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N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

nazismo: reazione o rivoluzione?
il ruolo del nazionalsocialismo

di Paolo Amighetti

 

Quale fu il ruolo storico del nazionalsocialismo? Diede forza alla reazione anticomunista o capeggiò una propria rivoluzione? Una delle chiavi interpretative di maggior successo dipinge il fenomeno nazista come espressione delle «destre» nazionaliste e militariste impegnate nella restaurazione della potenza tedesca.

 

Facendo leva sul supporto determinante della grande industria, i nazisti avrebbero raggiunto il potere perché non ci arrivassero, prima o poi, i comunisti. Secondo la storiografia marxista, Hitler divenne presto vassallo dei potentati economici, e il nazionalsocialismo un baluardo della reazione.

 

Uno dei capisaldi della «Weltanschaaung» hitleriana, in effetti, era l'antibolscevismo e il rifiuto dell'internazionalismo propugnato dai comunisti. Sin dalle origini, il NSDAP (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, N.d.A) si impose all'opinione pubblica come il nemico numero uno del partito comunista: anzi, come il suo naturale oppositore.

 

Tutto sommato, ne era l'avversario più qualificato: come il KPD (Partito comunista tedesco, N.d.A), disponeva di un folto gruppo di picchiatori, che presidiavano i comizi e si abbandonavano alla violenza; pretendeva di avere orizzonti ideologici che andavano ben al di là del confronto politico dei partiti cosiddetti «borghesi», il socialdemocratico e il Zentrum cristiano-democratico; al loro moderatismo opponeva la «lotta di razza» così come i comunisti quella di classe; disprezzava l'aristocrazia e il mondo del grande capitale, nel quale individuava l'ebreo onnipotente e truffaldino, laddove i comunisti smascheravano la cricca degli sfruttatori del proletariato.

 

Hitler affermava (senza vergognarsene, perché «è sempre dai propri nemici che si impara il meglio») di avere appreso dai bolscevichi l'arte della comunicazione e le esigenze della politica di massa; e pretendeva di potersene sbarazzare vincendoli con le loro stesse armi. Ma spesso, il modo più sicuro per toglierli di mezzo era tesserarli nel NSDAP: le affinità tra comunisti e nazionalsocialisti, infatti, sono più sorprendenti delle divergenze. Sono proprio queste a farci dubitare del carattere puramente reazionario del fenomeno nazista.

 

Giova ricordare che, fino quasi alla fine degli anni Venti, nel partito nazista esistevano due anime: quella che, per intenderci, poneva l'accento sul nazionalismo e quella che privilegiava piuttosto il socialismo. Le sezioni dei Länder settentrionali erano «rosse»: guidate dai fratelli Strasser e dal giovane Joseph Goebbels, che una volta pretese di «espellere dal partito nazista il piccolo-borghese Adolf Hitler», misero in dubbio l'autorità stessa del Führer in seno al movimento.

 

L'ala sinistra del NSDAP organizzò nel novembre 1925 un congresso ad Hannover: propose di mutare il programma dei venticinque punti stilato da Hitler nel 1920, definito «reazionario» in materia di economia. Goebbels scriveva, in questi mesi, ad esponenti del KPD: «Noi ci combattiamo senza essere veramente nemici». Insomma, all'epoca in cui il partito hitleriano aveva appena messo il naso fuori dalla Baviera il suo capo era sbeffeggiato dai camerati settentrionali con l'appellativo di «papa di Monaco», e la stessa linea politica del nazionalsocialismo restava in buona parte incerta.

 

Hitler, dopo aver ricompattato il NSDAP, si lanciò nella lunga lotta politica che gli avrebbe permesso di prendere il potere: diventato prima cancelliere e poi Führer del Reich, la sua politica economica non fu troppo lontana dagli esperimenti del socialismo reale. Negli anni della scalata al potere, aveva assunto atteggiamenti ora oltranzisti, ora accomodanti, per esigenze tattiche; c'erano stati molti abboccamenti con esponenti del mondo industriale, e senza il supporto di alcuni di loro il NSDAP non sarebbe mai uscito dalla Baviera.

 

Nei primi tempi il magnate dell'acciaio Fritz Thyssen, la Confederazione degli industriali bavaresi, alcuni ambienti dell'esercito avevano finanziato il movimento, intravedendone in effetti un argine al socialismo: ma s'illudevano di trasformarlo in una loro marionetta, e questo fu il loro errore. Lo stesso Alfred Hugenberg, capo dei nazionalisti e per un certo periodo alleato di Hitler, era un ricco imprenditore. Questo non impedì al Führer di sbarazzarsi di lui alla prima occasione, e di dare in appalto al potere politico la gestione dell'economia nazionale.

 

Scrive l'economista liberale Ludwig von Mises: «Il nazionalsocialismo è la realizzazione dell'utopia vagheggiata dall'ala radicale del Socialismo della cattedra tedesco. Molte generazioni di filosofi, economisti, storici e critici della società tedeschi hanno cooperato alla costruzione di questo piano sociale. Rodbertus e Lassalle, Treitschke e Schmoller, Adolf Wagner e Walther Rathenau riconoscerebbero nell'edificio compiuto i loro singoli mattoni. Eppure le idee più importanti venivano dai socialisti e dai riformatori inglesi e francesi. [...] Nel Terzo Reich l'economia viene pilotata dallo Stato in modo pianificato; a spingere il singolo individuo a lavorare non è la molla del guadagno, bensì l'adempimento di doveri imposti dallo Stato; la formazione del reddito è regolata dallo Stato.»

 

Il «socialismo di fatto» hitleriano aveva radici tanto profonde quanto quelle del suo nazionalismo. L'idea che il popolo tedesco avesse il diritto di imporsi sul resto d'Europa e sul mondo intero era vecchia quasi quanto il Reich bismarckiano, risalendo alla Weltpolitik di Guglielmo II; la cultura nazionalista era diffusa negli ambienti dell'aristocrazia, della piccola borghesia e dell'esercito sin dal tempo dell'impero germanico e di quello austro-ungarico, e congiuntamente all'idea di «nazione tedesca» prese ad affermarsi, tra Otto e Novecento, la concezione di «comunità di popolo» biologicamente pura.

 

Anzi: già il filosofo Johann Gottfried Herder, a cavallo tra il Sette e l'Ottocento, scriveva che «la nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l'epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all'estero è già malattia, pienezza d'aria, gonfiezza malsana, presentimento della morte.»

 

In tutto il mondo tedesco, chiusa la parentesi intellettuale liberale della prima metà dell'Ottocento, si diffusero concezioni suprematiste strettamente legate alla purezza razziale, prima che culturale e linguistica. Nella Vienna di inizio Novecento, la rivista Ostara di Lanz von Liebenfels propagandava la dottrina dell'arianesimo definendosi «il primo periodico di scienza della razza»; il giovane Hitler ne fu un appassionato lettore. Secondo l'Ostara e l'allora sindaco di Vienna Karl Lueger, il nemico della razza ariana era l'ebreo corruttore, parassita e ingannatore. In linea con queste tendenze, sorsero tra Otto e Novecento molti circoli pangermanisti e razzisti, che avevano in comune il culto dell'esoterismo e una struttura organizzativa che le faceva apparire simili a sette più che a movimenti politici veri e propri.

 

Eppure, il nazionalismo tedesco di marca aristocratica sfuggì in buona parte alla psicosi razziale fino alla disfatta nella prima guerra mondiale; e anche dopo, molti aristocratici come Hindenburg faticavano a comprendere l'odio di Hitler per i semiti, che pure si erano battuti coraggiosamente al fronte.

 

Ma la leggenda della pugnalata alla schiena, che addossava la colpa della sconfitta ad un complotto di ebrei e comunisti, ebbe sempre più fortuna tra i ceti meno abbienti e gli strati più vulnerabili della piccola borghesia. Hitler elevò tali pregiudizi a cardine del suo sistema ideologico, ravvisando nell'ebreo ora il capitalista sfruttatore, ora l'affabulatore internazionalista, ora il germe che infettava la purezza della cultura e del popolo tedesco.

 

L'assoluta centralità della razza diede una forma nuova al nazionalismo germanico, almeno per come lo intendevano i nazionalsocialisti: rimuoveva infatti lo scrupolo per la tradizione prussiana e aristocratica degli Junker sostituendola con la coesione di una arcaica comunità nazionalpopolare, quella «Völksgemeinschaft» che Hitler voleva rafforzare cancellando lo scontro di classe e sbarazzandosi degli ebrei. Neppure il nazionalismo di Hitler fu dunque «reazionario», in quanto non riconosceva alcuna leadership alla vecchia classe dirigente imperiale e all'aristocrazia. Anzi: Mein Kampf è zeppo di critiche al vecchio Reich e alla sua bolsa e incompetente classe dirigente, e il sentimento monarchico nei maggiori esponenti del NSDAP era praticamente assente. Al suo posto stava la fedeltà al Führerprinzip, il principio di assoluta predominanza del capo, cioè di Hitler in persona.

 

Lo stesso totalitarismo nazista smentisce la tesi reazionaria: una volta preso il potere, il Führer non conservò lo status quo, né restaurò l'impero; procedette a smantellare lo stato per dargli una forma congeniale alla sua concezione del potere assoluto. Quella nazista fu una rivoluzione legale e silenziosa: legale perché a nominare Hitler cancelliere fu il presidente della repubblica Hindenburg, silenziosa perché dall'inizio del 1933 alla metà del 1934 il Führer esitò a trasformare il partito in stato, limitandosi a dare ai suoi uomini ruoli chiave in pochi ministeri per poi farsi consegnare dal parlamento i pieni poteri.

 

L'opera di ingegneria istituzionale nazista stravolse la Germania. La cultura venne data in appalto a Goebbels, titolare del ministero della propaganda; vennero cancellate le autonomie secolari dei Länder e l'economia scivolò in pugno all'apparato. L'assoluta preponderanza di Hitler, che nel 1934 accentrò nella sua persona le cariche di capo di stato e capo del governo, era consolidata dalla struttura che Joachim Fest definisce «darwinismo istituzionale»: per volontà del Führer proliferavano cariche e uffici, spesso in competizione e in contraddizione nella direzione dei loro affari.

 

Un simile caos burocratico favoriva l'arrivismo dei funzionari e accresceva l'influenza del solo Hitler, a fronte della generale confusione che più tardi avrebbe messo nei guai anche l'esercito in guerra. Il socialismo «di fatto», il nazionalismo razzista e anticonvenzionale, l'autentico stravolgimento in senso dittatoriale delle istituzioni tedesche sembrano indicarci una risposta chiara alla domanda posta all'inizio: Hitler non ripristinò il vecchio, ma diede spazio al nuovo; non conservò, ma distrusse ciò che rimaneva del regime morente. La sua fu una rivoluzione.



 

 

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