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N. 20 - Agosto 2009 (LI)

LA POVEST’ VREMENNYCH LET
Una fonte primaria per la storia della Rus’ kieviana

di Leilа Тavi

 

La cronaca può essere considerata il genere medievale per eccellenza ed è proprio una cronaca la prima opera del pensiero russo: la Povest’ vremennych let (Cronaca degli anni passati o Racconto degli anni passati), reputata dagli storici una preziosa testimonianza del passaggio dall’epoca patriarcale a quella feudale.

 

Tale difficile transizione è documentata negli scritti dell’epoca, non attraverso la fedele descrizione dei fatti storici ma, come per la tradizione divulgativa degli scritti d’ambito monasteriale occidentale, servendosi di leggende e fonti orali, integrate con notizie prese dalle opere storiografiche greche e slave occidentali.

 

Nel caso della Povest’ vremennych let le fonti hanno determinato in modo particolare il tipo di narrazione; l’opera, creata da molti autori, è lo specchio della società medievale slava orientale: con l’ideologia di coloro che detenevano il potere, le aspirazioni del popolo, le considerazioni sulla storia russa di chi custodiva e diffondeva la cultura, i monaci.

 

La Povest’ vremennych let rappresenta un’ottima chiave di lettura dell’attività politica di quel tempo, diventando essa stessa un modello per i cronisti di epoca successiva, che vi s’ispirarono per le narrazioni su base storica del periodo feudale e della zlaja tatarščina, in cui l’attività letteraria doveva, per volere dei regnanti, consacrare l’unità delle terre russe.

 

Il titolo esteso dell’opera è Se pověsti vremjan ĭnychŭ lětŭ, otkudu, estĭ pošla ruskaja zemlja, kto vŭ Kievě nača parvěe knjažiti, i oktendu ruskaja zemlja stala estĭ; si tratta di una compilazione annalistica della storia della Rus' kievana condotta dai primordi fino all'anno 1117 (Riccardo Picchio, La letteratura russa antica, Milano, Firenze, Sansoni, 1968, p. 66: “Questo titolo è riportato dai più antichi ed attendibili manoscritti nelle parole iniziali «Se povesti vremmjaninychu letu otkudu, esti pošla ruskaja zemlja, kto vu kieve nača parvee knjažiti, i otkudu ruskaja zemlja stala esti». (Ecco le storie [ossia la Cronaca] degli anni passati, di dove è derivata la terra russa, chi a Kiev incominciò dapprima a regnare, e di dove la terra russa è sorta).

 

L’edizione del XII secolo è considerata la versione più attendibile del testo, di cui un monaco di Pečerskij chiamato Nestore fu l’estensore. Questa stessa edizione è la fonte principale per la ricostruzione della storia kieviana delle origini, anche se gli studi di ecdotica ad oggi non sono stati in grado di stabilire con esattezza il nucleo originario dell’opera, le successive stratificazioni e l’identità di tutti gli autori che hanno partecipato alla redazione.

 

All’inizio degli studi, nel primo Ottocento, non si volle rinunciare a trovare un autore all’opera, così la paternità fu attribuita a Nestore; successivamente si giunse alla conclusione che la Povest’ vremennych let è una raccolta, un corpus (svod) di successive compilazioni, fino a stabilirne la genealogia. Oggi si può affermare che l’opera è composta di un nucleo originale e dalle sue filiazioni, che narrano le vicende legate al primo tentativo di cristianizzazione della Rus’.

 

Gli studiosi sono concordi nel far risalire il primo nucleo alla raccolta fatta, all’epoca di Jaroslav il Saggio, nella Kievo-Pečerskaja Lavra, anche detta Monastero delle Grotte. L’ordine cronologico e la disposizione del materiale storico in forma di cronaca si devono, poi, all’opera di Nikon del 1073, chiamata tra gli studiosi per convenzione “seconda tappa” (Cfr. Riccardo Picchio, Letteratura della Slavia ortodossa, Bari, Dedalo, 1991, p. 67). La terza tappa, fondamentale, arrivò circa venti anni più tardi, sempre nel Monastero delle Grotte: un anonimo compilatore raccolse nel 1093, su commissione del principe Svjatopolk, nuovo materiale derivato, probabilmente, da altri manoscritti custoditi nel monastero o da testi di cui venne a conoscenza tramite frequentazione di personalità dell’aristocrazia militare.

 

Questo nuovo corpus, generalmente indicato come Načal’nyj svod (corpus iniziale), fu in un primo momento erroneamente identificato come il nucleo originario. Nel 1113 si operò nel Monastero una successiva riorganizzazione del materiale da parte del monaco Nestore per la prima volta apportando anche delle correzioni, attribuendogli il nome di Cronaca degli anni passati.

 

Il corpus nestoriano non si è preservato nella sua interezza nel tempo; nel 1116 Vladimir Monomach incaricò il monaco Sil’vestr, priore del monastero, di una nuova redazione, soprannominata dagli studiosi “seconda redazione”, tramandata attraverso una copia che costituisce la base su cui è stato possibile effettuare studi. Attraverso manoscritti di altra provenienza è stato possibile individuare una “terza redazione”, compilata due anni dopo quella silvestriana e commissionata dal principie Mstislav, figlio di Vladimir Monomach.

 

I manoscritti più antichi che contengono la Cronaca sono il Lavrent’evskij (Lorenziano, dal nome del copista Lavrentij, Lorenzo), del 1377, e l’Ipat’evskij (Ipaziano, dal monastero di Sant’Ipatij) dell’inizio del XV secolo; nel Lorenziano è contenuta la più antica copia della “seconda redazione” di Sil’vestr.

 

L’opera esalta l’arrivo del cristianesimo nella Rus’ come momento di modernizzazione della società slava, legata alla diffusione dei monasteri e, dalla fine del X secolo in avanti, all’istituzione delle diocesi. Teofilacto (988-1018) fu inviato da Bisanzio dal patriarca di Costantinopoli come metropolita per il regno di Kiev, ma già nel 1051 fu nominato il primo metropolita russa, s. Ilarion, sotto Jaroslav il Saggio (Cfr. Polnoe Sobranie Russkhikh Letopisej, II, Mosca, Iazyki ruskoi kul’tury, 1998, coll. 143-144).

 

Le prime informazioni scritte sui monasteri di Kiev risalgono alla prima metà dell’XI secolo, durante il principato di Jaroslav Vladimirovič. Nella Povest’ vremennych let troviamo la notizia della fondazione del monastero Pečerskij nell’anno 6582, secondo il calendario bizantino (1074 d.C.): “В этот же год основана была церковь Печерская игуменом Феодосием и епископом Михаилом, а митрополит Георгий был тогда в земле Греческой, Святослав же в Киеве сидел” (Quello stesso anno fu fondata la chiesa del [monastero] Pečerskij dall’igumeno Feodosij e dal vescovo Michail; il metropolita Giorgio si trovava allora in Grecia; Svjatoslav risiedeva a Kiev. Traduzione di Italia Pia Sbriziolo).

 

La Kievo-Pečerskaja Lavra fu il primo centro religioso fondato invece, secondo Maria Bylchova, da Antonij, di ritorno da un lungo soggiorno sul monte Athos. Il monaco s’insediò nel 1051 in una grotta nei dintorni di Kiev dove, secondo le cronache, avrebbe operato Ilarion (Cfr. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo 12.,Torino, Einaudi, 1971, p. LXX).

 

Secondo Dmitrij Lichačëv il monastero sarebbe stato fondato da Ilarion negli anni in cui ricoprì l’incarico di pop nel villaggio di Berestovo, nei cui pressi il monaco si sarebbe scavato una grotta per pregare in solitudine. Quando, nel 1051, fu nominato metropolita da Jaroslav nella grotta si sarebbe insediato, su consiglio dello stesso Ilarion, Antonij, che avrebbe fondato nei pressi del Dnepr il monastero (Cfr. Racconto… cit., p. LXX).

 

Il monastero non fu soltanto il principale centro spirituale della Rus’, ma altresì luogo d’intensa attività letteraria: al suo interno furono scritti manuali spirituali, agiografie e cronache, attraverso cui è stato possibile recuperare preziose informazioni sulla vita nella Rus’. Fu una sorta di laboratorio d’edizione dove gli amanuensi copiavano i testi epici che narravano leggende cristiane o gloriose imprese di principi. Puškin nel suo Borìs Godunòv ci ricorda il passaggio di consegne da un monaco all’altro: “…descrivi, senza filosofare astutamente, tutto ciò di cui sarai testimone nella vita: la guerra e la pace, il governo dei sovrani, i miracoli dei santi, le profezie e i segni celesti”.

 

La cronachistica fu il genere in cui si riscontrano chiaramente le influenze erudite bizantine; ben presto furono tradotte in slavo le cronache di Giovanni Malalas (o Malala), di Giorgio Sincello e i suoi continuatori, di Giorgio Monaco detto Amartolo. Dall’altra parte anche l’aspetto leggendario e fiabesco che connotava la trattazione dei fatti biblici influenzò il nascente stile, così dalla letopis, la trattazione rigorosamente annalistica, si passò alla povest’, da cui si evince un forte senso di appartenenza alla patria, che deriva dalla tradizione poetica della družina, anteriore alla letteratura russa scritta e dall’inconfondibile pathos patriottico (Cfr. Riccardo Picchio, La letteratura… cit., pp. 39-42).

 

Il ricordo degli eventi storici nei russi assunse il connotato eroico e fu indissolubilmente legato alla rappresentazione unitaria delle origini della storia e della cultura russe. Le cronache erano, inoltre, l’espressione della potenza divina, supremo ordine sulla vita e sul destino degli uomini. In seguito, nel periodo di decadenza della Rus’, a questa sorta di deus ex machina, rappresentato appunto dalla potenza divina nelle cronache, fu contrapposto il paganesimo del genere letterario dello Slovo, in cui agli uomini era permesso essere, essi stessi, artefici del proprio destino; così come si può riscontrare nella mitologia nordica dell’Edda e in quella delle origini pagane primordiali della Slavia (Cfr. Giovanni Buttafava e Milli Martinelli, Storia della letteratura russa, vol. I, Milano, Fabbri, 1969, p. 17).

 

Proprio al monastero Kievo-Pečerskij è legata la prima produzione della cronachistica russa; è lì che ne furono sviluppati anche gli aspetti ideologici, il carattere didascalico e i principi. Ciò ci fa meglio comprendere il ruolo politico dei monasteri nell’antica Rus’, che non erano isolati luoghi di preghiera, ma rappresentavano ognuno un diverso orientamento politico all’interno delle lotte feudali del tempo. I monasteri, infatti, erano sotto la protezione dei principi o di ricche famiglie, da cui percepivano ingenti contributi.

 

Nello specifico il monastero Kievo-Pečersij non era una metropolia sotto la protezione dei principi di Kiev, ma, al contrario, uno dei principali centri di opposizione sia al potere del patriarca di Costantinopoli, che a quello del metropolita greco di Kiev. Nella seconda metà dell’XI secolo il monastero rappresentò una sorta di guida spirituale della tendenza “russa-comune”, in contrapposizione alla Chiesa greca, che si era manifestata già negli anni del regno di Jaroslav il Saggio (Cfr. Racconto… cit., p. LXX. Tale contrapposizione alla Chiesa greca può essere accostata alla teoria “normanna” sull’origine della Rus’).

 

All’interno del genere della cronachistica la Povest’ vremennych let è, come abbiamo già accennato sopra, un lavoro collettivo che rimane per lo più anonimo, nonostante sia stato possibile individuare il nome di alcuni dei cronisti; al più famoso di loro, Nestore appunto, secondo un’erronea interpretazione, fu attribuito in un primo momento il nucleo primitivo dell’opera. La critica lo riconosce invece oggi come il più importante ordinatore della Povest’ vremennych let.

 

La cronaca inizia con la narrazione del diluvio universale e delle origini della stirpe umana: “Bot повести минувших лет, откуда пошла Русская земля, kto b киеве стал первым княжить и kak возникла Русская земля.Так начнем повесть сию. По потопе трое сыновей Ноя разделили землю - Сим, Xaм, Иaфeт”. (Ecco il racconto dei tempi passati: da dove ha avuto origine la terra russa, chi a Kiev cominciò dapprima a regnare, e da dove la terra russa è sorta. Ecco, cominciamo questo racconto. Dopo il diluvio i tre figli di Noè – Sem, Cam Jafet – si divisero la terra).

 

Si tratta dell’inequivocabile tentativo di trovare uno spazio per il popolo russo nella storia mondiale e “con la peculiare attenzione data all’elemento eroico, alle imprese belliche, alla gloria delle armi russe, ci trasferisce in una sfera poetica epico-popolare di quella storia nazionale” (Racconto… cit., p. XXX ).

 

Dopo l’introduzione il cronista passa al racconto storico, ordinato secondo un rigido schema cronologico di articoli per anni, di cui la data più antica è l’anno 6360 (852 d.C.), in base alle indicazioni fornite da alcune cronache bizantine.

 

Nella Povest’ vremennych let trovano spazio poesia epica e storia, che la caratterizzano nella sua natura ambivalente di opera letteraria ed espressione del pensiero politico, inteso come esegesi dell’operato dei principi regnanti.

 

Il linguaggio vigoroso e altisonante utilizzato dai cronisti non è frutto d’invenzione, ma ricalca fedelmente i discorsi pronunciati dai principi prima di ogni battaglia e che appartengono alla tradizione dell’oratoria bellica russa: “Святополк же, прогнав Давыда, стал умышлять на Володаря и Василька, говоря, что «это волость отца моего и брата»; и пошел на них. Услышав это, Володарь и Василько пошли против него, взяв крест, который он целовал им на том, что «на Давыда пришел я, а с вами хочу иметь мир и любовь». И преступил Святополк крест, надеясь на множество своих воинов. И встретились в поле на Рожни, исполчились обе стороны, и Василько поднял крест, сказав: «Его ты целовал, вот сперва отнял ты зрение у глаз моих, а теперь хочешь взять душу мою. Да будет между нами крест этот! ». И двинулись друг на друга в бой, и сошлись полки, и многие люди благоверные видели крест, высоко поднятый над Васильковыми воинами (Ivi, p. 156: “Svjatopolk, scacciato Davyd, cominciò a meditare contro Volodar’ e contro Vasil’ko, dicendo così: «Questo è il potere del padre mio e del fratello»; e mosse contro di loro. Avendo avuto sentore di ciò, Volodar’ e Vasil’ko [gli] andarono contro, prendendo la croce che egli aveva baciato con loro [dopo aver giurato] su questo: «Sono venuto contro Davyd e desidero avere con voi pace ed amicizia». E violò Svjatopolk [il giuramento del]la croce, facendo assegnamento sul numero dei guerrieri. E si scontrarono sul Rožne Pole, schierati ambedue [gli eserciti], Vasil’ko alzò la croce, dicendo così: «Hai baciato questa, ed ecco prima hai tolto la vista ai miei occhi, ed ora vuoi prendere anche la mia anima. Che tra noi sia la croce». E i guerrieri mossero gli uni contro gli altri, e gli eserciti si scontrarono, e molti uomini fedeli videro la croce al di sopra dei guerrieri di Vasil’ko”.

 

E ancora: “В год 6479 [971]. Пришел Святослав в Переяславец, и затворились болгары в городе. И вышли болгары на битву со Святославом, и была сеча велика, и стали одолевать болгары. И сказал Святослав своим воинам: «Здесь нам и умереть; постоим же мужественно, братья и дружина!» (Ivi, p. 40: “Anno 6479. Giunse Svjatoslav a Perejaslavec, e si rinchiusero i Bulgari nella città. E uscirono i Bulgari per combattere Svjatoslav, e vi fu una mischia grande, e vinsero i Bulgari. E disse Svjatoslav ai guerrieri suoi: «Qui ci è destinato morire; moriamo coraggiosamente fratelli e družina!»).

 

Con queste parole d’incoraggiamento ai suoi uomini Svjatoslav ribalta le sorti della battaglia e ne esce vittorioso sui Bulgari. Il tono in cui il principe si rivolge ai suoi družinniki è espressione della sua benevolenza verso di loro e del forte legame che si instaurava tra la družina e il suo condottiero: “В год 6551 [1043]. Послал Ярослав сына своего Владимира на греков и дал ему много воинов, а воеводство поручил Вышате, отцу Яня. И отправился Владимир в ладьях, и приплыл к Дунаю, и направился к Царьграду. И была буря велика, и разбила корабли русских, и княжеский корабль разбил ветер, и взял князя в корабль Иван Творимирич, воевода Ярослава. Прочих же воинов Владимировых, числом до 6000, выбросило на берег, и, когда они захотели было пойти на Русь, никто не пошел с ними из дружины княжеской. И сказал Вышата: «Я пойду с ними». И высадился к ним с корабля, и сказал: "Если буду жив, то с ними, если погибну, то с дружиной (Ivi, p. 88: “Anno 6551. Inviò Jaroslav il figlio suo Volodimir contro i Greci, e dette a lui molti guerrieri, e affidò il comando a Vyšata, padre di Jan. E mosse Volodimir con le navi, e giunsero al Danubio, e andarono verso Costantinopoli. E vi fu una tempesta grande, e distrusse le navi dei Russi; e la nave del principe distrusse il vento, e accolse il principe sulla nave Ivan Tvorimirič, voevoda di Jaroslav. I rimanenti guerrieri di Volodimir furono gettati sulla riva, in numero di seimila, a avrebbero voluto tornare nella Rus’, e non andò nessuno con loro della družina del principe. E disse Vyšata: «Io andrò con loro». E scese dalla nave [e andò] da loro, e disse: «Se vivrò sarò con loro, se morirò [sarò] con la družina»).

 

Brevità, chiarezza ed enfasi si ritrovano all’interno della Povest’ vremennych let anche nei discorsi pronunciati nelle riunioni del veče. Il veče (in antico russo: вѣче, in russo moderno: вече, in polacco: wiec, in ucraino: віче) era un'assemblea popolare tipica dei paesi slavi nel Medioevo, spesso ritenuta una delle prime forme di parlamento.

 

La parola deriva da una radice protoslava *vēt- che significa "consiglio" o "discussione" (rappresentata anche nella parola “soviet”). La derivazione semantica che rende il significato della parola è simile a quella di parlamento. Si ritiene che il veče degli slavi orientali abbia avuto origine dalle assemblee tribali dell'Europa orientale, che in quel tempo depredavano periodicamente la Rus' di Kiev.

 

Non è altresì chiaro se fu uno sviluppo puramente slavo, o si basò sul modello del Thing variago. Pare che l'autorità del veče sia stata più forte nelle città settentrionali. I primi esempi di veče nelle cronache russe si riferiscono agli esempi di Belgorod nel 997, di Velikij Novgorod nel 1016 e di Kiev nel 1068. Queste assemblee discutevano questioni di pace e di guerra, adottavano leggi e chiamavano ed espellevano dei cosiddetti "principi governatori". A Kiev il veče si teneva di fronte alla cattedrale di Santa Sofia.

 

Il linguaggio degli ambasciatori che si ritrova nella Cronaca di Nestore è, al contrario, complesso e articolato, senza l’utilizzo di forme stereotipate o tradizionali. Nelle cronache in generale un alto esempio di oratoria si può riscontrare nei discorsi in occasione delle trizny funebri, uno dei momenti della vita sociale in cui si rendeva necessario l’utilizzo di una lingua colta.

 

L’ustnaja literaturnaja reč (discorso letterario orale) è utilizzata nella Povest’ vremennych let principalmente nel discorso diretto, anche se nella descrizione degli avvenimenti storici il cronista si avvale spesso di immagini artistiche, che appartenevano più alla tradizione orale che a quella scritta.

 

Un largo utilizzo è fatto della terminologia specializzata: militare, feudale, giuridica e venatoria, accompagnata da espressioni popolari come: взял город приступом, “prese la città con la lancia”, nel senso di “prendere d’assalto la città”; утер пот с дружиною своею, “si deterse il sudore con la sua družina”, per “far ritorno in patria vittorioso”, a riprova del fatto che la lingua parlata ebbe una grande influenza sui cronisti dell’epoca (Ivi, p. XXXV).

 

Nell’anno 6370 (862 d.C.) si narra la storia della fondazione di Kiev per opera dei tre fratelli: i principi Kij, Sček, Choriv e della loro sorella Lybed’: “И спросили: "Чей это городок?". Те же ответили: "Были три брата" Кий Щек и Хорив, которые построили городок этот и сгинули, а мы тут сидим, их потомки, и платим дань хазарам". Dal nome Kij molto probabilmente deriva il nome Kiev.

 

La leggenda della fondazione della città si ritrova in uno scritto dello storico armeno Zenobio da Glak (o Clag) del VIII secolo ed è una delle tante leggende che la Povest’ vremennych let ci ha tramandato insieme ad altre forme della tradizione orale (Ivi, p. XVI).

 

Lichačëv sottolinea che: “questi racconti, non esatti cronologicamente, come del resto tutto ciò che si tramanda per ricordo, recano tracce di motivi fiabeschi e non sono esenti da attestazioni poco veridiche; eroicizzano questa stirpe, ne sottolineano la ponderatezza dimostrata nel disgregamento generale delle forze dello stato di Kiev, e la vicinanza alla stirpe dei principi kieviani” (Ivi, p. XIX ).

 

Il primo quesito che gli studiosi si sono posti nell’analisi della Povest’ vremennych let riguarda la giusta attribuzione del termine “letteratura” all’opera; d’altra parte quello del valore letterario è un problema comune a tutti i testi scritti nell’ambito della letteratura slava ortodossa medievale. Il filologo italiano Riccardo Picchio ritiene che i testi antichi opera di scrittori religiosi di stretta obbedienza cristiano-ortodossa avessero il dovere di comunicare il “vero” (Cfr. Cesare G. De Michelis, Realismo socialista, veridicità e letteratura russa antica, in “Europa Orientalis”, 7, 1988, pp. 185-197. De Michelis paragona il concetto di verità negli scrittori della Rus’ e in quelli del realismo socialista; le stesse parole utilizzate sono diverse si parla di istina (истина) per gli autori medievali e di pravda (правда) per gli scrittori del realismo socialista).

 

Si allontanavano perciò dai canoni della letterarietà (literaturnost’), presenti invece nella fictio, che ancora oggi rappresenta quel modo di scrivere con l’intento di valorizzare l’espressione artistica dell’immaginazione umana (Cfr. Riccardo Picchio, Levels of meaning in old Russian literature, in American contributions to the ninth international congress of slavists, Kiev September 1983, vol. II, a cura di P. Debreczeny, Columbus, Ohio 1983, pp. 358-370).

 

I testi antichi slavi, al contrario, avevano uno scopo di tipo pratico-informativo e ciò ha aperto un dibattito tra gli studiosi riguardo alla “natura” dei fenomeni letterari agli albori della cultura slava, ovvero se tali testi debbano essere studiati solo come importante testimonianza della loro ambientazione storico-culturale o come espressione artistico-letteraria (Cfr. Riccardo Picchio, Letteratura… cit., p. 9 e V. Dmitrij Sergeevič Lichačëv, Poetica della letteratura russa antica (Poètika drevnerusskoj literatury) e Tekstologija. Na materiale russkoj literatury X-XVII vv., Mosca-Leningrado, 1962).

 

Una delle ipotesi più accreditate tra gli studiosi è che i bagatyri servissero a  risvegliare un ideale di dignità patria nei periodi di sottomissione allo straniero e che rappresentassero la russificazione di alcuni simboli eroici comuni a diversi popoli (Cfr. A.M. Astachova, Byliny, itogi i problemy izučenija, Mosca-Leningrado, 1966, pp. 6-20).

 

Come riportato nella Povest’: “Был един народ славянский: славяне, которые сидели по Дунаю, покоренные уграми, и моравы, и чехи, и поляки, и поляне, которые теперь зовутся русь (Racconto… cit., pp. 14-15: “Era un unico popolo slavo: gli Slavi che abitavano lungo il Danubio, essi pure avevano assoggettato gli Ugri, e i Moravi, e i Cechi, e i Ljachi, e i Poliani, che oggi si chiamano Russi”).

 

Lo slavo ecclesiastico, veicolo della cristianità, però, non offrì la possibilità del riconoscimento da parte dei vari popoli di un’identità panslava. Ciò fu dovuto soprattutto al fatto che le varie etnie tra i secoli X-XVI, se pur accomunate dal rito cristiano ortodosso, non dimostrarono un senso di appartenenza al mondo slavo, ma piuttosto un forte sentimento etnico-nazionale (Cfr. Marco Clementi, Per una genealogia dell’Europa orientale, ovvero la Slavia eterodossa, Cosenza, Periferia, 2001, pp. 6-11).

 

Marco Clementi ritiene che “il mondo ecumenico cristiano, in altre parole, conteneva tout-court quella Slavia composta, a sua volta, da singole comunità nazionali, tutte tra loro ben distinte per storia, tradizione, vita politica, forma statale e aspirazioni nazionali, a loro volta idealmente unite in quel medesimo riparo confessionale” (Ivi, p. 9). L’area politico-geografica venutasi a formare e identificata come Slavia era sì ortodossa, come sostiene Picchio, ma allo stesso modo “eterodossa”, seguendo il pensiero di Clementi.

 

Picchio è dell’opinione che “si può certo pensare che già Nestore conoscesse canzoni o leggende o starom Vladimire e o starom Jaroslave, dove vecchio starebbe ad indicare topicamente l’inserimento di una tradizione già allora condizionante”, e si può anche non giudicare totalmente infondata l’opinione di Daškevič, secondo cui la cronaca orale (ustnaja letopis’), in virtù del suo significato panpopolare-nazionale (po svoemu obščenarodnomu značeniju) non sia inferiore a quella contenuta nei libri, poiché la Cronaca iniziale trasmetteva la verità della vita, laddove la cronaca d’epopea orale (letopis’ bylevaja) esprimeva per di più la verità della creazione e quella d’una concezione morale (Cfr. Riccardo Picchio, Letteratura… cit., pp. 92-93; cfr. inoltre N. Daškevič,  K voprosu o proischoždenii russkich bylin. Byliny ob Aleše Popoviče i o tom, kak ne ostalos’ na Rusi bogatyrej, Kiev, 1883, pp. 2-4).

 

La stessa Povest’ vremennych let distingue tra Ruotsi e Slavi¸ con questi ultimi si voleva intendere la popolazione autoctona, nel tentativo di distinguerla dalla minoranza straniera al potere.

 

Secondo la Povest’ i Variaghi, genti normanne che migrarono dalla Svezia verso Oriente, giunsero in Russia nel IX secolo attraverso il mar Baltico su richiesta delle locali tribù per pacificare l’aerea. Sempre secondo la leggenda, Rjurik, a capo dei Variaghi, elesse come sua residenza Novgorod (Riccardo Picchio, La letteratura… cit., p. 17: “Su questo problema la storiografia moderna è stata e rimane divisa. I cosiddetti “normannisti” insistono sulle origini nordiche della Rus”, mentre gli “antinormannisti” vedono, nella formazione del primo grande complesso politico slavo orientale, il prodotto di energie locali, influenzate solo superficialmente dal contributo di guerrieri varjaghi”).

 

Controversa è la teoria secondo cui il ceppo scandinavo-normanno dei Variaghi si stanziò nella regione della Rus’, che comprendeva i territori a sud di Kiev fino quasi al lago Ladoga, alla fine del IX secolo (se ne parla nella leggenda dell’invito a governare rivolto al principe Rjurik dagli Slavi discordi). Che l’organizzazione politica e che, forse, lo stesso nome Rus’ potrebbe, perciò, derivare dai Variaghi non è stato ancora scientificamente accertato (Cfr. Giovanni Buttafava e Milli Martinelli, Storia… cit., pp. 11-20).

 

Lichačëv ritiene che la leggenda dell’invito dei Variaghi si sia formata nel tempo e per gradi al semplice scopo di sedare le lotte per la successione iniziate al tempo dei figli di Jaroslav il Saggio: l’idea di essere tutti discendenti da uno stesso avo avrebbe dovuto impedire la guerra tra principi. Far derivare le stirpi slave orientali dalla Scandinavia significava poi allontanarle ideologicamente dal potere temporale di Costantinopoli e fu deciso, nel rispetto della tradizione storiografica medievale, di trovare una stirpe “illustre” straniera per fondare la Rus’ (Cfr. Racconto… cit., pp. XCVI-XCVIII).

 

Con la conversione del principe Vladimir e dei suoi sudditi nel 988 al Cristianesimo ortodosso ci fu un cambiamento culturale significativo e il nuovo Stato, la Rus’, fu caratterizzata da una connotazione spirituale oltre che politica.

 

In seguito arrivò la pratica della conservazione della memoria attraverso la scrittura e non più solo la parola; la lingua utilizzata non fu l’idioma comune agli Slavi orientali, ma divenne lingua ufficiale ecclesiastica un dialetto meridionale, importato dagli evangelizzatori Costantino (o Cirillo) e Metodio, che si erano serviti di questo dialetto per la cristianizzazione di queste nuove terre.

 

È proprio questo utilizzo a scopi di conversione, oltre all’isolamento storico della Rus’, che ha causato una certa immobilità della letteratura antico russa nel Medioevo. È necessario sottolineare uno sviluppo della produzione orale, in parallelo ai testi rituali di matrice religiosa, che traeva spunto dalla mitologia slava precristiana. Sono stati riscontrati dagli studiosi contaminazioni e scambi tra i due generi letterari, che hanno portato a una progressiva “corruzione” del paleoslavo attraverso la lingua volgare e, viceversa, a una poesia popolare che si è avvalsa di formule stereotipate prese in prestito dai testi religiosi. Il risultato fu, “una cultura generalmente solitaria e un po’ mummificata nei risultati, ma in possesso di una interna vitalità che qua emerge in una sconcertante isolata epopea, là ispira liricamente pedanti cronisti o anonimi cantastorie, là ancora si accende in improvvisi sfoghi umani” (Giovanni Buttafava e Milli Martinelli, Storia… cit., p. 12).

 

Nello specifico, analizzando la Cronaca di Nestore, affiora un particolare interessante dal punto di vista storico: la conferma che i rapporti con l’Occidente cattolico, già a quei tempi, non furano improntati alla sfiducia e all’ostilità; ne è prova il fatto che la Boemia fosse il paese con cui i rapporti erano più frequenti. Gli studiosi hanno riscontrato che nella Čtenie di Nestore ci sono chiare influenze della leggenda latina su San Venceslao boemo e che, nel 1095, nel monastero boemo di Savana fu consacrato un altare con le immagini di Boris e Gleb; lo stesso testo di Nestore considera importante il culto delle icone dei due santi. Il culto di Boris e Gleb ha acquisito indubbiamente una particolare valenza simbolica per l’identità slava in senso lato (Riccardo Picchio, La letteratura… cit.,, p. 59).

 

I maggiori meriti delle indagini moderne sul testo stanno nell’aver delineato l’estensione temporale della Cronaca tra i secoli XI-XII e nell’aver stabilito che si tratta di un’opera di sintesi attribuendole un titolo che deriva direttamente dalla sua tradizione.

 

La Cronaca di Nestore è il miglior esempio di letteratura religiosa appartenente al periodo della Rus’ kieviana, e rappresenta, allo stesso tempo, una preziosissima fonte per lo studio della Slavia ortodossa in generale. Le sue caratteristiche stilistiche sono principalmente la versatilità, l’armonizzazione di diverse narrazioni e l’originalità. Al suo interno troviamo racconti epici, documenti diplomatici, descrizioni geografiche che ancora “conservano la struttura scientifica della trattatistica greca”, leggende di santi, storie di vita monasteriale, battaglie che quasi anticipano il poema cavalleresco. Picchio azzarda a dire che può essere considerata più un’antologia che una storia (Ivi, p. 69).

 

Nel testo sono presenti documenti che risalgono al periodo precedente alla cristianizzazione, si tratta degli accordi conclusi da Oleg e Igor’ con Bisanzio rispettivamente nel 911 e nel 944; sono presenti inoltre alcuni racconti bellici ispirati alla tradizione orale. Altri ancora furono molto probabilmente raccontati al cronista da personaggi storici dell’XI secolo, come gli episodi di Vyšata e di suo figlio Jan. Nelle trattazioni di fatti relativi ai principi varjaghi si riscontrano chiaramente delle influenze nordiche, come negli episodi della morte di Oleg o della vendetta di Olga.

 

Nella Povest’ vremennych let il lettore contemporaneo percepisce un approccio epico alla storia patria; il cronista, nel tentativo di donare al popolo russo la glorificazione della sua storia, ne esalta le vicende principali come un cantore epico, ma, allo stesso tempo, le rielabora servendosi di una nuova concezione storica tipica della società medievale, che utilizzò la cronachistica per plasmare l’epos a immagine e somiglianza della famiglia regnante.

 

La Povest’ vremennych let va letta, sotto quest’ottica, piuttosto come espressione del pensiero politico dei frammentati centri feudali in terra russa, che la sfruttarono per istaurare una tradizione cronachistica locale.


 

 

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