(don) S(id).

 

La stratigrafia strutturale, invece, oltre a chiarire molte prospettive consequenziali e cronologiche, pone invece problematiche a livello architettonico: lo scavo interno e quindi del sacellum ha rinvenuto nel livello inferiore al cocciopesto della gradinata del rifacimento romano, elementi architettonici riferibili ad un precedente sacello punico. In pratica per sollevare il podio interno del naos (sacello di culto) ed in particolar modo la scalinata che portava ad esso venne rinvenuto del materiale di ributto riferibile al periodo punico: due capitelli ionici, un frammento di iscrizione cartaginese, un frammento di vaso a pareti sottili (?)ed un frammento di statuina di Musa in marmo che cronolicamente si collocano tra il III ed il II sec. a.C.   Il riuso dei materiali come riempimento della sostruzione templare indicano la loro perdita di sacralità o funzionale: l’eidolon (Musa?), che rappresenta l’elemento più tardo (seconda metà del II secolo a.C.) è anche l’elemento che ci indica il potenziale strappo temporale che separa l’infunzianabilità dell’oggetto dal momento in cui questo venne rigettato nella colmata al momento ricostruttivo.

 

Quindi dalla metà del II sec. a.C. gli studiosi brancolano nel buio e la scientificità archeologica lascia spazio alle interpretazioni ricostruttive. Da un passaggio logico, tecnico ed altamente scientifico si passa ad un’arbitraria deduzione della ricostruzione avvenuta in epoca augustea, che vedrebbe non il restauro ma addirittura una vera e propria edificazione ex novo del tempio del Sardus Pater, le ipotesi propositive si fondano sia sull'analisi strutturale dell’architettura e decorativa, sia sulla campagna propagandistica del primus imperator dettata da una ‘promozione’ del culto della divinità locale.

 

Al termine del secondo triunvirato, 36 a.C. dopo la battaglia di Nauloco, Ottaviano, il prossimo Augusto, ottenne la Sardegna strappandola a Sesto Pompeo e solo dopo questa data fece batte battere sul territorio sardo e per la popolazione sarda, probabilmente in differenti zecche dell’isola (Carales, Sulci, Neapolis), una moneta bronzea che portava al D/ la testa a sin. di un personaggio maschile con leggenda M•ATIVS•BALBVS•PR(aetor), governatore (praetor) della Sardegna nel 59 a.C. e che era anche suo bisnonno materno; il R/ legava strettamente Ottavano al popolo sardo: una testa barbata a des. con copricapo (piumato?) a cinque o sette razze, in secondo piano dietro le spalle: punta di lancia, leggenda: SARD(VS)•PATER.  La collocazione cronologica pone l’esemplare, per i valori ponderali (peso di 6,68 g.), di collocarlo all’interno del sistema quartunciale usato dal triunviro ottaviano per il recupero di enormi cifre di denaro che da lì a poco lo avrebbe condotto allo scontro con Antonio. La data post quem della riforma monetaria, che si conchiude tra il 39 ed il 15 a.C., deve essere ribassata per il nostro caso di almeno due o tre anni, vista l’occupazione che avvenne definitivamente nel 36 a.C. La moneta, attestata in differenti varianti è presente sull’intero territorio dell’Isola (Nora,Bithia, Sulci, Othoca, Tharros, Cornus, Olbia, Arborea, Guasila, Tonara, Vallermosa, Antas, Narbolia, Cabras, Arbus, Gonnosfanadiga, Samassi.) in oltre duecento esemplari.

Il princeps che avrebbe considerato la comunità sarda come entità di tipo semindipendente avrebbe avuto una duplice funzione, da una parte propagandare la figura di un avo che ‘ben aveva amministrato la Sardegna’ di cui lui era il diretto successore e dall’altra rispettare ed onorare il maggiore culto locale, che sarebbe stato ‘potenziato’ nella costruzione del nuovo tempio del Sardus Pater.  

 

In realtà si tratta di un’ipotesi, poiché l’unico dato ‘scientifico’ sul restauro del luogo di culto è costituito dai resti dell’iscrizione presente sull’epistilio templare

 

IMP(eratori) [CAES(ari) M.]  AVRELIO  ANTONINO.  AVG(vsto)  P(io)  F(elici) TEMP([l(vm) D]EI [Sa]RDI PATRIS BABAI

VETVSTATE c]ON[lapsvm] (?) [—] A[] RESTITVE[ndvm] CVR[avit] Q (?) CO[el]IVS {CO[cce]IVS} PROCVLVS

 

"Imperatori Caesari M. Aurelio Antonino. Augusto Pio Felici templum dei Sardi Patris Babi vetustate conlapsum ... A ... restituendum curavit Q Coelius (Cocceius?) Proculus"

 

“In onore dell'Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto, Pio Felice, il tempio del dio Sardus Pater Babi, rovinato per l'antichità, fu restaurato a cura di Quinto (?) Celio (o Cocceio) Proculo"

 

Il tempio dunque venne ricostruito, rifatto, restaurato da Q. Celio (o Cocceio, le lacune non ci consentono di essere più precisi) Procuro per conto dell’Imperatore, allora in carica: M. Aurelio Antonino Pio, detto Caracolla e si colloca tra il 213 – anno in cui la titolatura ‘Felix’ è ufficialmente introdotta per quell’imperatore – e l'aprile 217, anno della sua morte a Carre.

 

Le deviazioni dal modello ionico (evidenti anche nel fusto liscio invece che scanalato) sembrano attribuibili ad un profondo restauro del tempio promosso sotto Caracalla, Simonetta Angiolillo ha comunque rilevato che la riduzione dell'abaco e la tendenza alla eliminazione del canale delle volute si riscontrano sin dal II secolo d.C. in Africa.

 

La struttura

 

La struttura presenta agli occhi anche dei non esperti delle particolarità che la differenziano dalle strutture classiche non im maniera netta e distinta piuttosto come una sorta di meravigliosa integrazione tra diverse anime che sono rappresentate nella struttura in una meravigliosa amalgama che al contempo rispetta le peculiarità di ogni popolo che sia entrato a contatto con la cultura sarda. Lo spirito autoctono è rappresentato dalla scelta del luogo e dall’orientamento che rappresentano il castone di un gioiello che brilla in base all’angolo del tagli o su di esso scalfito. Gli strali di luce che ne fuoriescono dalla perpendicolare di ogni lato sono perfettamente orientati. Il tempio sardo doveva sorgere su quella sacra roccia che si erge al di sopra di un piccolo altopiano lievemente in pendenza ed inserito in una corona montuosa.

 

L’aspetto punico è segnato dallo stile delle colonne che contengono, in sé, aleno tre elementi: le colonne sono tonde, lisce a rocchi brevi e rappresentano una componente d’importazione culturale che è innegabile anche nei frequenti rapporti che intercorsero cartagine e l’egitto. Quelle stesse colonne che nel paese d’origine avevano capitelli a ‘foglia di palma’ che invece dal mediterraneo centrale vennero filtrati dalla cultura fenicie e quindi punica (cartaginese). A sua volta al momento della costruzione, che sarebbe avvenuta intorno alla fine del VI sec. (almeno per l’anastilosi delle colonne), un deciso influsso ionico dovette nvestire gli architetti punici che innalzarono il colonnato, mentre la particolare pianta ci riporta ad ambienti mediotirrenici di questo periodo. L’influenza etrusca o romana – che in questo periodo sono ancora la stessa cosa, nonostante la monarchia etrusca sia stata espulsa da poco – si ritrova nello stretto ma alto crepidoma, opposto alla metodica greca che lo vuole basso e largo, nell’alzato della pianta costituita, in puro stile etrusco-italco, da una una fronte tetrastila apera che prosegue sulle ali con due altre colonne (una pper lato) che si consegnano nella parte posteriore ad una cella inglobata a sua volata nella parte che fa da opistodomo. Il naos (o cella, dove risiedeva la statua del culto) non era, come quello greco, inserito al centro del tempio, indipendente dal perimetro esterno delle colonne, qui aveva doppia se non tripla funzione, quella di sacello di culto, parte posteriore (adyon o opistodomo) e a sua volta muro perimetrale di chiusura del tempio stesso. Ancora. La cella è l’esemlificazione pi evidente dell’importazione culturale punica.

 

In tutto qusto lo stile segna una particolarità che presentano pochi templi del sud italia e che già sono stati messi in relazione con un evento riconosciuto, evidente e definito. Alcune strutture della Magna grecia e della Sicilia sono imbevute di ‘ionismo’ nei particolari che definiscono un tempio ionico. Fondamentalmente è lo stile che definisce un tempio e lo stile non è dato dalla struttura ma dai particolari che lo compongono. Lo stile ionico dell’intera struttura si manifesta esternamente nei particolari che al momento della costruzione avrebbero investito l’occidente, dal Suditalia all’Andalusia da Cartagine a Massalia.

 

Le colonne danno l’esempio più evidente dell’applicazione stilistica di un periodo e di una tipologia decorativa che diverrà unica nell’applicazione , rigida e al contempo adattativi dei propilei dell’acropoli ateniese. Il fusto lasciato liscio è delimitato dagli elementi ionici per antonomasia: la base e il capitello che si uniscono ad un fusto perfettamente cilindrico e non rastremato. Ma non solo. Il riscontro avviente anche nei materiali ‘accessori’ come i gocciolatoi (gronde) a testa leonina che prendono il sopravvento in tutta la grecità proprio in questi anni.

 

Tutti questi elementi, stilistico-strutturali, ci riportano ad un periodo che ha delle fondamenta storiche, come detto, ben definite su alcuni avvenimenti che partono dall’Asia Minore e che proseguono in Occidente.

 

Alle soglie del V secolo in un periodo compreso tra il 540 ed il 510 a.C., alcuni dei greci d’asia minore, ed in particolare gli ioni, vengono assoggettati all’impero persiano, per molti di esi l’unica soluzione, l’unica alternativa al potere del monarca persiano ed alle microtirannidi filopersiane sarà costituito dalla fuga, dall’emigrazione. I profughi si riverseranno in massa in occidente alla ricerca di un nuovo posto dove innalzare una città, ma mentre alcuni di loro si assesteranno in maniera sporadica, altri tenteranno di fondare una colonia via via sempre più a nord scontrandosi con tutte le potenze tirreniche del momento e che culminerà nella battaglia, che gli autori antichi dicono vinta dai Greci guidati dai Focesi, detta del ‘Mare Sardo’ di fronte ad Alalia in Corsica (535 a.C.).

 

I focesi vincitori si rifugeranno, fondandola, a Velia. Ma l’aspetto più importante è che i greci si dispersero da quel momento in tutto il bacino tirrenico e con essi potarono il loro stile e il loro modo di vita, già apprezzato dagli etruschi.

 

Anche se quella nuova suddivisione ‘territoriale’ edlle acque verrà sancita dopo questo scontro: Gli Etruschi verranno ridimensionati nel loro potere sui mari, rimangono con un controllo probabilmente molto più labile almento sulla corsica e sull’intero tirreno settentrionale; i cartaginesi confermano la propria influenza sulla Sardegna e si concentrano sulla conquista della Sicilia, i greci iniziano a riprendersi il tirreno meridionale.

 

Ma nel tempio di Antas tutti gli elementi s’incontrano, tutti si fondono nello splendido esempio d’interculturalità che può essere avvenuto solo in un periodo successivo, quando ancora tutti questi elementi non si erano andati dissolvendo nelle nebbie della dimenticanza. Per questo il tempio, nelle sue forme viene datato al 500 a.C.

 

È giusto infatti ritenere che la costruzione templare romana di I sec. a.C. o il suo restauro di III sec. d.C. decise di mantenere molti, se non tutti gli aspetti che componevano la struttura sacra.

 

Venne mantenuto l'orientamento della struttura punica, le misure strutturali della scalinata cge sfrutta la pendenza a Nord per appianarne il dislivello, corrispondente in parte all'area del tempio punico di Sid, risulta molto danneggiata (e conseguentemente ricostruita in epoca moderna) per i saggi stratigrafici e gli scavi clandestini, era composta da molti gradini a mo’ di ripiani di m. 17,25 x 9,30 (58 x 31 piedi romani) poggianti, insieme al resto della struttura sul podio di m 23,25 x 9,30 (78 x 31 piedi), che si eleva per 1,10 m.  

 

Il ripiano più elevato (il IV), corrispondente al piano della roccia sacra del tempiosardo, era la base su cui avrebbe poggiato l'ara sacrificale,punica prima e romana poi.   I piani, la base del podio e i ripiani della gradinata, vennero ricoperti in cocciopesto, di cui è rimasto un lacerto sporadico (2 x 0,95 m) nei pressi dell'angolo nord della gradinata.

 

La struttura sardo-punica venne conglobata all’interno di un paramento in ortostati, di calcare per la gradinata e, di arenaria riutilizzati per le ali del podio; per il riempimento del paramento in blocchi vennero riutilizzatii i resti delle strutture più arcaiche tempio punico, quello costruito ‘a muretti’ che vennero costruiti ex novo con scaglie di arenaria cementate con malta di fango rosso per ottenere una sorta di griglia per il basamento tecnica comune soprattutto in ambito greco che romano d’influenza fenicio-punica (Asclepieion, Castoro e Polluce, Zeus Olimpio ad Agrigento, Apollo Eretimio a Rodi,  Tanit a Nora, Venus (?) a Carales).  

 

Il podio in opera quadrata si basa su un rapporto larghezza/lunghezza di 2,5 : 1, delimitato da blocchi in calcare in misure variabili tra i 2,70 m (9 piedi) / e i 0,90 m (3 piedi), uno spessore 0,90 m (3 piedi) ed una larghezza 0,45 m (1,5piedi) saldati tra loro con incavi e grappe plumbee  ‘a coda di rondine’, che secondo nuove scoperte (mura urbane di Tharros - IV sec. a. C.) sarebbero già documentate in area greca e punica e poi entrate felicemente a Roma verso la fine del II secolo a.C., divenendo ‘canone’ costruttivo in età augustea, per conoscere il suo exploit lungo il corso della giulio-claudia.  

 

Il tempio di Sardus presenta un pronao, una cella (o naos) e adyton bipartito, che doveva ospitare, da una parte, la statua in bronzo di Sardus  di oltre tre metri vista la scoperta del dito di una mano; l’altro ambiente ospitava forse una seconda statua (di Màkeris-Ercole, padre di Sardus) piuttosto che un altare, presente invece, secondo l'uso romano, sulla scalinata d'accesso al tempio.   

Il pronao, colonnato e aperto, è lungo 6,60 m (22 piedi) e presenta quattro colonne in fronte e una sui lati affiancata da una lesena che fa d’aggancio con la parte postica o ‘chiusa’.

 

Le colonne frontali presentano un intercolumnio di ampio respiro, m 3 (10 piedi), mentre quelle laterali sono scandite da un intercolumnio di 2,4 m (8 piedi).

Ogni stelo è composto da una serie di  rocchi a fusto liscio in calcare locale ed un’altezza di 8 m, mentre il diametro della base della colonna è di m 0,95 (circa 3 piedi e 2 unciae) ed un’altezza di 0,45 che fa pensare non a delle sopravvivenze stilistiche greche, tanto da essere definite ‘basi attiche’ e capitelli ionici.

 

Trattandosi di un tempio eclettico non tendente al purismo ionico, che non potva possedere, i capitelli si differenziano dal ‘canone ionico’ per l’assenza dell'abaco e del canale delle volute; le lancette del kyma ionico, che si alternano con gli ovoli son insolitamente grandi quanto essi; mentre il sommoscapo è parte unica col capitello e sembra presentare secondo  S. Angiolillo un profilo concavo.  

 

Il pronao proseguiva a Sud-Est verso la cella, separato dalla cella da un filare in blocchi calcarei, spessi m 0,80 all’interno del quale si apriva una porta, la cui soglia ci fornisce la lunghezza di 2m. Da qui si accedeva alla cella di m 11,25 x 7,40 (38 x 24 piedi) decorata da da pilastri quadrangolari, a cui fanno eco le lesene esterne d’aggancio con le colonne, addossati alle pareti. Il pavimento di questo settore era rivestito con un mosaico con fascia di raccordo bianca di m 2,36 ed il bordo nero di cm 18, che delimita il centro completamente bianco il cui ordito a file parallele riporterebbe ad abienti severiani (S. Angiolillo). 

 

A cella era raggiungibile anche mezzo gli ingressi laterali speculari disposti sui lati occidentale ed orientale con una luce di 1,95 m ed erano accessibili da tre gradini. Il muro di fondo conserva i 2 adyta (o adyton bipartito) a cui si accedeva tramite due porte larghe 1,30 m, misura scaturita dalle soglie, che aprivano ai due piccoli vani (3,20 x 2,70 m).  Di fronte alle soglie sono stti ricavati nel pavimento due bacini quadrati (1,20 m x 1 m di profondità), nei quali si accedeva tramite tre scalini larghi 25 cm. 

 

Le vasche sono impermeabili grazie ad un sottile strato di cocciopesto idraulico e dovevano contenere acqua lustrale per cerimonie di purificazione.  

 

Il tempio doveva essere ragionevolmente coronato da un frontone triangolare del tutto mancante che s’ipotizza essere stato di legno; mentre dall’attestazione del Lamarmora il quale rimise alla luce gli elementi strutturali del tempio abbiamo l’attestazione che «…il tetto [del tempio] era di tegole piatte, coperte nelle connessure da coppi con le estremità ornate d'antefisse di terracotta. Un frammento di queste ultime è stato trovato tra le macerie: vi si vede un braccio appoggiato su una voluta ed un pezzo d'ala: è stato facile farne una restaurazione presso a poco completa».

 

La descrizione del generale piemontese suggerisce che la decorazione fittile non sembra essere coeva alla restituzione severiana  bensì sembra riprendere decorazioni che si spingono in dietro nel tempo, e che quindi si debbano riferire all'originario tempio di Sardus Pater, al periodo augusteo o addirittura al V sec. a.C.  

 

La tendenza degli studiosi porterebbe a far risalire le terrecotte architettoniche e l’intera decorazione fittile di Antas al periodo augusteo. La presenza sulle antefisse di una figura femminile alata a gambe tentacoliformi terminanti a volute, il suo riconoscimento come Scilla, simbologia usata frequentemente in periodo tardo repubblicano e imperiale incipiente, riconducono ad un repertorio iconografico che comprente soggetti mitici riferibili alle Lastre Campana (chimera, grifone e figure femminili ). D’altro canto le gronde a protome leonina, rappresentano un dato cronologicamente nullo poiché rappresentano uno stereotipo diffuso dal periodo arcaico fino a quello alto imperiale.  

 

La maggior parte degli autori considerano l’innalzamento del tempio di Sardus Pater relativo al periodo augusteo, innalzato secondo i canoni romano-italici ed imbevuto delle persistenze culturali puniche, i cui confronti, lasciando da parte la presenza cartaginese, si ritrovano templi giulio-claudi di Nimes, Arles, Pula. Laddove, invece, la definizione di tempio tetrastilo rimane impregnata di risultanze puniche, per area d’appartenenza, come a Djemila, in Tunisia, il tempio d'età severiana dedicato alla Gens Septimia, rappresenta l’esempio più vicino, culturalmente e cronologicamente, a quello restaurato sotto Caracalla.

 

Tra i rinvenimenti, considerati offerte votive al Sardus Pater, sono presenti: statuette in bronzo qualche volta integre, più spesso ‘segate’ ai piedi, rappresentanti Ercole e altre divinità; un delfino bronzeo, un clava (attributo di Ercole), lancie in ferro (attributo di Sardus), 42 monete repubblicane, 1103 monete imperiali.   Una offerta votiva del III secolo d.C., sconosciuta (una statuetta ?), si accompagnava  con una tabella ansata in bronzo con la dedica “Sardo Patri/Alexander/Aug(usti) Ser(vus), Regionarius, /d(onum) d(edit)” (Alexander,schiavo, imperiale, addetto alle regioni, ha offerto in dono a Sardus Pater).

 

Il villaggio di Antas 

 

A pochi metri a sudovest del tempio, i lavori dell'area in breve pendio, svoltisi nel 1967, misero in luce diversi vani a pianta pseudocircolare innalzati tramite pietre legate da malta e fango. Le strutture variano notevolmente i loro diametri tra i 3 ed i 6 m laddove i muri misurano circa ½ metro di spessore. Gli ambienti sono pavimentati con lastre di pietra e frammenti di terracotta.  Il piccolo abitato era recintato da un muro curvilineo e discontinuo che lasciava il passaggio al transito dei carri.  L’abitato attesta la sua funzione e la sua occupazione in età tardo imperiale, periodo riscontrabile dalle suppellettili ed oggetti prevalentemente locali (vasi da fuoco d'impasto) con abbondanti importazioni di ceramica sigillata africana di tipo "D", inoltre vetri, punte e lame in ferro, un orecchino in bronzo, un peso eneo sferoidale tutti riferibili al IV/V secolo d.C.

L’area abitata ha restituito anche quattro tombe a cassone, all’interno di una delle quali oltre a tre brocchette tardo antiche o altomedievali in ceramica comune, il defunto portava sull'anulare sinistro un anello in argento e stagno decorato da un serpente sul quale era incisa una scritta in  latino:   Sida (vel Sidia) Babi dedi don (vel donum) denarios XCIV (Diedi in dono a Sid Babi 94 denarii).   La maggir pate degli studiosi colloca il termine del culto di Babai Sid Sardus Pater intorno al IV sec. d.C.

 

Lo scavo del materiale di crollo ha però chiarito che materiali più tardi come monete imperiali di IV sec. d.C. definiscono un ‘pesante’ terminus post quem per l’abbandono del culto e conseguentemente dell’area per alcuni avvenuta per distruzione violenta (Angius). 

 

Il culto a Sid, alla luce di questi rinvenimenti, parrebbe proseguire fino alla tarda età imperiale spingendosi anche oltre la caduta dell’impero romano d’occidente, tenendo ben presente che la fine non dovrebbe essere arrivata con la proclamazione della libertà di culto, con Costantino nel 313 d.C., piuttosto con la proclamazione del Cristianesimo religione di stato da parte di Teodosio, quando la figura di Sardus Pater Sid Babai verrà assimilata a S. Angelo, culto documentato nella omonima località prossima ad Antas.

 

Conclusioni

 

La presenza in un tempio ricostruito in età Severiana, che mantenne l'orientamento angolare, gl’ingressi laterali, la cella-adyton bipartita e le vasche per le abluzioni rituali di tipo punico; lo stile ionico o ionizzante delle colonne mutuato dagli influssi ellenici; l’alto podio d’ingresso e la fastosa decorazione fittile di ambiente italico-romano, ci lasciano intravedere la possibilità che il tempio abbia conservato nei seoli tutte quelle caratteristiche che lo resero la costruzione templare (nel senso di tempio classico) più grande ed importante della Sardegna.

 

Potremmo così immaginare che già il tempio sardo, punico, greco, italico e romano vennero a preservarsi nel tempo fino a raggiungere l’ultimo stadio di ristrutturazione, quello severiano, quando le peculiarità crono-stilistiche vennero salvate e preservate, così come oggi le conosciamo.

 

 

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