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N. 59 - Novembre 2012 (XC)

LA RIVOLTA DELL’ORGOGLIO
nuove strategie contro la scuola pubblica

di Giuseppe Tramontana

 

È arrivato il momento di gridarlo: sono un insegnante! Sì, sono un insegnate e me ne vanto. Non avrei voluto cominciare così un articolo, ma credo sia necessario. Se non altro, per far subito capire che io sono orgoglioso di quello che sono e di quello che ho scelto di essere. Fino al luglio 2007, sono stato un funzionario regionale. Ero rispettato, riverito, trattato con i guanti gialli. Sindaci, sindacalisti, direttori di ULSS, presidenti di associazioni e cooperative sociali, dirigenti regionali ed esponenti politici mi telefonavano e mi davano, oltre che del lei, anche del dottore. A Natale mi facevano arrivare i pacchi-dono in ufficio, qualcuno si prendeva la briga di farmi recapitare a casa cartoline di “felici auguri a Lei ed alla Sua famiglia”. Ero un funzionario, io.

 

Vagliavo progetti, presiedevo riunioni, coordinavo, telefonavo, prendevo contatti, redigevo delibere e decreti, fornivo pareri legali, mi assumevo le responsabilità amministrative che mi spettavano, facevo iscrizioni e cancellazioni nei e dai registri regionali e, soprattutto, distribuivo denari, schei, come si dice qui in Veneto. Insomma, mi sentivo considerato e rispettato, appunto. Probabilmente perché il mio lavoro veniva visto in stretta connessione con l’ultima delle attività sopra citate: assegnare e liquidare quattrini. Poi ho fatto un’altra scelta.

 

Nel luglio del 2007, appunto, mi hanno chiamato dal Provveditorato (poi Centro dei servizi Amministrativi e oggi Ufficio Scolastico Provinciale: ed il fatto che si cambi così spesso nome non è indice né di stabilità né di chiarezza di idee né, tanto meno, di grande considerazione da parte dello Stato per questo ramo della sua stessa amministrazione) ed ho optato per la scuola, per un altro mondo. Un mondo nel quale volevo entrare da una vita. Questa speranza aveva trovato terreno fertile nella mia sete di conoscere, di sapere, di prepararmi in vista della fatidica chiamata.

 

E, finalmente, dopo 6 anni e mezzo, dopo altre tre lauree, dopo corsi, aggiornamenti, conferenze, qualche migliaio di libri letti ed una miriade di appunti stravaganti, finalmente – dicevo – mi hanno chiamato. Ero felice. Mai avevo fatto mistero di voler tornare a scuola e mai – immaginavo - mi sarei pentito della mia scelta. Ogni libro letto, in quei sei anni e mezzo, ogni approfondimento condotto, ogni argomento affrontato, era sempre destinato – come un frutto bello e prezioso – ai miei studenti. O meglio, ai miei potenziali e futuri studenti. Che tuttavia io non conoscevo. Eppure sapevo, - ne ero certo - che quanto facevo in termini di studio, di preparazione, di addestramento culturale era tutto per loro, per aiutarli a crescere, a pensare, a diventare uomini e donne consapevoli e protagonisti del proprio destino. Perché io, adesso che li ho, voglio bene ai miei studenti.

 

E mi sta enormemente a cuore il loro destino. Lo dico senza melliflue sottigliezze o stereotipate frasette di circostanza: a me, i miei ragazzi piacciono. E, come a me, anche alla stragrande maggioranza dei miei colleghi. Perché se non ti piacciono i ragazzi, questo mestiere non puoi proprio farlo. Se non ti piace il loro odore, il modo in cui parlano, si vestono, si pettinano, scrivono gli sms, questo mestiere non puoi sopportarlo.

 

Se non ti garbano i loro jeans sgualciti, le vite basse, le creste e gli orecchini dalle forme improponibili o dai colori sgargianti, i piercing e i tatuaggi, se ti fanno schifo gli elastici delle mutande che occhieggiano da sotto i pantaloni, le calze rotte e le scarpe di ginnastica con i lacci di due colori diversi, se ti è ributtante quello che dicono e come lo dicono, quello che sgranocchiavo e ingollano, se tutto questo non ti va, tu non sei tagliato per fare l’insegnante. E non devi farlo! Per questo, io , mi considero fortunato.

 

E mi piace fare ciò che faccio, mi piace farlo assieme a persone – i colleghi – che la pensano su per giù come me e per persone – i ragazzi – che, nonostante tutto (dalle interrogazioni ai voti: sempre troppo frequenti, le prime; sempre troppo bassi, i secondi), apprezzano il lavoro che svolgo. Ma, la mia soddisfazione, poi cozza contro un ‘muro sociale’. Infatti, complice una propaganda ed un pensiero imperante nefasti, gli insegnanti, almeno in Italia, sono diventati il bersaglio preferito di ogni insulto, di ogni contumelia. Nessuno si sognerebbe di suggerire ad un ingegnere come sviluppare un progetto o ad un avvocato come impostare la difesa di una causa. Eppure, con gli insegnati, tutti (genitori per primi e politici per secondi, ma a ruota), tutti si possono promettere di mettere il becco nel loro lavoro.

 

E lo fanno con l’inconfessato e inconfessabile convincimento che, in fondo, quello degli insegnanti è un lavoro solo per modo di dire: è più che altro un ‘rapporto’ con i ragazzi, un po’ come quello degli intrattenitori, degli istrioni o dei cabarettisti. E, naturalmente, tutti possono criticare e pretendere, in maniera più o meno arrogante, di poter far meglio, in forza del fatto che, in verità, spesso gli insegnati non vengono visti come dei professionisti o, almeno, dei professionisti seri. Questo ci porta a due considerazioni che, benché separate, sono strettamente intrecciate. La prima. Perché la maggioranza della gente pensa che, in fondo, gli insegnanti siano dei professionisti di serie B? Be’, in primis, per una questione, come direbbe il filosofo, di ‘pensiero dominante’ della nostra epoca. Un mestiere strettamente connesso alla conoscenza, alla conoscenza pura, a quella conoscenza che, come diceva Thomas Mann, ha simpatia per l’abisso, anzi è l’abisso, non serve nella vita pratica.

 

Se si potesse diventare avvocati, medici, ingegneri, psicologi, fisici, chimici o informatici senza aver frequentato un giorno di scuola – come nel racconto di Leonardo Sciascia, La laurea - tutti sarebbero pronti a cogliere l’occasione. L’importante è la meta, non il percorso. L’importante è il pezzo di carta (raggiungibile in qualsiasi modo), il pezzo di carta che potrebbe consentirti, se non un lavoro, almeno una possibilità di distinzione o una dazione di senso per gli anni trascorsi a scuola: una sorta di risarcimento tardivo (“almeno gli/le resta qualcosa”). L’importante è la testimonianza formale, non che essa sia l’attestazione di una percorso di arricchimento culturale. Ma la domanda, come diceva il conduttore televisivo, sorge spontanea: perché? Perché la gente pensa questo? Si potrebbe rispondere facilmente che si tratta del pensiero dominante della nostra epoca, appunto. Un pensiero dominante nel contempo legittimato, favorito, plasmato e di cui, per certi versi, sono recettivi, oltre che la società, il mondo politico. E così siamo al secondo punto, evidentemente connesso al primo.

 

Ossia a quella brama di livida delegittimazione, se non addirittura di denigrazione, nei confronti di questi miserabili insegnanti. I quali, a parte, sorvegliare ed intrattenere i ragazzi, a cosa servono? A cosa servono quelle inutili nozioni che si sforzano di trasmettere (o inculcare, nel caso deteriore) alle giovani menti ad essi affidate? Questi insegnanti – è risaputo - lavorano poco e niente, hanno tre mesi di ferie in estate, si sollazzano con le vacanze di Natale, Pasqua, Capodanno, Befana, Tutti i Santi, Immacolata e poi i ponti, controponti, sovrapponti e sottoponti che manco Venezia o Los Angeles!, lavorano solo se gli va, non pensano che a gite e viaggi di cosiddetta istruzione (“sai che istruzione: si fanno i giri turistici gratis!

 

Gratis per loro, perché in realtà paga sempre pantalone: le famiglie!”), si divertono e arrotondano con i progetti (“ma che progetto è il giornalino dove si scrivono solo schifezze o il teatro che mette in ‘ste scena ‘ste cose vecchie come Shakespeare o l’altro smarmittato di Pirandello… o persino l’Odissea in versione comica: guarda un po’ te!) e, per di più, mettono si accaniscono sui ragazzi che, poverini, non studiano perché è l’insegnate che li fa annoiare. Insomma, che vogliono? E, soprattutto, a che servono veramente?

 

A che servono, quando la tv e internet, Superquark, MTV, La storia siamo noi, Sereno Variabile, La Gaia scienza, Voyager, Missione Natura, SOS Tata, L'Eredità, Wikipedia, Wikiquote, Cronologia.it o altro ancora possono fornire tranquillamente le stesse nozioni, anzi lo stesso sapere: perché, per costoro, quello passato da tivvù e internet è il sapere, il sapere moderno e, in quanto tale, istantaneamente fruibile e consumabile: come il tè in bottiglia!


E così succede che questa mentalità imperante trovi sponda nel campo politico, molto sensibile (le elezioni, i consensi e tutto il resto) a certi belluini richiami. Così è successo che, poiché la Lega non voleva gli insegnanti meridionali al Nord, una ministra abbia deciso di bloccare i passaggi, all’interno delle relative graduatorie disciplinari, tra le diverse regioni d’Italia. Conseguenza? In alcune zone ci sono cattedre in esubero (es. Storia dell’Arte in Campania) e in altre le stesse cattedre sono scoperte (es. la stessa Storia dell’Arte in alcune regioni del Nord).

 

O, ancora, da un lato, ci si lamenta che i ragazzi, in quinta liceo, non studiano il programma di storia più vicino a noi, continuando a non sapere nulla della caduta del Muro o di Tangentopoli, delle stragi del ’92 o dell’11 settembre, e, dall’altra, si taglia, nella stessa quinta, un’ora di storia per rimpinguare con un’ora in più di filosofia l’orario di terza! Ma non basta. Il nuovo ministro Profumo ha inserito, nella legge di stabilità, l’articolo che prefigura un innalzamento delle ore di lezione per i docenti: 24 anziché le attuali 18. Tale norma, poiché portando a 24 le ore dei docenti permetterebbe di affidare agli stessi gli eventuali ‘spezzoni’ di cattedra rimanenti dopo l’assegnazione delle cattedre’piene’ (spezzoni che, oggi, per la maggior parte vengono affidati a precari o a docenti che altrimenti non hanno cattedre complete), più che colpire i titolari, colpiscono gli stessi supplenti e precari, che non verranno più chiamati. Ora, mentre la Commissione Bilancio della Camera pare abbia bocciato – dietro emendamento del PD - tale scelta, molti problemi restano.

 

Tra battute sulla noia del posto fisso e sulle scelte choosy dei giovani, uscite poco felici sulla sfiga dei trentenni non ancora laureati (che fanno il paio con quelle di gelminiana memoria sui giovani manipolati dai comunisti in occasione delle manifestazioni studentesche), alla fine, quando c’è da pagare, paga sempre la scuola. E spesso con la scusa che “è l’Europa che ce lo chiede”. Non solo. Anche dopo le proteste, Profumo non ha mostrato nessun segno di ripensamento sul contenuto della norma.

 

Anzi, ha difeso la sua scelta parlando di allineamento agli altri paesi occidentali (ecco di nuovo l’Europa!), glissando però sul fatto che, solitamente, negli altri paesi occidentali: 1) i contratti stipulati tra Pubblica Amministrazione e rappresentanze sindacali si rispettano e non vengono modificati unilateralmente; 2) i docenti guadagnano quasi il doppio di quelli italiani.

 

In realtà, l’unico, vero motivo per cui, almeno temporaneamente, il progetto verrà accantonato è perché siamo in periodo preelettorale. Dopo, statene certi, si ritornerà alla carica. Ma il ministro ha comunque colto l’occasione per bacchettare gli insegnanti, colpevoli di intendere la didattica solo come lezione frontale. E detto da uno che, all’Università di Torino, ha insegnato la disciplina di Convertitori, Macchine ed Azionamenti Elettrici, materia in cui, immaginiamo, sembrano indispensabili la capacità relazionale, la creatività didattica e la fascinazione oratoria, c’è da far tesoro di simili, rimproveri!

 

Ecco per quale motivo i docenti restano diffidenti e, un po’ in tutt’Italia, si stanno comunque mobilitando, dando corpo a varie forme di lotta: dalla cosiddetta ‘didattica essenziale’, cioè leggere i libri e i manuali senza il corredo di spiegazioni, alla cancellazione dei progetti e delle iniziative extracurricolari, fino alla rinuncia a gite e viaggi di istruzione, cosa che, se attuata su larga scala, colpirebbe parecchi operatori, dalle agenzie di viaggio alle società di pullman, dalle guide turistiche agli albergatori, dalle compagnie aeree alle FS.


Ma un altro motivo fa storcere il naso. Un motivo che sembra trovare ratio e fondamento proprio nella questione delle 24 ore. Di cosa si tratta? Una recente circolare ministeriale, la numero 89 del 18 ottobre 2012, consente di valutare gli apprendimenti con voto unico, senza distinzione tra scritto e orale, già nel primo periodo dell’anno scolastico.

 

Un cambiamento di strategia singolare – e inspiegabile – ove si consideri che solo pochi mesi fa lo stesso Ministero si era pronunciato per la doppia valutazione anche in quelle discipline, come educazione fisica, da sempre collegate al voto unico. Cosa succede? Succede che non appare capzioso il ragionamento che vede in questa circolare il primo passo per far lavorare meno i docenti nel pomeriggio, a casa, ma chiedendo nel contempo e in compenso una maggiore presenza mattutina a scuola. Ecco allora un altro motivo per non fidarsi.

 

A ciò, poi, possiamo aggiungere ancora un paio di previsioni che rappresentano, nei fatti, il progetto per la definitiva (ma al peggio non c’è mai fine, invero) dismissione della scuola pubblica. La prima di queste illuminate riforme concerne gli organi collegiali (ex legge Aprea), la seconda l’estensione dei test Invalsi (Istituto di valutazione del sistema di istruzione) anche all’esame di Stato. Con la prima novità, le scuole, divenute fondazioni, saranno finanziate e dirette da privati.

 

Ciò comporterà che l’unitarietà del sistema di formazione lascerà il posto all’autonomia statutaria dei singoli istituti, i quali, in base al loro appeal – spesso connesso alla loro capacità di adattarsi per far cassetta, mantenendosi ossequiosi, tranquilli e ligi ai voleri del privato investitore -, si distingueranno in istituti di serie A e di serie B. Inoltre, con l’introduzione dei test Invalsi, i docenti saranno costretti a modificare la didattica in funzione di prove che funzionano solo se misurano le conoscenze di base e la richiesta di sapere si abbasserà ulteriormente. Alla faccia del sapere critico e dello stimolo agli approfondimenti, alla curiosità intellettuale ed ai collegamenti multi o pluridisciplinari. La scuola, in questo modo, si limiterà a registrare e confermare le differenze sociali. E così seppelliamo definitivamente anche Don Milani!


Quindi, come spero di aver dimostrato, il problema non sono le 24 ore in sé. L’anno scorso ho avuto un orario di 22 ore. Non è stato un dramma. Stare in classe per 22 ore settimanali non è una tragedia, soprattutto per gente, come buona parte degli insegnanti italiani, che ha scelto questo lavoro e che ama stare insieme ai ragazzi, apprezzandoli per ciò che adesso sono e scommettendo su ciò che domani riusciranno ad essere.

 

Senza nemmeno tirar fuori gli argomenti sul tempo che già oggi si impiega per correggere i compiti a casa e per preparare le lezioni, per i partecipare a collegi e consigli, a dipartimenti e riunioni, per garantire sportelli e consulenze, progetti e ricevimenti dei genitori. Il problema, dunque, non è quantitativo, ma qualitativo. Ci sarà sempre meno tempo per aggiornarsi e scegliere le letture adatte, per scaricare novità da internet e fotocopiare testi, preparare esercizi e sperimentare nuovi metodi di insegnamento, ci sarà meno tempo per studiare. E per calibrare interventi mirati a beneficio degli studenti in difficoltà. Insomma, verremo soffocati dalla mancanza di tempo necessario ad assicurare un’accettabile qualità dell’insegnamento.


Ogni giorno, quasi tutti gli insegnanti italiani, con grande senso di responsabilità e dispendio di energie, incuranti di un’opinione pubblica sempre più invelenita, escono di casa per svolgere al meglio il proprio lavoro. Avendo per le mani, paradossalmente, ciò che di più caro, prezioso e delicato quella stessa società possiede: i suoi figli, il suo futuro. Noi siamo quelli che cercano di spingere i ragazzi a pensare con la propria testa, lottando contro l’insulso Moloch della superficialità televisiva o informatica.

 

Noi insegniamo la democrazia, il dialogo, il rispetto per le opinioni altrui, ma anche la coerenza nei comportamenti, l’onestà, insegniamo valori come il coraggio delle scelte, anche se dolorose o laceranti, e il gusto agrodolce della responsabilità, indichiamo la strada della passione e del sentimento, ma senza scartare né le prerogative della ragione né le sollecitazioni del sogno.

 

Insegniamo a capire chi siamo e quale sia la nostra storia e come da ogni storia nasca un futuro e come il nostro futuro sia nelle loro mani e nelle loro menti, nei loro desideri e nelle loro volontà. Noi insegniamo ad essere uomini e donne. E che poi, questi uomini e donne diventino farmacisti o veterinari, ingegneri o architetti a noi farà solo piacere. La cultura, caro Ministro, non è mai stata solo nozionismo, per noi. Se le nozioni vengono offerte è solo per non ricadere nella vuota chiacchiera che svapora, nel gossip salottiero.

 

Queste nozioni sono i puntelli, le fondamenta e lo scheletro di quella organizzazione, di quella disciplina del proprio io interiore che possiamo chiamare cultura. E spesso, in Italia, questa cultura è stata salvaguardata e garantita da un esercito di precari che si è dedicato anima e corpo ad una missione impossibile, nella speranza, un giorno di essere assunta. E, quindi, non fa un onore a nessuno – e soprattutto a chi l’ha pensato – indire un concorsone che mette fuori gioco molti di questi onesti lavoratori, magari sostituiti da una massa di nuovi arrivati che mai ha visto un’aula scolastica, mai si è rapportata con un programma, un piano di lavoro o una problematica adolescenziale, ma, che in compenso, ha saputo compilare correttamente – magari assistita da un po’ di fortuna – le domande del quizzone.


Caro Ministro, la cultura, come ricorda Gramsci (e sempre che queste cose ancora ci interessino) “è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri”. Ed è anche per questo che, adesso, siamo sul piede di guerra. E, volendo, anche questa protesta – se esploderà - assumerà i crismi di atto pedagogico, da passare agli studenti. E sarà una protesta giusta. In particolare, quando si alza la voce contro ministri e governi che, al solo udire la parola Cultura, mettono subito mano... a una norma assassina.



 

 

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