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ANTICA


N. 47 - Novembre 2011 (LXXVIII)

Ritratto di Annibale
Ab Urbe Condita, XXI 1-4

di Paola Scollo

 

Annibale è il protagonista indiscusso della seconda guerra punica. Un comandante geniale, uno stratega in grado di tenere testa alle forze romane per diciassette anni. Nel 221 a.C., a soli venticinque anni, è al comando dell’esercito cartaginese. Il suo successo è senz’altro legato alla forza della cavalleria, agile e veloce, sempre pronta ad attaccare e ad accerchiare il nemico. Di Annibale, il nemico più temibile di Roma, Tito Livio delinea, nel XXI libro dell’Ab Urbe Condita, un ritratto eccezionale. D’altra parte, come lo stesso Livio specifica, nel comandante cartaginese si annidano tutti i tratti di una personalità davvero eccezionale, straordinaria: intelligente e scaltro, audace, impavido di fronte ai pericoli, abile tessitore di agguati, esperto nell’arte dell’inganno, eccellente sia nella virtù sia nel vizio, infaticabile e onnipresente stratega, comandante e soldato in mezzo ai suoi soldati.

 

Annibale appartiene alla famiglia dei Barca che, dopo la prima guerra punica, prende il sopravvento a Cartagine. Il padre Amilcare è difensore di una politica volta a ripristinare il dominio cartaginese sul mare. I sostenitori dei Barca intendono quindi estendere il primato di Cartagine in Spagna, territorio ricco di metalli pregiati, quindi riprendere il conflitto con Roma. Sul versante politico opposto, gli optimates, guidati da Annone, auspicano il mantenimento di rapporti pacifici con Roma, propugnando, piuttosto, una politica di espansione nei territori dell’entroterra africano.

 

Nell’immagine di Livio, Annibale è un predestinato: all’età di nove anni, prega il padre di condurlo in Spagna. E, a tal proposito, Livio riferisce che Amilcare, sul punto di far passare l’esercito in Spagna, «mentre faceva sacrifici, fatto avvicinare Annibale agli altari e toccati gli oggetti sacri, gli impose di giurare che, appena gli fosse possibile, sarebbe divenuto nemico (hostis) del popolo romano» (XXI 1). Per cinque anni in Africa e per nove anni in Spagna, Amilcare si impegna in primo piano a estendere il dominio cartaginese, comportandosi come se «nel suo animo progettasse di condurre una guerra ben più grande di quella che stava combattendo».

 

E, stando a Livio, «se Amilcare fosse vissuto più a lungo, i Cartaginesi avrebbero portato la guerra in Italia sotto il suo comando» (XXI 2). Tuttavia, la morte improvvisa di Amilcare, «avvenuta in un momento molto opportuno ai Romani», e la giovane età di Annibale «differirono la guerra». Poco prima di morire, Amilcare indica come successore il genero Asdrubale che, infatti, detiene il potere per circa otto anni. E proprio durante il regno di Asdrubale, nel 226 a.C. il popolo romano stringe un accordo con Cartagine, «in virtù del quale il confine fra i due imperi doveva essere il fiume Ebro» (XXI 2). Il trattato prevedeva poi il rispetto della libertà della città di Sagunto, situata proprio in mezzo alle zone di influenza dei due popoli. Pur impegnandosi a non avanzare al di là dell’Ebro, il senato di Roma firma un trattato di alleanza con Sagunto, assumendone la difesa.

 

Un atto che per i Cartaginesi si configura come una vera e propria provocazione. Una provocazione che, una volta salito al potere, Annibale non intende lasciare impunita. Infatti, stando al racconto di Livio, «come successore di Asdrubale, fu subito portato al pretorio il giovane Annibale, acclamato generale con alte grida e con il consenso di tutti» (XXI 3). All’epoca Annibale ha appena ventisei anni, diciassette dei quali trascorsi in campo. Proprio questa esperienza diretta fa di lui uno dei più grandi condottieri dell’antichità. La scelta di inviare Annibale in Spagna, come successore di Asdrubale, è osteggiata da Annone, leader degli aristocratici (optimates), il quale sostiene la necessità che il giovane sia «trattenuto in patria sotto l’autorità delle leggi e dei magistrati, imparando a vivere con gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini, affinché un giorno questa piccola scintilla non susciti un grande incendio (ne quandoque parvus hic ignis incendium ingens exsuscitet)». Livio riferisce di una discussione in senato, quindi commenta: «Pochi e, generalmente, tutti i migliori furono del parere di Annone; ma, come il più delle volte accade, su di essi prevalse la maggioranza» (XXI 4).

 

Annibale viene dunque acclamato imperator. Ed è proprio nel narrare le prime imprese di Annibale che Livio tratteggia il memorabile ritratto del giovane comandante (XXI 4): «Mandato in Spagna, al suo primo giungere, attrasse le simpatie di tutto l’esercito; i veterani credevano che fosse stato loro restituito Amilcare giovane, scorgendo in lui la stessa energia del volto e la stessa fierezza negli occhi, nella fisionomia e nei lineamenti del viso». L’immagine di Asdrubale è ancora viva: è riflessa nella penetrazione dello sguardo, nell’espressione e nei lineamenti del figlio. Tuttavia, come spiega lo stesso Livio, Annibale riesce ben presto a far dimenticare qualsiasi motivo di confronto: «Dopo breve tempo, accadde che l’immagine del padre che era in lui divenne la causa meno importante perché egli si conciliasse il favore dei soldati». Il giovane rivela, in breve tempo, tali e tante qualità personali che la sua somiglianza con il padre diviene elemento secondario nella stima da parte dei soldati. In altre parole, riesce a liberarsi del fardello dell’eredità paterna e a risplendere di luce propria. Ecco, dunque, secondo Livio, i motivi dell’eccezionalità di questo carattere: «Una stessa natura (ingenium) non fu mai più atta a due opposte cose: obbedire e comandare (parendum atque imperandum)».

 

Proprio per queste ragioni, risulta difficile comprendere «se fosse più caro al comandante o all’esercito, poiché Asdrubale, ogni volta che vi era da prendere con forza ed energia qualche iniziativa, non preferiva alcun altro che la guidasse, né i soldati in altro capitano avevano più fiducia quando si trattava di osare qualche ardita impresa. Massima era la sua audacia nell’affrontare i pericoli, massima la prudenza negli stessi frangenti, da nessun disagio il suo corpo poteva essere affaticato, né il suo coraggio poteva essere vinto. Tollerava, allo stesso modo, il caldo e il freddo; la misura dei cibi e delle bevande era determinata dal desiderio naturale, non dal piacere; né di giorno né di notte vi erano per lui ore fisse per il sonno e per la veglia; quel tempo che restava, compiute le imprese, era dato al riposo, che non era procurato né da silenzio né da soffice letto; molti, infatti, scorsero spesso Annibale che giaceva in terra avvolto nel mantello militare, in mezzo alle sentinelle e ai posti di guardia dei soldati. Il suo modo di vestire non era diverso da quello dei coetanei; davano nell’occhio solo le armi e i cavalli.

 

Era Annibale, di gran lunga, il primo tra i fanti e cavalieri; nell’avviarsi alla battaglia precedeva tutti, finita la battaglia, ne ritornava ultimo». Nel presentare la vera natura di Annibale, Livio evidenzia, dapprima, il valore militare del personaggio che, pur essendo il comandante, condivide con i suoi soldati fatiche e rischi. Annibale è dotato di un grande carisma, che gli consente di conquistare il rispetto e la fiducia dei suoi uomini. È poi in grado di equilibrare, in una perfetta sintesi, tendenze opposte: vigore (vigor), forza (vis) e coraggio (audacia) si affiancano a prudenza (consilium), sopportazione (patientia) e misura (modus). Annibale è audace, impavido e, a un tempo, prudente. Nel vestito non mostra superiorità rispetto ai coetanei ed è il primo (primus) tra i cavalieri come tra i fanti, il primo (princeps) a entrare in battaglia, l’ultimo (ultimus) a ritirarsi. Emerge fino a questo punto una valutazione positiva di Annibale che, pur essendo il nemico più temibile di Roma, l’hostis per antonomasia, possiede sia forza fisica sia forza morale, sia coraggio sia saggezza, ossia le qualità fondamentali per il perfetto miles e imperator.

 

Successivamente, Livio afferma: «Tuttavia, grandissimi vizi (ingentia vitia) pareggiavano virtù così grandi». Ecco quindi un elenco dei vitia che gettano ombre sulla magnitudo dell’eroe cartaginese (XXI 4): «Una feroce crudeltà, una malafede più che cartaginese, una continua menzogna, nessun rispetto per la religione, nessun timore degli dèi, lo spregio del giuramento, la mancanza di ogni scrupolo. Con questo insieme di virtù e di vizi per tre anni prestò servizio sotto il comando di Asdrubale, non avendo trascurato cosa alcuna che dovesse compiere o conoscere un uomo che era destinato a divenire un grande capitano». Dalle parole di Livio sembrerebbe che proprio la commistione di virtù e di vizi sia da porre alle origini dell’eccezionalità dell’indole di Annibale, in quanto punto di partenza per divenire magnus dux.

 

A ben vedere, questo ritratto offerto da Livio ben si salda con l’immagine di Annibale consegnata dalla tradizione. Un’immagine che si sviluppa lungo i binari dell’ambiguità e della contraddizione. Un’immagine controversa, fatta di luci e ombre, come, d’altra parte, di luci e ombre è plasmata l’indole dei grandi personaggi negativi. Per la tradizione, Annibale è dotato di poteri straordinari, è sostenuto da forze oscure. Ma c’è altro. È più sleale dei compatrioti cartaginesi: la sua vis è alimentata da inganno, astuzia, furbizia, slealtà, crudeltà nei confronti del nemico. Tale fama si lega, con ogni probabilità, all’atteggiamento tenuto in guerra, ovvero alle tattiche adottate, che sovvertono la tradizionale morale bellica romana, secondo cui la vittoria deve essere ottenuta in campo aperto e non attraverso insidie e tranelli.

 

Una volta giunto al potere, Annibale intende onorare il giuramento prestato al padre quando, per la prima volta, si è recato in Spagna, all’età di nove anni. Narra, infatti, Livio (XXI 5): «Del resto, fin dal giorno in cui fu acclamato comandante, quasi che l’Italia fosse stata assegnata a lui come sua provincia e a lui fosse stata affidata la guerra contro Roma, risolse di non porre tempo in mezzo, sì che qualche accidente non avesse, mentre indugiava, a sopraffarlo, com’era avvenuto a suo padre Amilcare e poi ad Asdrubale; e deliberò di far guerra ai Saguntini».

 

Scopo di Annibale è quello di creare una generalizzata ribellione antiromana. Tuttavia, data la lunga assenza da Cartagine, Annibale è ben consapevole dei rischi legati a una eventuale dichiarazione di guerra ai Romani. Proprio per queste ragioni, nel 218 a.C. cinge d’assedio la città di Sagunto, il che «equivaleva a far muovere le armi romane» (XXI 5). L’assedio si conclude dopo circa otto mesi (XXI 15): «La città fu presa con ingente bottino. Sebbene la maggior parte delle cose fosse stata distrutta dai possessori stessi, e nella strage l’ira non avesse fatto alcuna distinzione tra vecchi e giovani, e i prigionieri fossero stati preda dei soldati, tuttavia si sa che dalle cose messe in vendita si raccolse alquanto denaro, e che furono mandate a Cartagine molte preziose suppellettili e molti tessuti».

 

La notizia dell’assedio di Sagunto suscita nei senatori romani sentimenti vari: dolore, pietà, vergogna, ira, timore, commozione. Scrive Livio (XXI 16): «Con nessun nemico mai, infatti, erano stati in conflitto che fosse più feroce e più bellicoso, né mai lo Stato romano era stato tanto inerte e tanto imbelle». Infatti, Annibale, «nemico veterano, sempre stato vincitore in durissime guerre di ventitré anni con le genti ispaniche, avvezzo a un duce acerrimo, dal recente eccidio d’una città opulentissima varcava ora l’Ebro, traeva con sé tante genti ispane da lui ribellate, stava per far insorgere i Galli sempre bramosi di guerra; contro tutto il mondo ora avrebbero dovuto combattere i Romani, e in Italia e a difesa delle loro stesse mura».

 

Lasciato a Sagunto il fratello Adsrubale, Annibale è deciso a condurre la guerra contro Roma. Ed è sostenuto, peraltro, da una visione (XXI 22): «È fama che gli apparisse in sonno un giovane d’aspetto divino il quale gli disse di essere inviato da Giove ad Annibale come guida verso l’Italia; lui dunque seguisse né mai distogliesse gli occhi da lui. E si narra che Annibale, dapprima, lo seguì timoroso senza mai guardare né intorno né dietro di sé; che poi, per naturale umana curiosità, mentre fra se stesso si domandava che cosa mai fosse quella di cui gli era vietata la vista, non poté trattenere i suoi occhi; allora vide un serpente di meravigliosa grandezza slanciarsi innanzi con gran rovina di piante e di arbusti, e tenergli dietro una procella con fragor di tuoni; e che allora, mentre chiedeva quale mostro fosse quello e che significasse quel prodigio, sentì dire che quella era la devastazione dell’Italia; continuasse dunque egli ad avanzare, né indagasse più oltre, e lasciasse che occulti rimanessero i Fati». Annibale conduce le sue forze al di là dell’Ebro (XXI 23), quindi attraversa le Alpi, solleva le popolazioni celtiche della pianura padana e sconfigge gli eserciti romani.

 

Le tribù galliche alleate di Marsiglia, a sua volta alleata di Roma, oppongono resistenza. Ai primi di settembre del 218 a.C. giunge sulla vetta e concede ai suoi uomini due giorni di riposo. Dopo la sosta, inizia la discesa. Giungono alla meta circa 26.000 uomini, meno della metà di coloro che erano partiti. I Cartaginesi si alleano con i Boi e gli altri Galli, poi mettono in fuga i Romani di Cremona e di Piacenza. Di fronte alla situazione, il Senato di Roma chiama alle armi 300.000 uomini e 14.000 cavalli, affidati a Scipione, quindi dichiara guerra a Cartagine. Dopo ventitré anni di pace, la guerra tra Roma e Cartagine riprende su iniziativa di Annibale. Il conflitto dura diciassette anni e coinvolge i territori di Spagna, Italia e Africa. Il primo scontro avviene al Ticino. È l’ottobre del 218 a.C. e Annibale vince. Dall’Urbe viene inviato un secondo esercito contro Annibale. La seconda battaglia viene combattuta sulla Trebbia: i Romani vengono nuovamente sconfitti e Annibale diviene signore della Gallia Cisalpina. Dopo otto anni, viene inviato contro i Cartaginesi Caio Flaminio, a capo di 30.000 uomini. Lo scontro si ha sulle rive del Trasimeno e quasi tutti i Romani, Flaminio compreso, perdono la vita.

 

Fu questa, secondo Livio, «una delle poche sconfitte memorande del popolo romano» (XXII 7). La notizia genera sgomento e getta Roma nel panico: il pretore, Marco Pomponio, è costretto ad ammettere: «Siamo stati vinti in una grande battaglia». Di fronte al grave pericolo, i senatori si riuniscono per diversi giorni nella Curia, «da mattino a sera, discutendo con quale comandante e con quali forze si potesse opporre resistenza ai Cartaginesi vittoriosi».

 

Viene quindi nominato dictator Quinto Fabio Massimo, in seguito denominato Temporeggiatore (Cunctator), per la sua politica volta a evitare qualsiasi scontro frontale con Annibale. Tuttavia, questa forma di inazione viene presto abbandonata (XXII 12): «Ai saggi propositi di Fabio si opponeva non tanto Annibale, quanto il maestro della cavalleria, il quale non da altro era trattenuto a mandare in rovina la Repubblica se non dal fatto che era in sottordine; impetuoso e frettoloso nelle risoluzioni, e sfrenato di lingua, dapprima con pochi poi apertamente in pubblico, egli chiamava Fabio non temporeggiatore (cunctator) ma pigro (segnis), non cauto (cautus) ma pauroso (timidus), attribuendogli a difetto quello che era virtù; e deprimendo il superiore esaltava se stesso; pessima arte, che troppo è venuta in uso per il felice successo che ne è derivato a molti». I due nuovi consoli, Terenzio Varrone ed Emilio Paolo, sfidano apertamente i Cartaginesi.

 

Lo scontro si ha il 2 agosto del 216 a.C. a Canne, in Puglia, sulla riva sinistra del fiume Ofanto. Annibale, nonostante disponga soltanto di 6.000 uomini, di cui 4.000 Galli, riesce a sconfiggere i Romani. Paolo Emilio cade in battaglia; Varrone, invece, riesce a salvarsi insieme a Scipione. Di qui il commento di Livio (XXII 54): «Due consoli e due eserciti consolari erano distrutti; non c’erano più né un campo romano né comandanti né soldati; Annibale aveva in suo potere l’Apulia, il Sannio e ormai quasi tutta l’Italia. Certo nessun altro popolo avrebbe saputo non crollare sotto il peso di tanta rovina». Da un punto di vista strategico, si tratta di una battaglia insuperabile, laddove Annibale dà prova della forza della sua cavalleria.

 

Eppure, paradossalmente, il cartaginese non intende sfruttare la vittoria di Canne. Preferisce riposarsi. In seguito alla battaglia di Canne, a Roma si prepara la difesa (XXII 55): «Non si dubitava, infatti, che il nemico, distrutti gli eserciti, non venisse a oppugnare Roma, la sola operazione bellica che ormai gli restava». Viene nuovamente eletto console Quinto Fabio Massimo, deciso a logorare le forze di Annibale con la tattica della guerriglia. L’ultimo atto della seconda guerra punica ha come teatro d’azione l’Africa, dove Scipione sbarca nel 204. Cartagine è quindi costretta a richiamare Annibale per l’estrema difesa.

 

Sono trascorsi trentasei anni da quando, per la prima volta, nel 238 a.C. è giunto in Spagna, al seguito del padre Amilcare. Annibale non è più il giovane condottiero che ha battuto i Romani per quattro volte consecutive: ha quarantacinque anni, è cieco, stanco, affaticato da guerre, insidie. In molti non sono disposti a seguirlo nell’estrema, folle impresa. Dopo aver ucciso 20.000 uomini, nel 202 a.C. il condottiero sbarca a Cartagine. Dispone le truppe nella pianura di Zama, dove nell’estate dello stesso anno viene combattuta la battaglia che avrebbe assegnato al vincitore il dominio esclusivo sul Mediterraneo. Annibale cerca di compiere tutto il possibile, ma la stagione dei trionfi è per lui ormai definitivamente conclusa.

E ancor più stanco e affaticato appare al paragone di Scipione, il giovane condottiero romano. L’imperator e magnus dux cartaginese, dotato di grande acume bellico, si avvia al declino.

 

Un declino reso sicuramente più amaro dalle parole che Annibale pronuncia nella curia, quando è costretto ad ammettere «di aver perduto non una battaglia, ma la guerra (XXX 35)». 

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

H. BENGTSON, Einführung in die alte Geschichte, München 1977, trad. it. Bologna 1990.
H. BENGTSON, Griechische Geschichte: von den Anfängen bis in die römische Kaiserzeit, München 1977, trad. it. Bologna 1989.
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