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N. 45 - Settembre 2011 (LXXVI)

aSPIRAPOLVERi CON I TACCHI A SPILLO
COME L’ITALIA VEDE LA DONNA

di Roberta M. Toselli

 

Il World Economic Forum ha pubblicato nel 2010 The Global Gender Gap Report: in esso più di cento nazioni sono state analizzate per evidenziare il livello di uguaglianza (o discriminazione) presente tra uomini e donne. Ed è stata fatta una lista, da 1 a 134, con voti da 1 (assoluta parità) a 0 (assoluta disuguaglianza).

 

Scorrendo la lista, dove l’Islanda è al primo posto e lo Yemen all’ultimo, troviamo il Mozambico al ventiduesimo posto, il Nicaragua al trentesimo seguito dall’Uganda al trentatreesimo e dal Kazakistan al quarantunesimo... e l’Italia? Al settantaquattresimo (74!) posto, con un voto di un soffio superiore al paese successivo: il Gambia. Il Gambia, dove le donne lottano tutt’oggi contro i matrimoni precoci e l’infibulazione!

 

Le donne sono ritenute da molti paesi una risorsa e infatti il nostro non fa eccezione: qui le italiane sono considerate una risorsa in quanto vanno a coprire le carenze dello stato sociale.

 

La donna accudisce i bambini al posto degli asili nido che non ci sono, si occupa degli anziani invece di un’assistenza pubblica alla terza età inesistente, e così via, arrivando a lavorare 80 minuti al giorno più dell’uomo. In Spagna la differenza è di 54 minuti e in Norvegia non ci sono differenze.

 

A fronte di tutto questo lavoro extra, non stupisce quindi che, secondo l’Istat, nel decennio 1996-2006 le lavoratrici dipendenti part-time siano aumentate di oltre il 71% e la loro percentuale sul totale delle occupate sia cresciuta dal 20% al 26%. I dipendenti uomini part-time hanno avuto un incremento solo del 9% e rappresentano, in totale, un’esigua minoranza.

 

Si lavora a tempo ridotto quindi, ma quante lavorano? Sempre secondo l’Istat il tasso di occupazione femminile, in una fascia di età tra i 15-64 anni, nel III trimestre 2010 è di 45,8%. Ciò significa che quasi sei donne su dieci non lavorano.

 

Se si considera una fascia d’età più ristretta la situazione migliora di poco. Secondo i dati dell’Eurostat nel marzo del 2011 il tasso di occupazione delle donne senza figli tra i 25 e i 54 anni in Italia, è pari al 63,9% contro il 75,8% della media dell’Unione Europea. Malta, l’unica con un risultato peggiore, si ferma al 56,6%.

 

Per quanto riguarda le madri la situazione è peggiore. In un paese dove l’81% degli abitanti pensa che il bambino soffra se la mamma lavora (contro il 55% della media europea) non è poi strano scoprire che il 27,1% delle donne occupate lasci il lavoro dopo la maternità: questo succede anche in altri paesi ma in Italia l’abbandono del lavoro è definitivo. Definitivo. E questo spreco di talenti è vissuto da aziende e Stato come fisiologico e naturale.

 

Nella città di Inzago, a due passi da Milano, a giugno 2011 una azienda produttrice di motori elettrici per impianti di condizionamento ha licenziato tutte le operaie donne.

 

Ai dirigenti dell’azienda non è sembrato strano dichiarare che in questo modo si dava la possibilità alle suddette donne di stare a casa a curare i bambini, così come all’amministratore delegato non è sembrato sbagliato precisare che quello portato a casa dalle donne è, in ogni caso, solo il secondo stipendio e, quindi, di poca importanza.

 

Lavoratori di serie b insomma, questo sono le donne.

 

Eppure noi investiamo nell’istruzione femminile: si laureano più donne in Italia che in Gran Bretagna o negli USA.

 

Secondo una statistica dell’UNESCO del 2007 gli iscritti all’università in Italia sono più donne che uomini e così come sono di più le studentesse a giungere alla laurea.

 

Questo dato, che potrebbe sembrare positivo, nasconde un lato oscuro: se vi sono meno uomini che si iscrivono all’università, e meno di essi concludono gli studi, è anche perché per loro è più facile trovare un lavoro. E, se è ritenuto normale che un ragazzo si voglia emancipare dalla propria famiglia e essere economicamente indipendente il prima possibile, lo stesso non si pensa di una ragazza.

 

Inoltre, sempre, secondo i dati dell’UNESCO, se si leggono le percentuali degli iscritti ai dottorati di ricerca si scopre che, questa volta, sono gli uomini la maggioranza, maggioranza che andrà ad aumentare salendo i gradini successivi della carriera accademica: dottorati, ricercatori, professori associati, professori ordinari. Nel 2003, infatti, solo il 15% dei professori ordinari sono donne in Italia.

 

Dando un’occhiata al di fuori del mondo accademico la situazione non è diversa: solo il 3,93% delle posizioni nei CDA sono occupate da donne nel Belpaese (peggio di noi in Europa solo il Portogallo) e le rappresentanti che siedono in parlamento sono un’esigua minoranza rispetto ai loro colleghi maschi.

 

Ma in una nazione dove la maggioranza delle donne non lavorano e, coloro che lo fanno, vengono considerate di livello inferiore e difficilmente raggiungono ruoli di responsabilità, come si può pensare che l’opinione della società nei loro riguardi sia egalitaria e non discriminatoria?

 

Non a caso il CEDAW, il comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne dell’ONU, nel luglio del 2011, ha pubblicato le raccomandazioni rivolte al governo italiano per garantire i diritti delle donne. Secondo le Nazione Unite nel nostro paese continuano a prosperare stereotipi che hanno un impatto fortemente negativo sul ruolo della donna.

 

Molto presente nei media italiani, la donna è, infatti, una figura di quantità, non di qualità: una valletta muta e seminuda, a cui non è richiesta nessuna competenza particolare se non essere bella e giovane. Immagine che già nel 2007 scandalizzò non poco un giornalista del Financial Times che vi dedicò un articolo.

 

E così, mentre otto pubblicità su dieci propongono donne intente a farsi belle o a occuparsi di bambini e pulizie domestiche, i politici, tra una battuta sessista e l’altra, pensano che estendere il part-time al maggior numero di lavoratrici possibile (negando così loro ogni possibilità di carriera) sia l’unica riforma sociale di cui l’Italia necessita. Il fatto di dover conciliare lavoro e famiglia sembra essere un problema della donna a cui uomo, e la società nel suo insieme, resta del tutto estraneo.

 

D’altronde, dato che le viene chiesto solo di essere bellissima mentre passa l’aspirapolvere in tacchi a spillo, cosa sarà mai cambiare anche un pannolino?! Se poi una donna pensa di avere altre aspirazioni nella vita basta ricordarle che il fatto che pensi non è ritenuto essenziale.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Dati statistici Eurostat, 2011.

Dati statistici Istat, studi di genere, 1996 - 2010.

Dati statistici UNESCO, Science Technology and Gender, 2007.

Concluding observations of the Committee on the Elimination of Discrimination against Women, CEDAW, ONU High Commissioner for Human Rights, 2011.

Il corpo delle donne, Lorella Zanardo, Feltrinelli, 2010.

The Global Gender Gap Report, World Economic Forum, 2010

C’è la crisi, licenziate solo le donne, G. Cereda, La Repubblica, 30/06/2011.

Naked ambition, Adrian Michaels, Financial Times, 13/07/2007.



 

 

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