.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

antica


N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

la provincia di Britannia
Una convenienza amministrativa - PARTE II

di Valentina Riccio

 

Soltanto con Claudio la Britannia venne conquistata. Sembra che egli, privo di esperienze e glorie militari, avesse la necessità di ottenerne per rinforzare la propria posizione. L’isola sarebbe stata il luogo in cui realizzare più facilmente tale successo, essendo già stata perlustrata da Cesare; inoltre, Caligola, con il suo tentativo fallito nel 37, in qualche modo aveva reso possibile intraprendere un progetto di conquista che doveva soltanto essere portato a termine, nonostante l’isola costituisse ancora una terra molto misteriosa.

 

La spedizione fu intrapresa dal generale Aulo Pluzio, non senza difficoltà. Il suo successo venne celebrato in più modi: con la proclamazione a imperator da parte dell’esercito più volte, fatto di per sé eccezionale; anche il senato volle premiarlo conferendogli il cognomen ex virtute di Britannicus e onorandolo con il trionfo. Inoltre, furono eretti due archi trionfali per ricordare l’impresa: uno a Roma, sulla via Flaminia, l’altro in Gallia, nel luogo da dove l’imperatore era salpato per raggiungere l’isola, ma di quest’ultimo non sono rimaste tracce.

 

Nonostante la conquista relativamente tarda, tra Roma e la Britannia, come si è detto, ci fu un continuo contatto prima della creazione della provincia, che se non coinvolgeva tanto le due parti sotto il profilo politico-militare, si manifestava, invece, in un incontro culturale mediato dal settore dell’economia e del commercio, principale mezzo di diffusione di modelli romani (soprattutto nell’ambito della cultura materiale) prima della nascita della provincia.

 

In tal senso, il processo di romanizzazione attraversò una fase di “precorso”, di incontro necessario su cui innestare la natura del sistema dominante, in questo caso quello romano.

 

Tralasciando i contatti precedenti l’arrivo di Cesare sull’isola, tale fase di più stretta vicinanza durò all’incirca un secolo, dunque fu piuttosto prolungata, ed ebbe sicuramente il suo peso nel risvolto della fase successiva, in cui l’obiettivo principale fu quello di inserire la Britannia nell’impero di Roma.

 

Proprio dal successo di Claudio, gli studiosi iniziano a parlare propriamente di Britannia romana, non solo perché essa acquisì ufficialmente lo status di provincia, ma anche perché, parallelamente all’innesto dell’impianto amministrativo, si compì il vero e proprio tentativo di romanizzarla attraverso l’importazione di un modello alquanto standardizzato, che ricalcava le istituzioni e il modo di vivere romano.

 

Il caso britannico si configura, comunque, come del tutto particolare rispetto a molte altre province. Tutti gli studiosi concordano sulla non riuscita romanizzazione dell’isola, o meglio sul fatto che il processo fu incompleto.

 

La Britannia, pur restando parte del mondo romano per circa quattro secoli in cui l’interazione col centro avrebbe potuto portarsi a compimento, non raggiunse i risultati sperati. Tralasciando la questione della mancata sottomissione delle Highlands, la cospicua parte dell’isola che divenne provincia fu nel complesso piuttosto restia a romanizzarsi, come già sottolineato in precedenza, e la popolazione non era pronta ad accogliere il modello romano. Soltanto nella fascia geografica sud-orientale esso attecchì in maniera migliore e con meno sforzi, anche se non giunse a completarsi.

 

Come si è detto, per meglio definire l’incontro tra le culture delle due realtà, S. Frere ha introdotto il concetto di Romano-British culture, evidenziando il parallelismo tra l’elemento celtico e quello romano. Secondo lo studioso, l’influenza dell’apporto culturale proveniente dal Mediterraneo non fu tale da cancellare il contributo indigeno, o quantomeno da sovrapporsi ad esso: le due parti, perciò, si unirono in una sintesi di elementi.

 

La presenza dell’esercito fu importante soprattutto perché segnò un cambiamento significativo nell’articolazione del potere, e rese in questo modo evidente il passaggio verso una nuova èra. I più efficaci strumenti del potere erano le legioni e gli auxilia, e il 43 è la data chiave a partire dalla quale furono percepiti in questa maniera: non si tratta dell’anno in cui i regni indigeni cessarono di esistere, né quello in cui le civitates presero corpo, ma in cui il potere subì un cambiamento significativo che vide l’esercito quale garante dell’equilibrio a partire dall’uso della forza.

 

Le giovani dinastie dei regni indigeni si assicuravano il dominio attraverso l’eliminazione fisica di coloro che proclamavano il proprio dissenso politico oppure, in maniera molto meno conveniente, con la riduzione in schiavitù dei loro avversari: ciò si allentò in maniera particolare quando a sovrastare i poteri locali si impose l’esercito. In effetti, dopo la conquista e l’annessione i regni “amici” di Roma, le dinastie indigene non posero particolari ostacoli alle truppe che operavano tra loro.

 

Secondo quanto esposto da S. Frere, la città romano-britanna è però più un adattamento che una vera adozione della classica forma cittadina. Tuttavia, ciò non va inteso, secondo lo studioso, come una mancanza, ma come il risultato della vitale sintesi tra le due parti. In sostanza, le città si configuravano quasi come delle “isole romane” all’interno di un ambiente straniero, e non sarebbe stato possibile esprimere una totale romanità laddove non era pienamente recepibile. Il mondo romano portò con sé tutta una serie di concetti e oggetti per i quali non esisteva un equivalente britannico: i termini connessi all’amministrazione, all’educazione, ma anche agli oggetti di uso quotidiano, alle costruzioni, il calendario, erano assenti nel mondo britannico.

 

Dal momento che, con l’arrivo dei Romani, scomparvero le iscrizioni celtiche dall’isola, il cambiamento del sistema politico fu particolarmente evidente: l’uso delle iscrizioni in lingua latina soppiantò l’uso di quelle in lingua celtica. Il mondo romano, infatti, comunicava attraverso di esse; Roma stessa era una città costellata da questa forma di comunicazione utile, immediata, indelebile.

 

I romani, dunque, non sconvolsero completamente la realtà britanna, anzi, le suddivisioni tribali vennero mantenute e trasformate in civitates, che D. Mattingly definisce appunto come una «convenienza amministrativa che ricalcava le tribù dell’età del ferro» e proprio per questo è stato possibile individuare l’estensione di quei distretti, a seconda della distribuzione del conî dei sovrani britanni, che hanno rivelato che le tribù occupavano territori considerevoli e dunque le civitates della Britannia erano di dimensioni maggiori rispetto a quelle galliche.

 

Si trattava, comunque, di civitates peregrinae, aree legalmente stabilite, anche se riconosciute come straniere, in cui l’intervento romano fu decisivo nel determinare una diversa distribuzione demografica. Gli abitanti delle città peregrinae non godevano di alcun tipo di privilegio; in quanto stranieri, infatti, non potevano sposare cittadini romani, né commerciare liberamente, ed erano limitati anche in materia di giustizia, eredità, affrancamento. Soltanto l’imperatore poteva concedere la cittadinanza romana, oppure poteva essere acquisita dopo venticinque anni di servizio militare.

 

Ognuna di esse, come di consueto, aveva una capitale in cui si concentrava la direzione amministrativa con la curia e i duoviri, a cui erano sottoposti edili, questori e seviri augustali. Secondo M. Millet, alcune di esse possono aver avuto origine dai vici, cioè quei piccoli insediamenti civili, prossimi agli accampamenti militari e gestiti dagli ufficiali dell’esercito, ma adtributi alla città più vicina.

 

È stato possibile, invece, compiere alcune ricerche sui vici, di cui è si è potuta ricavare qualche notizia in più, dato il loro profondo legame con gli insediamenti militari. Si trattava di numerosi centri satelliti sotto la tutela del capoluogo, che, in certi casi, costituirono probabilmente delle comunità con diritto di giurisdizione.

 

Non si esclude, dunque, che potessero avere una parziale autonomia e dei magistrati propri; è quanto suppone S. Frere, che li definisce «la più piccola unità di autogoverno nelle province romane». In ogni caso, questa loro prerogativa andò perduta col tempo; di certo, dal II secolo in avanti i loro magistrati vennero sottoposti al controllo di una nuova figura, il curator rei Publicae, che si occupava del sovrintendere alle attività dei magistrati cittadini.

 

La formazione dei vici fu lenta e graduale. La sola costruzione degli accampamenti militari richiedeva settimane, e non è stato possibile, a livello archeologico, determinare l’anno esatto di fondazione di un vicus, in quanto il processo di nascita e trasformazione in centro abitato poteva richiedere anche degli anni, man mano che i militari congedati decidevano di stabilirsi. Secondo A. Birley, l’insediamento veniva occupato sempre più con la liberazione del forte adiacente, e perciò si doveva impiegare più di una stagione.

 

Spesso questi centri vennero confusi con le canabae, che si formavano in prossimità delle frontiere attorno agli accampamenti legionari, allo scopo di ospitare mercanti e famiglie dei legionari. La distinzione tra questi insediamenti e il vicus è stata problematica proprio per la similarità nelle caratteristiche e per l’inadeguata differenziazione nelle fonti epigrafiche.

 

C. Sommer, pur rilevando che in molte iscrizioni rinvenute in Britannia compaiano ambedue i nomi per fare riferimento a uno stesso luogo, suggerisce una gerarchizzazione tra i due tipi di insediamenti: le canabae sarebbero gli insediamenti adiacenti agli accampamenti e soggetti al diretto controllo militare, mentre i vici dovevano essere unità più indipendenti.

 

Le loro dimensioni erano paragonabili a quelle dei nostri paesi, con una popolazione che variava da 300 a 1500 abitanti, e la varietà al loro interno rispecchiava quella che si poteva trovare in ogni città: infatti, non erano abitati soltanto da soldati, ma anche da veterani con le loro famiglie, uomini politici, mercanti, schiavi, liberti; inoltre, tutte le attività (commerciali, agricole, industriali) erano essenzialmente praticate. In effetti, la presenza dell’esercito e le necessità collegate al forte nelle vicinanze stimolarono l’attività economica e la crescita dei vici.

 

Nonostante si trattasse di ambiti economici relativamente chiusi, l’aumento della popolazione potrebbe aver avuto come conseguenza lo sviluppo di un sistema di villae, che rifornivano di prodotti, introducendo sul mercato le eccedenze delle città e soddisfacendo le esigenze dei centri vicini in tempo di carestia. Inoltre, grazie allo sviluppo economico e all’aumento demografico, alcuni di questi insediamenti si trasformarono in vere e proprie città.

 

È interessante, a questo proposito, lo schema delineato da M. Millet, che ricostruisce le fasi del processo: è proprio l’esercito, attraverso lo stanziamento nel forte, ad influire notevolmente sull’economia primitiva della campagna circostante, adattandola alle proprie esigenze e realizzando, quindi, un vicus.

 

Durante questa fase, l’insediamento resta economicamente dipendente dal forte ma, in seguito a un eventuale spostamento dell’esercito, si rendeva obbligato il raggiungimento dell’indipendenza economica. Secondo Millet, ciò imponeva che l’insediamento, per continuare ad esistere, assumesse sempre più i tratti di una struttura urbana vera e propria. In questa fase fu determinante il controllo romano: il sistema amministrativo continuava nell’esercizio delle sue funzioni, e la capitale della civitas proseguiva nel suo ruolo di conservazione della natura del potere di Roma, attraverso la riscossione dei tributi e il coinvolgimento dell’élite locale.

 

L’azione dell’amministrazione romana rimodellava e rinforzava così la società conquistata; proprio grazie a questo sistema, il vicus poteva sviluppare un nuovo centro cittadino.

 

In altri casi, le capitali delle civitates potevano essere città con statuti particolari come il municipium o la colonia di veterani: un esempio molto significativo di applicazione del modello coloniale è certamente Camulodunum, o meglio la Colonia Claudia Victricensis Camulodunensium, prima capitale della provincia, nata nel 49 per decisione del governatore Ostorio Scapula, che affidò il forte romano ai veterani della legione XX Valeria, i quali, come testimoniano moltissime iscrizioni, popolarono la prima vera città romana in Britannia, sostituendo il vecchio oppidum celtico.

 

La città, dunque, conservò il suo carattere militare. Per un po’ di anni, i coloni poterono agire in sostituzione della legione; allo stesso tempo, ebbero un ruolo molto importante, cioè quello di operare come modello per la vita civile e politica della città romana, in cui i Britanni si riunivano annualmente per assolvere il loro obbligo nei confronti del culto imperiale.

 

A questo proposito, non va dimenticato che Camulodunum, essendo capitale della provincia, e rappresentava perciò il cuore dell’amministrazione romana, del movimento economico, del vivere civile; era il luogo destinato a custodire e ad irradiare l’autorità di Roma e dell’imperatore.

 

Si venne a creare, così, un agglomerato che doveva comprendere il vecchio insediamento militare e la nuova superficie in cui si insediarono i veterani. Anche qui venne realizzato un sistema di strade che configurò la pianta urbana secondo il complesso creato in precedenza per il forte (il quale, a sua volta, già rimpiazzava il vecchio oppidum) e, in questo modo, nacquero dei blocchi di spazio in cui costruire edifici pubblici e privati, cioè i quartieri (insulae). A Camulodunum i quartieri furono quattro, e sorsero un teatro, un tempio e una basilica; mancava, invece, un anfiteatro.

 

J. Creighton fa notare, però, che la città non ebbe uno sviluppo organico, e che la sistemazione degli edifici pubblici non fu ben pianificata, ma adattata secondo le opportunità che offrivano i nuovi spazi: il centro amministrativo rimase inizialmente all’interno del vecchio forte, mentre gli edifici pubblici vennero costruiti in aree periferiche del territorio annesso, che si trasformò in quartiere centrale con lo sviluppo dell’ambiente cittadino nel corso del tardo I secolo e del secondo.

 

Nel nome, Colonia Claudia Camulodunensium, la colonia ricordava il successo di Claudio e anche la comunità che abitava in precedenza l’insediamento. Nel 61, dopo la vittoria sulla regina Boudicca, le fu aggiunto l’appellativo Victricensis, in onore dei veterani della legione XX Valeria lì stanziati. La legione, infatti, a motivo del ruolo determinante nel corso dello scontro con gli Iceni, che erano quasi riusciti nell’intento di distruggere la colonia romana, era stata premiata con il titolo di Victrix, ossia “vincitrice”.

 

A popolare la città furono veterani di varia origine (poiché reclutati in province diverse dell’impero), e anche dai loro schiavi e soprattutto da incolae. L’aumento demografico fu graduale e determinato dal fatto che si trattava della capitale della provincia. Oltre ad essere il centro nevralgico della vita politica, la capitale fu anche il luogo in cui i cittadini assolvevano i loro obblighi nei confronti del culto dell’imperatore.

 

Come già accennato, infatti, a Camulodunum fu costruito un tempio, a est del forte romano, il primo luogo sacro monumentale della Britannia, che venne dedicato all’imperatore Claudio. La città, dunque, fu solo un esempio tra tante città che si configurarono come delle vere e proprie “isole romane” all’interno di quell’ambiente particolare, in cui si concretizzò un incontro-scontro tra protostoria e storia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Barrett A.A., Claudius’ British Victory Arch in Rome, “Britannia” XXII, 1991.

Camodeca G., Curatores Rei Publicae, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt: Geschichte und Kultur Roms im Spiegel der neueren Forschung II, 13, Berlin 1980.

Canfora L., Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Roma – Bari 1999.

Cassio Dione, Storia Romana (a cura di M. Sordi e A. Galimberti), Milano 2006.

Cracco Ruggini L., La città imperiale in Storia di Roma IV (a cura di A. Momigliano – A. Schiavone), Torino, 1989.

Creighton J., Britannia. The Creation of a Roman Province, London & New York 2006.

Crummy Ph., Colchester: the Roman Fortress and the Development of the Colonia, “Britannia” VIII, 1977.

Cunliffe B., L’età del Ferro nell’Europa del Nord, in Storia d’Europa 2 (a cura di J. Guilaine – S. Settis), Torino 1994.

Fishwick D., The Provincial Centre at Camulodunum, “Britannia” XXVIII, 1997.

Frere S.S., Britannia. A History of Roman Britain, London 1991.

Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico (a cura di C. Carena), Milano 2007.

Guidi A., Preistoria della complessità sociale, Roma – Bari 2000.

Haselgrove C., Society and Polity in Late Iron Age Britain, in A Companion to Roman Britain (a cura di M. Todd) Oxford 2004.

Mattingly D., An Imperial Possession, London 2006.

Meier C., Giulio Cesare. Il politico e il diplomatico, lo stratega e il condottiero, l’oratore e lo scrittore, Milano 1993.

Salway P., The Oxford Illustrated History of Roman Britain, Oxford & New York 1993.

Shotter D., Roman Britain, London & New York 2004.

Sommer C.S., The Military Vici in Roman Britain, Oxford 1984.

Zecchini G., I Druidi e l’opposizione dei Celti a Roma, Milano 1984.



 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.