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ANTICA


N. 90 - Giugno 2015 (CXXI)

L'ORRIBILE 69 d.C.
ROMA TOCCA IL FONDO

di Carlo Ciullini

 

Era passato un secolo tondo tondo da quando Cesare Ottaviano, figlio adottivo del grande Giulio poi divinizzato, aveva dato il via, dopo la vittoria di Azio, al gran ballo degli imperatori: una danza vorticosa che, iniziata quel 2 Settembre del 31 avanti Cristo tra le onde dell’Adriatico, si sarebbe protratta fino a un mezzo millennio dopo.

Passati giusto cent’anni da quella battaglia epocale, nel 69 dell’era cristiana, si abbatteva su Roma una delle disgrazie più funeste della sua lunga storia: l’“annus horribilis”, un susseguirsi di eventi sanguinosi e legati alla guerra civile, raccolti in un brevissimo spazio temporale.

Dodici mesi furono sufficienti per riempire i giorni di potere (invero grami) di ben quattro imperatori: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano.

Solo con quest’ultimo, un maturo, ruspante e pragmatico generale d’origine sabina, si pose fine alla cruenta teoria imperiale, dando inizio a quella dinastia flavia che, con i figli Tito e Domiziano, avrebbe governato l’impero per un buon trentennio, rialzando non di poco la media per regno di ciascun imperatore, miseramente crollata nel primo periodo post-neroniano.

Con l’anno 69 si pose fine all’era giulio-claudia, ormai eclissata con la prematura scomparsa di Nerone: e proprio dall’imperatore con la lira partiamo per questo breve ma intenso viaggio temporale, facendoci accompagnare dal racconto di Svetonio nella sua famosa “Vitae Caesarorum”.

Quando Nerone, poco più che trentenne, fu costretto nel 68 dopo Cristo a togliersi la vita per non cadere vivo nelle mani dei suoi sicari già prossimi, il destino del giovane figlio di Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore era in realtà segnato ormai da tempo: fremiti di rivolta anti-imperiale scuotevano già diverse armate sparse lungo i confini dei dominii romani, dalla Spagna alle Gallie.

E proprio dalla penisola iberica partì l’avventura purpurea di Servio Galba, tanto improvvisa quanto fugace.

Otone, il suo successore di lì a poco, aveva probabilmente iniziato a tramare contro di lui sin dai primi giorni di principato della sua futura vittima.

Galba apparteneva alla alta nobiltà, racconta Svetonio, nobiltà che da parte paterna faceva risalire le proprie radici addirittura a Giove.

Diversi furono gli avi che rivestirono la carica di console: tra di essi il padre, avvocato mediocre ma sposatosi con la ricchissima nobildonna Mummia Acaia, madre di Galba junior.

Questi tentò inutilmente, da giovane, la carriera forense, perdendo la moglie Lepida e le figlie ben presto, senza più rifarsi una famiglia.

Salì i vari gradini del “cursus honorum”: pretore, governatore di Aquitania, console, proconsole d’Africa.

Fu durante il suo governatorato nella Spagna Tarragonese che Galba cominciò, da retto e giusto quale all’apparenza inizialmente si mostrava, a evidenziare i primi segni di prevaricazione e crudeltà.

Venuto a sapere che Nerone intendeva eliminarlo, accettò la proposta di Vindice e dei suoi Galli di rovesciare il governo imperiale.

In Spagna Galba cominciò a fortificare le proprie legioni, allestendo un esercito personale col quale mettere in atto la rivolta anti-neroniana: sempre in terra iberica, istituì un Senato formato dai notabili del luogo per rafforzare la sua posizione presso i provinciali.

Quando Vindice, che doveva sostenerlo nella rivolta contro l’imperatore, si suicidò per la sconfitta subita ad opera di Virginio Rufo, un fedelissimo di Nerone, anche Galba meditò di farla finita; ma venuto a sapere che nel frattempo Nerone era morto, abbandonò il titolo di luogotenente di Spagna per assumere quello di Cesare, e marciare così alla testa delle sue truppe verso Roma.

Lo accompagnava, nel suo ingresso trionfale in città, la fama di grande avarizia e di crudeltà.

Tra i suoi primi errori comportamentali, durante la breve permanenza nell’Urbe, ci fu il congedo della guardia germanica da sempre fedelmente legata ai Cesari: la mancanza della sua protezione risultò, poco tempo dopo, fatale per l’improvvido sovrano.

Anche i casi, limitati, di buon governo messi in atto da Galba in quel pugno di settimane furono inficiati dai malversi consigli dei tre cosiddetti “pedagoghi”, gente senza scrupoli: Virno, Laco e Icelio.

Condannò futilmente più volte membri del Senato e dell’ordine equestre, concedendo con riluttanza la cittadinanza latina.

L’avarizia congenita di Servio Galba fu causa prima della sua rovina; già alcuni elementi dell’esercito, in primis ufficiali, sentendosi beffati dalla mancata elargizione di gratificazioni promesse al momento della rivolta contro Nerone, meditavano una dura vendetta nei confronti del fedifrago.

Sopratutto le legioni della Germania Superior, alle quali era stato promesso un premio, poi disatteso, per il loro intervento vittorioso contro l’irrequieto Vindice, erano in ebollizione: esse avrebbero, a Capodanno del 69, giurato non per l’imperatore ma solo per il Senato di Roma, e avvisarono anche i pretoriani a Roma che avrebbero scelto al posto di Galba un altro imperatore ben accetto a tutte le armate.

Galba, ritenendo a torto che buona parte dell’ostilità soldatesca fosse dovuta al fatto che, già anziano, egli non avesse ancora indicato un erede, scelse all’uopo tra i giovani nobili Pisone, e lo mostrò con tutti i crismi alla assemblea dei soldati.

Ma oramai questi, istigati da Salvio Otone, il prefetto del pretorio, erano ben decisi a cambiare le carte in tavola.

Omettiamo qui l’elenco dei vari presagi stilato da Svetonio nel suo racconto, presagi che indicavano agli occhi attenti dei Romani, esperti in omina, vaticinii e così via, come la fine del regno di Galba fosse ormai prossima in modo evidente.

Questi, completamente abbandonato dai suoi, fu velocemente eliminato da cavalieri presso il lago di Curzio, nel Foro: a sessantatre anni lasciava il trono imperiale, al solo settimo mese di governo.

 La sua testa fu esposta, infilzata in una picca, nell’accampamento di Otone che ne prese prontamente il posto, ignaro di un futuro purpureo ancor più scarno di quello dello sfortunato predecessore: era il Gennaio del 69 dopo Cristo.

La famiglia di Otone, di nobili radice etrusche, era originaria di Ferentino.

Il padre, Lucio, ebbe ottimi rapporti con l’imperatore Tiberio, e la somiglianza fisica tra i due portò anche a farli ritenere, da parte di alcuni, padre e figlio.

Arrivò per lui il prestigioso titolo di proconsole d’Africa, meritando per il suo buon governo il rispetto di tutti.

Lo stesso Claudio, in seguito, lo additò quale esempio insuperato di virtù.

Il giovane Otone, dunque, non avrebbe potuto godere di crediti migliori: tuttavia, la sua giovanile natura scapestrata fu ben presto manifesta, e fu forse grazie a ciò che riuscì a entrare, ben accetto, alla corte di Nerone.

Ad ogni modo, l’invaghimento nei confronti della stessa donna, Poppea Sabina, da parte di Nerone e di Otone, portò l’imperatore ad allontanare l’amico-rivale da Roma, e spedirlo nella lontana Lusitania perché la governasse.

I dieci anni trascorsi in riva all’Atlantico sembrarono redimere e tonificare Otone, tanto da farlo in seguito ricordare positivamente per la sua eccellente amministrazione.

Salito al potere Galba, Otone iniziò nascostamente una lenta e sottile quanto efficace opera di proselitismo delle guardie dell’imperatore, attirandosene sempre più la simpatia grazie a corpose regalìe.

Questa pratica dissimulata, di lì a poco, avrebbe fatto comodo: Galba infatti, presentando Pisone come erede al trono, tarpava le ali alle speranze otoniane d’essere associato al potere.

Attingendo così alle sue ultime risorse (perché ormai enormemente indebitato dalle ricche elargizioni ai soldati) pagò profumatamente alcune decine di soldati della guardia imperiale affinché lo sostenessero nella eliminazione fisica di Galba e del suo rampollo: ciò che avvenne.

Le prime parole che Otone, proclamato imperatore, proferì -continua Svetonio- indicano chiaramente come, in quel terribile 69 dopo Cristo, lo scettro del comando fosse a completa disposizione di chi, al netto delle proprie capacità, fosse stato comunque in grado di donare ai pretoriani e alla truppa le cifre più alte, per essere sostenuto nell’ascesa al potere.

Otone, infatti, giurò che avrebbe tenuto per sé soltanto quello che i milites gli avessero voluto lasciare...La carica più prestigiosa del mondo antico, l’impero di Roma, era ormai tristemente oggetto di crudo mercimonio.

Il pugno di mesi durante i quali Otone governò, si mostrano inconsistenti perché possa esserne espresso un giudizio esauriente: un aspetto positivo da evidenziare consiste, tuttavia, nel completamento promosso dal neo-imperatore della Domus aurea.

Ma già altri occhi si volgevano, pieni di brama, a Roma: le armate germaniche di Vitellio andavano sostenendo che solo il loro comandante fosse degno erede dei Cesari.

I tentativi, da parte di uno spaventato Otone, di propiziarsi il rivale proponendogli di divenirne genero e di associarlo all’impero caddero nel vuoto: non c’era, a questo punto, che da attendere i giorni fatali.

Otone e il suo fedele esercito (ben imbonito dalle passate elargizioni) si scontrò con i vitelliani prima presso Piacenza, riportando un modesto successo, e poi a Bedriaco, vicino a Cremona, dove fur invece severamente sconfitto: il suo destino era irrimediabilmente segnato.

Nelle pagine delle “Vite dei Cesari” Svetonio assume una disposizione conciliante nei confronti del vinto, lodandone il gesto estremo che lo portò al suicidio e sottolineando la nobiltà d’animo mostrata nelle ore della sventura.

Lo scrittore, infatti, evidenzia come lo stesso Otone, nonostante il rovescio di Bedriaco, avesse in realtà serbata ancora intatta buona parte delle proprie forze militari, e come copiosi rinforzi stessero sopraggiungendo in suo soccorso da varie province.

Tuttavia l’imperatore, aborrendo una guerra civile, avrebbe deciso, uscendo volontariamente di scena, di porre fine a uno spargimento di sangue romano.

Per Svetonio, in definitiva Otone preferì auto-eliminarsi per stornare da Roma una catastrofe ancor più grande della propria morte, per quanto egli ricoprisse la suprema delle cariche.

La fine eroica cui Otone incorse, cedendo il passo a Vitellio, lavò così in parte le non rare efferatezze compiute in vita.

Morì a soli trentotto anni, dopo la miseria di tre mesi (dal Gennaio ad Aprile) di potere imperiale.

Svetonio, nel dipingere la figura di Vitellio, chiarisce subito un aspetto fondamentale dal punto di vista storiografico: dei personaggi storici che in vario modo hanno attraversato i secoli, possono essere descritti aspetti ora positivi ora negativi, a seconda del favore incontrato, oppure no, presso gli storici preposti alla narrazione.

Per questo, sottolinea Svetonio, accanto a chi afferma la nobiltà della famiglia dei Vitellii, famiglia signora del Lazio degli albori (discendente dal re degli Aborigeni Fauno e da Vitellia, donna semi-divina), c’è anche chi sostiene con certezza l’origine della gens vitellia da un ciabattino e una prostituta.

Quale che fosse, illustre od oscura, la vera radice familiare del nuovo inquilino delle stanze palatine, certo è che il padre di questi, Lucio, fu validissimo uomo politico: governatore in Siria e fedelissimo di Claudio (ma, pare, anche di Messalina...) si unì in matrimonio con la nobildonna d’alto lignaggio Sestilia, dalla quale nacque il futuro imperatore.

 Attraverso relazioni non sempre eticamente irreprensibili il giovane Vitellio riuscì a farsi largo e ben volere alla corte di Tiberio prima, poi di Caligola, di Claudio e infine di Nerone: davvero un uomo per tutte le stagioni, dunque.

Fu, dal punto di vista del personale “cursus honorum”, intendente ai lavori pubblici e proconsole in Africa, alternando buon governo e malaffare.

Ebbe più mogli (Petronia, Galeria) che gli diedero figli anche poco fortunati: chi semicieco, chi balbuziente.

Inviato da Galba sul Reno a comandare le armate della Germania Inferior, fu subito oggetto di simpatia da parte dei suoi nuovi soldati, soldati che seppe abilmente ingraziarsi: un mese fu sufficiente perché venisse portato in trionfo dalle truppe e acclamato imperator.

Dopo la Germania settentrionale, anche la Superior lo riconobbe come legittimo princeps: ormai contro Galba la rivolta montava in modo dilagante.

 Tra i primi epiteti celebrativi conferitigli dall’esercito festante, accettò di buon grado quello di Germanicus, rifiutando tuttavia l’appellativo di Caesar, e rimandando l’adozione di quello di Augustus.

Venuto a conoscenza dell’eliminazione di Galba da parte di Otone, si predispose a deporre il neo-imperatore onde sostituirlo prontamente: a tal scopo, dopo aver divise le forze legionarie di Germania in due grandi armate, subito ne inviò una perché si scontrasse con Otone, riproponendosi di sopraggiungere poi con la seconda.

La notizia della decisiva sconfitta otoniana a Bedriaco raggiunse Vitellio quando era ancora in Gallia.

Il viaggio di Vitellio verso Roma, per farvisi incoronare, fu un corollario di comportamenti e azioni disdicevoli perpetrati dal generale e dalle sue truppe, smodatamente abbandonatesi all’indisciplina più bieca.

L’entrata stessa in Roma dell’esercito vitelliano ad armi sguainate, contro ogni usanza atavica che, da secoli, impediva tale circostanza, sembrò fin da subito macchiare indelebilmente il potere assunto dal nuovo arrivato.

A ciò si aggiungevano i congeniti difetti dell’imperatore, vizi che Svetonio ci descrive compiutamente (facendo di questo argomento uno dei punti fermi del suo excursus narrativo): Vitellio, crapulone indefesso, era in grado di gozzovigliare con una resistenza gastrica fuori dalla norma.

E non minore era la sua crudeltà, con l’impietosa esecuzione di chiunque non fosse di suo gradimento.

Ad ogni buon conto, gli avvenimenti avevano ormai preso una piega del tutto contraria al tiranno: dalla Mesia alla Pannonia, dalla Siria alla Giudea, le legioni defezionavano a favore di Vespasiano.

 L’imperatore in pericolo contrattò così con Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, la salvezza e la buonuscita, dichiarandosi disposto ad abdicare; ma poi, incoraggiato a resistere dalle truppe rimastegli fedeli e con le quali aveva battuto Otone, attaccò sul Campidoglio i partigiani del suo rivale lì asserragliati, sterminandone gran parte: nell’incendio abominevole del tempio di Giove Massimo Ottimo perì Flavio, mentre a stento si salvò Domiziano, il secondogenito di Vespasiano.

Pentitosi dell’accaduto, e mostrandosi pubblicamente in miseri stracci, Vitellio cercò allora commiserazione.

Più misera della sua veste ne fu la fine: nascostosi in una guardiola per portiere al sopraggiungere dell’esercito dei rivoltosi, abbandonato da tutti, una volta scoperto e dopo esser stato ricoperto di percosse e improperi venne giustiziato e gettato nel Tevere.

Morì a cinquantasette anni, dopo aver ricoperto la carica per soli otto mesi, fino a metà Dicembre di quell’orribile anno.

Vespasiano, il vincitore, prese possesso di Roma negli ultimi giorni del 69: solo per questo ne facciamo menzione, come di colui che addentò l’ultima fetta temporale della torta avvelenata che fu quel breve, quanto epocale, lasso di tempo.

Ma proprio con Vespasiano (che, salito al trono, si inghiottì le ultime ore di quel periodo amarissimo per Roma) iniziò un’età aurea, la flavia, età durata stabilmente quasi un trentennio, e della quale i primi due decenni (Vespasiano stesso, poi i figli Tito e Domiziano) furono luminosi e disintossicanti.

Solo l’ultimo periodo domizianeo, improntato a una frustrante tirannia, parve rievocare gli spettri funesti degli anni di Nerone e dei tre effimeri imperatori che lo seguirono.

Tre imperatori in meno di dodici mesi: troppi, e sicuramente poco buoni.



 

 

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