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N. 48 - Dicembre 2011 (LXXIX)

Roma, Parigi, Berlino
storia di un rapporto difficile

di Alessandro Ortis

 

Mai come in queste ultime settimane la crisi economica dei debiti sovrani che contagia tutta l’Europa che sta portando il vecchio continente sull’orlo del baratro, sta provocando un cambiamento degli equilibri politici ed economici. Richiami, lettere, moniti, vertici d’emergenza e «risatine» sembrano essere le espressioni migliori per rappresentarla.

Se in gioco, però, ci sono il futuro e destino dell’Europa, mai come oggi riecheggia sulle pagine dei quotidiani l’espressione asse «franco-tedesco», designando quel rapporto speciale e privilegiato tra le più forti ed importanti potenze economiche europee. L’Italia, la grande accusata dall’Unione Europea per non aver assunti tutti gli impegni per ridurre le proprie precarietà economiche e non aver ridotto le spese di bilancio, in questo scenario sembra assumere il ruolo della nazione che, una volta, era grande, ma oggi non più.


Francia e Germania sono divenuti gli assoluti protagonisti di questa fase storica, in cui l’Unione a ventisette stati sembra ridursi ad un direttorio governato da Berlino e Parigi. Eppure l’Italia, in quel lontano 1957, quando a Roma venne sottoscritto l’omonimo trattato con cui si dava vita alla Comunità Economica Europea e all’Euratom, era una dei sei stati membri, assieme a Germania Ovest, Francia, Lussemburgo, Belgio e Paesi Bassi. Guidati dallo statista Alcide De Gasperi, europeista convinto, ci eravamo guadagnati il rispetto e la possibilità di divenire parte integrante sul futuro assetto dell’Europa, la quale avrebbe dovuto superare quegli ostacoli che l’avevano dilaniata nella prima metà del Novecento.


Certo, siamo una nazione giovane, formatasi solo nel 1861, quando la Francia viveva già la sua Terza Repubblica e la Germania, rappresentata dal Regno di Prussia, era figlia di una storia più che millenaria. Nonostante ciò, l’Italia ha avuto una lunga serie di rapporti d’alleanza strategica sia con i nostri cugini d’oltralpe che con i tedeschi continentali.

Ancora quando Cavour lavorava all’unità politica del paese, la Francia si alleava con il Regno di Sardegna, grazie gli accordi di Plomberies, nel 1853, in chiave anti-austriaca, sostenendo la creazione di un regno d’Italia, non esteso a tutta la penisola e limitato alla regione settentrionale.

 

Nel 1861, e dopo il 1870 con l’annessione di Roma, il neonato regno dovette affrontare, ben presto, l’ostilità di quell’alleato che, solo vent’anni prima, lo aveva sostenuto, divenendone uno dei nemici principali. Prima l’occupazione della Tunisia, nel 1881, con lo «Schiaffo di Tunisi», con cui la Francia si assicurò il controllo del paese arabo, da tempo nelle mire espansionistiche del governo della Sinistra Storica; poi la guerra doganale, la sottoscrizione della Triplice Alleanza con gli imperi centrali di Germania e Austria-Ungheria nel 1882 e, infine, il sostegno francese alla causa dell’imperatore Menelik II del Regno d’Etiopia durante il primo tentativo di invasione dell’ Abissinia.


Nello stesso tempo in cui il giovane Regno d’Italia diventava un fiero nemico della Francia, lo stesso si legava all’impero guglielmino, a quel Secondo Reich che vedrà la sua tragica fine dopo la Prima Guerra Mondiale. Anzi, i trattati bilaterali stipulati con Bismarck negli anni successivi prevedevano proprio la difesa dell’Italia, da parte della Germania, in caso di attacco della Francia ai propri domini coloniali nel Mediterraneo. Contemporaneamente alla Breccia di Porta Pia, nel 1870, prendeva piede la «Guerra franco-prussiana», che portò alla nascita proprio del secondo impero tedesco e la sconfitta piena di quello francese - tanto che la Francia divenne una repubblica -, nonché l’acuirsi delle tensioni tra i due paesi che caratterizzano i loro reciproci rapporti per i decenni a venire, fino al Novecento.


In pieno XX secolo, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’Italia faceva parte ancora, sulla carta, della Triplice Alleanza; dopo meno di un anno, nel 1915, il governo Salandra firmò il Patto di Londra, con il quale si impegnava ad entrare in guerra al fianco di Gran Bretagna e Francia, tradendo i vecchi alleati tedeschi ed austriaci. Di nuovo, allora, i nemici francesi di un tempo tornavano ad essere fieri amici, facendo assumere alla Germania del kaiser Guglielmo il ruolo di acerrimo avversario.


La storia, tuttavia, tende a ripetersi. Bastò che la guerra finisse perché gli amici tornassero a litigare, durante la Conferenza di Pace di Versailles, nel 1919, dove venivano definiti gli assetti della nuova Europa. Il governo di Parigi venne accusato di non aver fatto abbastanza per sostenere le ragioni italiane per l’acquisizione di quei territori, in primis nell’Adriatico, promessi a Londra qualche anno prima.


Roma poi, negli anni Venti diventava la sede del governo Mussolini, espressione di quel fascismo che cercava di risollevare il paese appena uscito dal conflitto. Parigi, invece, assumeva tratti democratici, con il consolidamento di partiti politici a destra come a sinistra.


Il regime totalitario di Mussolini, d’altra parte, avviò un periodo di cosiddetto “buon vicinato” con la Terza Repubblica Francese: il Trattato di Locarno, nel 1935, e la successiva Conferenza di Stresa, segnarono perfino un forte riavvicinamento tra i due paesi, in funzione anti-tedesca, affinché si potessero tenere a bada gli intenti bellici di Hitler. È interessante sottolineare come, per certi versi, Italia e Francia si ammirassero in questo periodo: chi si considerava ostile al regime fascista, trovava rifugio e asilo oltralpe, mentre chi mal sopportava l’idea del forte parlamentarismo a Parigi veniva nel nostro paese ad assaporare una forte dose di totalitarismo, corporativismo e militarismo. Entrambe le nazioni, però, subivano il fascino di Hitler, che qualche anno prima si era presentato sulla scena politica nazionale come uomo forte e capace di spazzare via il fragile e conservatore assetto della Repubblica di Weimar.


Nello stesso 1935, quando i governi italo-francese siglavano gli accordi prima citati, Mussolini diede l’ordine di invadere, di nuovo, l’Etiopia, facendo subito irritare la Società delle Nazioni. La Francia, che era uno stato membro, condannò subito l’invasione, sostenendo in pieno le sanzioni economiche promosse contro il nostro paese.

 

La Germania nazista, dal canto suo, non riconobbe più la Società della Nazioni come organismo autorevole ed in grado di garantire la pace internazionale e sostenne, a piena voce, la causa italiana nel corno d’Africa. Ebbene, mentre soffiavano venti di guerra all’orizzonte, ancora una volta Italia e Germania si riavvicinavano, questa vola sulla strada del totalitarismo, mentre la Francia restava nell’orbita delle democrazie occidentali. Il patto d’acciaio, nel 1939, e la creazione dell’asse Roma-Berlino l’anno seguente, coinvolgendo anche il lontano Impero giapponese, sancirono l’unione tra i due governi e rappresentarono la comune volontà di spingere l’Europa verso un nuovo conflitto, con l’intento di far giocar loro il ruolo di principali protagonisti della politica futura del vecchio continente.


Nel 1943, solo tre anni dopo il proprio ingresso in guerra, il governo del generale Badoglio voltò le spalle all’alleato Hitler e si legò alle sorti degli Alleati, tornando ad essere un amica della Francia guidata, da Londra, dal generale De Gaulle. Sarà proprio quest’ultimo, al termine della guerra, il nostro nemico più avverso, ritenendo l’Italia un paese sconfitto e, pertanto, costretto a subire il trattamento che si meritava. De Gaulle sognava di portare la Francia a controllare quel che restava della Germania nazista, ed assumere così un ruolo forte e determinante nel continente. Poteva e voleva trasformare il proprio paese in una super potenza, in grado di proporsi come legittima protagonista nei nuovi assetti geo-politici in Europa e anche nel mondo. Soltanto gli esiti della Guerra Fredda, in cui Stati Uniti e Unione Sovietica si sfidavano faccia a faccia, dovettero ridimensionarne le aspirazioni del generale e dei suoi successori.

 

Era necessario, infatti, per Parigi portarsi nell’orbita del Regno Unito, sempre più attento a quel che accadeva a Washington, ma, soprattutto, bisognava che creasse amicizie di utilità con i propri vicini, anche se difficili da digerire. Prima di tutto, quindi, si doveva risolvere la questione con l’Italia che, nonostante fosse stata sconfitta, non poteva non essere tenuta in considerazione se si voleva aprire ad uno scenario veramente europeo della politica, in cui la Francia potesse agire come leader. In questo senso, allora, il nostro paese deve ai suoi «cugini d’oltralpe» la partecipazione al progetto europeo, nato con la creazione della CECA, nel 1951 e, due anni prima, l’adesione al Patto Atlantico, che segnò il più alto obiettivo raggiunto da De Gasperi in politica estera.


Non solo Italia, però. Una volta che, nel 1958, tornò al potere, il generale si rese conto che la Francia doveva avere relazioni stabili anche con il vicino tedesco. Archiviato, definitivamente, il sogno di un suo controllo politico ed economico, il governo del generale, come ricorda Sergio Romano, giunse alla conclusione che con Berlino si potevano avere due tipi di rapporti:conflittuale o pacifico. La scelta, influenzata dalla realpolitik necessaria in questa fase storica, portò alla nascita dell’asse «franco-tedesco», tra Charles De Gaulle e Konrad Adenauer. L’Europa, a guida francese e spalleggiata dalla Germania federale, poteva rappresentare davvero un importante interlocutore e mediatore politico nel mondo diviso tra i due blocchi.


La sottoscrizione di questo nuovo patto spostò il baricentro del potere politico europeo verso nord, lasciando Roma e l’Italia in una posizione periferica. D’ora in poi, il nostro paese avrebbe avuto un peso diverso nella future decisioni della Comunità. E così sarà, infatti, fino ai giorni nostri, anche se con alcune eccezioni: i governi democristiani, prima, e socialisti poi, capirono, che il ruolo migliore sarebbe stato quello di mediatore tra le due parti in causa più che di protagonista. Si ricordano, a questo proposito, negli anni Ottanta, le mosse politiche di Bettino Craxi, volte a moderare il rapporto tra il presidente François Mitterand e il cancelliere Helmut Kohl.

Guardando indietro, quindi, si vede come il ruolo che l’Italia ha giocato sul piano europeo sia stato, quasi sempre, a favore del miglior offerente, cercando, con difficoltà e solo grazie a uomini politici di stile e prestigio, di far sentire la sua voce quando ce n’era bisogno. Oggi, invece, molti commentatori economici, politici e diplomatici internazionali ci vedono come un paese fragile, sull’orlo del precipizio a causa della sua politica ballerina degli ultimi decenni. I nostri governanti vengono accusati di essere troppo presi dalle lotte intestinali all’interno dei rispettivi esecutivi e partiti, causando uno stallo dell’ordinario lavoro parlamentare. Tutte cose, queste, che fanno sentire le loro conseguenze sul nostro ruolo decisionale in Europa.


Tuttavia, i protagonisti dell’asse «franco-tedesco» non stanno meglio di noi: la cancelliera Angela Merkel, nonostante il suo ruolo le imponga di cercare una trattativa affinché l’Euro non affondi, è costretta a tenere a bada parte del suo elettorato e di deputati che non ci vedono di buon occhio; e il Presidente Nicolas Sarkozy, in calo vertiginoso nei sondaggi, deve interpretare la parte del “duro” durante i vertici europei per cercare di recuperare consensi in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Anche se sono i leader che oggi guidano il vecchio continente, non sono certi animati, nelle proprie scelte politiche, a difendere l’Euro e un’idea stessa di Europa con la stessa forza di coloro che hanno combattuto perché l’unione si realizzasse.

Sarkozy e Merkel sanno che è in gioco anche il destino delle loro nazioni in questa crisi, e già prevedono che, quando tutto questo finirà, verrà il tempo di chiedere il conto a coloro che sono stati aiutati a sopravvivere. L’asse Parigi-Berlino, che sembra rafforzarsi ed indebolirsi a giorni alterni, magari influenzato dall’andamento della rispettive borse, è senza dubbio indispensabile adesso, soprattutto sul fronte economico; entrambi gli esecutivi, tuttavia, sembrano porre le basi di un Europa che veda loro come i veri maestri delle buon governo e gli unici legittimati a prendere delle decisioni, anche per gli altri. In sostanza, sembrano lavorare alla loro Europa, e non all’Europa dei padri fondatori.


Qual è, allora, il quadro che si evince da tutto questo? L’Italia, che c’era nel lontano 1958, diventa sempre più terra di periferia, dove comandano e dominano la paura, l’irrazionalità e lo scontro, perdendo sempre più il ruolo di legittimo interlocutore ai tavoli decisionali di Bruxelles e Strasburgo e delegando le scelte ad altri.


Una volta era l’asse Parigi-Roma, poi divenuto Roma-Berlino, ed infine Parigi-Berlino. Alla fine, quel che conta è il risultato.



 

 

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