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N. 55 - Luglio 2012 (LXXXVI)

Per un ritratto del politico ideale
lettura dei Consigli politici di Plutarco

di Paola Scollo

 

Plutarco nacque a Cheronea, in Beozia, nel 45 d.C. Compì numerosi viaggi in Grecia, Asia ed Egitto. Visitò l’Italia settentrionale e soggiornò per qualche tempo anche a Roma.

 

Divenuto cittadino romano col nomen di Mestrio, nell’Urbe ricoprì importanti cariche pubbliche: tra il 98 e il 117 ricevette da Traiano gli ornamenta consularia; da Adriano ottenne l’incarico di legatus in Grecia. Pur rimanendo fedele suddito di Roma, non mancava di ostentare orgoglio per le sue origini greche: era solito, infatti, vantare le cariche rivestite in patria, dove fu arconte eponimo, sovrintendente dell’edilizia pubblica e telearco. Di notevole valore considerò poi l’incarico, rivestito per circa un ventennio, di sacerdote presso il santuario di Apollo a Delfi. La data di morte non è certa: per alcuni va collocata dopo il 119; per altri, invece, nel 125 o nel 127.

 

Plutarco è stato uno scrittore molto prolifico. La sua vasta produzione ci è giunta attraverso il cosiddetto catalogo di Lamprias, attribuito al figlio o, piuttosto, al fratello. Nel complesso, si ricordano circa 260 opere, di cui alcune certamente spurie. È possibile dividere la produzione in due corpora: da una parte le Vite parallele a noi pervenute in numero di cinquanta; dall’altra, i Moralia, una settantina di saggi di contenuto etico, filosofico, scientifico, naturalistico, antiquario, erudito e politico. Occorre comunque precisare che la denominazione di «cose morali» non è da attribuire a Plutarco.

 

L’origine del titolo potrebbe essere ricondotta ad almeno tre ordini di ragioni: le opere di contenuto etico erano le più lette e apprezzate; nell’edizione, curata dal bizantino Massimo Planude, gli scritti etici erano collocati al primo posto; nelle intenzioni di Plutarco, gli scritti etici dovevano rivestire primaria importanza, costituendo peraltro il nucleo primitivo delle opere a carattere etico- filosofico.

 

Come è stato rilevato, all’interno dei Moralia figura anche la trattatistica di carattere politico. Gli scritti politici, in linea con la maggior parte delle opere plutarchee, nascono per un’occasione specifica: dopo la morte di Domiziano, Menemaco, un conoscente di Plutarco, ricevette un incarico politico a Sardi, per cui chiese consigli allo scrittore di Cheronea. Tuttavia, il trattato trascende la specifica occasione per divenire un’analisi di più ampio respiro volta a proporre un ideale di uomo politico.

 

Plutarco si interroga sulla natura del potere, cercando di comprendere i meccanismi che regolano l’agire dei politici contemporanei, in un’epoca in cui ormai il mondo greco è stato completamente inglobato all’interno dell’impero romano. L’impegno di Plutarco si traduce quindi in una serie di consigli utili per tutti coloro che ambiscono a dedicarsi agli affari pubblici.

 

La trattazione non si ferma ad un ambito meramente teorico, ma viene continuamente sostenuta da exempla che, oltre a testimoniare la vasta erudizione di Plutarco, contribuiscono a dare forza alle argomentazioni. Sul filo di questa direttrice, lo scritto si pone quale importante chiave di lettura per la comprensione della situazione politica dell’impero tra il I e il II secolo. Ma veniamo dunque al testo.

 

Plutarco esordisce ricordando che Menemaco è stato spinto alla politica dalla ragione (logos) e, in linea con le nobili origini, aspira a divenire in patria «uno che sa dire parole e portare a termine fatti» (I). È questa dunque la definizione di politico.

 

 Fin da subito, lo scrittore di Cheronea sottolinea l’importanza della politica (politeia), quindi il grado di serietà e di impegno richiesto a chi intende dedicarsi agli affari pubblici con piena consapevolezza, non per amore di visibilità o per mancanza di altro. In seguito, stabilisce come «base sicura e stabile» per l’attività politica «la scelta che trae il suo principio sul giudizio e sulla ragione e non un fuoco di paglia dettato da vanagloria o amore di contesa o per mancanza di altre attività».

 

Coloro che, infatti, concepiscono la politeia come «passatempo» giungono a screditare l’attività politica e, «pur avendo sognato la gloria, precipitano nell’oscurità» oppure, «aspettandosi di divenire temibili agli altri tramite il potere, devono affrontare situazioni pericolose o sconvolgenti». Niente di tutto ciò accade, invece, a chi si dedica alla politica per «convinzione e ragionamento». Coloro che si distinguono per «preparazione e discernimento» governano gli impegni serenamente e con misura. Inoltre, non si tormentano e non hanno ripensamenti, perché hanno posto come fine precipuo delle loro azioni il bene (to kalon). Stando alle riflessioni di Plutarco, la motivazione è dunque il presupposto per lo svolgimento di un lavoro politico sereno e fertile.

 

Nell’immagine di Plutarco, fondamentale diviene poi per il politico l’analisi del carattere dei cittadini, con particolare riferimento «a quello che appare fra tutte le altre cose notevolmente saldo e dotato di considerevole forza». Come spiega il biografo, si tratta di un processo lungo e complesso: formare il carattere del popolo e correggerne la natura esige profonda autorevolezza. Il vero politico deve essere in grado di conoscere la natura (physis) e il carattere (ethos) dei propri concittadini, non per tentare di imitarlo, quanto piuttosto per accattivarselo: «L’ignoranza dei caratteri -scrive, infatti, Plutarco- porta in politica a insuccessi e cadute non meno deleterie di quelle che si determinano nei legami di amicizia con i re» (III).

 

Una volta analizzata la physis dei cittadini, occorre che il politico si ponga in armonia con i caratteri. Va da sé che tale risultato può essere conseguito solo se il politico per primo si impegna a dare un ordine al proprio modus vivendi, proponendo la sua condotta di vita quale paradeigma o exemplum per gli altri. Di qui l’esortazione:

 

 «Tu stesso, come dovessi vivere d’ora in poi in un teatro esposto alla vista di tutti, tendi a dare ordine al tuo modo di vivere». La storia è ricca di esempi illustri in tal senso. Basti pensare a Temistocle che, quando progettò di darsi alla politica, si astenne da bevute e da allegre comitive, oppure a Pericle, che mutò radicalmente atteggiamento del corpo e tenore di vita, camminando lentamente o esprimendosi con calma. Spiega, infatti, Plutarco che di chi si occupa di politica si indaga ciò che dice o fa in pubblico, ma anche sul banchetto, sugli amori, sul matrimonio, su quanto fanno di scherzoso o di serio. Infine, cita il caso di Alcibiade, che in politica «era l’uomo più in gamba di tutti, come generale era invincibile, ma che il comportamento dissoluto e la sfrontatezza trassero in rovina e resero la città impossibilitata a trarre giovamento dalle altre sue qualità, per la sua smodatezza e per l’intemperanza […]» (IV).

 

Dopo aver suggerito il modus vivendi da adottare, Plutarco afferma che il politico, come coloro che governano le navi, «deve avere in sé una mente atta a governare e una parola in grado di dare ordini, perché non abbia bisogno della voce di un altro». È necessario guidare il popolo e la città, afferrandoli «per gli orecchi», non come fanno coloro che sono inesperti nel parlare che, cercando nelle moltitudini prese rozze e senz’arte, trascinano il popolo «per la gola, offrendo banchetti, o per la borsa, dando elargizioni, o allestendo danze lascive o spettacoli di gladiatori […]. Guidare il popolo è proprio delle moltitudini convinte della parola, mentre tali tentativi di addomesticare le plebi in nulla differiscono dalla caccia e dal pascolo delle bestie senza ragione» (V).

 

Plutarco specifica poi quali debbano essere i requisiti dell’ars oratoria propria di un politico pieno di carattere e schietto: «L’oratoria di un politico dunque non sia giovanilmente ridondante né teatrale, come quella di chi pronuncia un panegirico e intreccia corone di vocaboli delicati e fioriti, né al contrario come quella che Piteo rimproverava a Demostene, che odorava di lucerna e di affettazione sofisticheggiante, pungente nelle argomentazioni e rifinita nei suoi periodi con il regolo e con il compasso. […] Nel discorso del politico, del consigliere, del magistrato non traspaia fierezza, né gli venga attribuito a lode il parlare con ricercatezza, con arte, con distinzioni ben distribuite, ma il suo dire sia pieno invece di carattere schietto, di sostanza vera, di espressività dei padri, di preveggenza e intelligenza salutare, che unisca al pregio la grazia e la capacità di guida che derivano da parole elevate e da ragioni appropriate e convincenti». In definitiva, «dignità e grandezza nel dire si addicono di più a un uomo politico» (VI).

 

All’interno del discorso politico Plutarco ammette l’introduzione di storie, sentenze, miti e metafore, ma con moderazione. D’altra parte, sono questi i mezzi utilizzati da coloro che tentano di scuotere l’uditorio, utili solo se impiegati con misura e all’occasione. Talvolta, è previsto anche l’inserimento di un motto arguto o ironico, purché non venga pronunciato «per tracotanza o buffoneria», ma che risulti funzionale «per chi si è buttato nello scherzo e ha dato inizio al dileggio» (VI). Nel complesso -puntualizza Plutarco- «nel trattare le questioni con spirito bisogna guardarsi particolarmente dagli eccessi e dal pungere inopportunamente l’uditorio o rendendo d’animo basso e vile chi sta parlando» (VII). Rivolgendosi alla moltitudine, è necessario avvalersi di un discorso «considerato e non vacuo, esponendo con sicurezza, ben sapendo che anche il grande Pericle, prima di pronunciare un discorso, si augurava che non gli capitasse in mente alcuna parola estranea ai fatti» (VIII). Fondamentale è, infine, disporre di parola agile e ben esercitata, perché il politico deve essere in grado di argomentare all’improvviso.

 

Plutarco pone poi attenzione alle strade di accesso alla politica, distinguendo due percorsi: da una parte, la strada «rapida verso la gloria e brillante, ma non priva di pericoli»; dall’altra, la strada «più ordinaria e più lenta», ma che ha in sé «maggiore sicurezza» (X).

 

In seguito, si chiede quale sia l’inizio auspicabile per una brillante e splendida carriera politica. In questo interrogativo è impossibile non cogliere un implicito riferimento all’epoca a lui contemporanea. A questo proposito, Plutarco indica i processi pubblici e le ambascerie verso l’imperatore, che necessitano di uomini «di temperamento e dotati di coraggio e assennatezza» (X). Talvolta, si può accedere alla politica anche attraverso l’inimicizia, entrando apertamente in contrasto con uomini «forniti di un’autorità terribile e odiosa»: «subito, infatti, il prestigio di chi è vinto passa al vincitore e con maggiore reputazione». Tuttavia, Plutarco valuta questo modus agendi come molto pericoloso per chi è in procinto di intraprendere la carriera politica. Preferibile è la scelta di Solone che, di fronte alle divisioni di Atene, decise di rimanere imparziale e, proprio per questo, venne scelto come legislatore al fine di ristabilire la concordia. Di qui l’avvio del suo potere.

 

La strada più sicura e comoda è senza dubbio quella percorsa da Aristide, Focione, Pammene di Tebe, Lucullo, Catone e Agesilao, i quali devono i loro inizi in politica all’essersi appoggiati, ancor giovani e senza gloria, a personalità più anziane e celebri. In sintesi, «a quanti sono condotti per mano verso la gloria, capita di godere del favore di molti e di farsi odiare di meno se accade qualcosa di spiacevole» (XI).

 

Anche la scelta del personaggio cui appoggiarsi non va sottovalutata. È necessario, infatti, affidarsi non semplicemente a personaggi famosi e potenti, ma soprattutto virtuosi, in quanto, talvolta, per invidia e ambizione ai giovani non viene concesso spazio per l’azione, ovvero occasione per mettersi in luce. È quanto accadde a Mario, che per indivia cessò di avvalersi dell’aiuto di Silla. Di contro, Silla incoraggiò l’ascesa di Pompeo, riuscendo a porsi al di sopra di tutti, desiderando essere «non il solo, ma il primo e il più grande tra molti e grandi» (XII).

 

Plutarco si sofferma poi sulla scelta degli amici e dei collaboratori da parte del politico: «Gli amici, in realtà, devono essere gli strumenti vivi e pensanti degli uomini di governo, e non bisogna che scivolino con essi quando si allontanano dalla retta via, ma che si prendano cura invece che non abbiano a commettere errori neppure per ignoranza. Fu proprio un fatto come questo a disonorare Solone e a metterlo in cattiva luce nei riguardi dei suoi concittadini» (XIII). Il politico non deve accentrare il potere, ma deve avvalersi piuttosto di gente leale e fidata. A tal proposito, Plutarco auspica una vera e propria suddivisione del potere sulla base della constatazione che «quando il potere è diviso tra molti non solo la sua grandezza arreca minore invidia, ma anche gli affari pubblici vengono portati a termine in modo migliore» (XV).

 

Segue quindi una discussione su un nodo problematico alquanto complesso, che si può riassumere nell’affermazione secondo cui «ogni sistema politico produce inimicizie o contrasti». Nell’immagine di Plutarco, «occorre non considerare nemico nessun cittadino, a meno che uno non sia come Aristione o Nabide o Catilina, peste e cancrena della città (XIV)». Bisogna, piuttosto, che il politico mostri affezione nei confronti del popolo, lasciando rimpianto di sé. Per ottenere ciò, il politico deve partecipare attivamente e in prima linea a ogni iniziativa pubblica, non ponendosi mai in disparte «come l’ancora sacra su una nave, restando in attesa delle estreme necessità dello stato».

 

Plutarco propone poi l’atteggiamento da adottare nei confronti dei cittadini: «Il politico deve tenere calmi i cittadini comuni con l’eguaglianza, quelli influenti con mutue concessioni, trattenere e cercare di dirimere gli affari nell’ambito della città, applicando loro una cura politica come a malattie indicibili, desiderando piuttosto cedere di fronte ai suoi concittadini che vincere con offesa e violazione dei diritti della propria patria e pregando gli altri singolarmente e dimostrando loro che grande male sia la smania di primeggiare».

 

Nelle sue scelte, il politico deve avere come scopo prioritario quello di «mantenere la sicurezza e fuggire da ogni turbamento e follia di vanagloria» (XIX). Il politico non deve suscitare tempeste e, qualora sorgano, non scuotere con pericolo la città, ma darle sostegno quando è sul punto di crollare e corre gravi pericoli, «sollevando, per così dire, l’ancora sana della sua libera parola nelle traversie più gravi» (XIX).

 

Occorre poi tributare il giusto onore a ogni magistratura, che è «un bene sacro e grande». Peraltro, tale onore risiede «nella concordia e nell’amicizia con i colleghi più che nelle corone e nella clamide adornata di porpora». Anzi, «[…] si dovrebbe riverire il superiore, dimostrare considerazione all’inferiore e onorare il simile, usare affabilità e sollecitudine nei riguardi di tutti, in considerazione del fatto che sono divenuti amici non “intorno a una tavola”, né davanti a una coppa e neppure “intorno al focolare”, ma per comune voto del popolo e che hanno in certo qual modo come eredità l’appoggio che viene loro dalla patria» (XX).

 

Dopo aver indagato la physis dei cittadini, occorre poi essere «conoscitori della propria stessa natura e per l’obiettivo in cui tu ti senti inferiore a un altro, occorre scegliere quelli che valgono di più anziché quelli che ti sono simili. […] Prenditi anche come collaboratore in una causa o compagno in un’ambasceria uno che sia buon parlatore se tu non sei spigliato nel dire, come fece Pelopida con Epaminonda; e se ti senti poco adatto alle relazioni con il popolo e sei altero tieni vicino una persona simpatica e piena di attenzioni; e se ti senti debole nel corpo e poco adatto alla fatica, prenditi uno operoso e forte, come fece Nicia con Lamaco […] (XXVI)».

 

Di qui una serie di riflessioni: «Questo è appunto il primo e il più grande bene insito nella buona fama dei politici, la fiducia che apre loro gli accessi ai pubblici affari; il secondo si trova nella benevolenza del popolo, che per i buoni è un’arma contro i detrattori e i malvagi “come quando una madre scaccia una mosca dal figlio quando con dolce sonno riposa”. Essa tiene lontano l’invidia e rende uguale nel potere il plebeo ai nobili, il povero a ricchi, il cittadino privato ai governanti: insomma, quando lealtà e virtù si congiungono è come un vento propizio e sicuro per l’attività politica» (XXVIII).

 

L’evergetismo è poi considerato alla base del successo del politico: non bisogna, infatti, comportarsi con grettezza nelle elargizioni abituali quando la situazione consente una buona disponibilità, «perché le moltitudini hanno un odio maggiore verso il ricco che non concede nulla del suo, che verso il povero che ruba dal pubblico denaro, ritenendo che l’uno agisca per necessità, l’altro invece per altezzosità e scarsa considerazione nei loro riguardi. Per prima cosa dunque i donativi devono essere fatti senza pretesa di alcun corrispettivo».

 

Di qui l’invito a Menemaco: «[…] Tu preoccupati di tenere lontano dalla città, per quanto possibile, tutte quelle liberalità che stimolano e nutrono la parte sanguinaria e ferina, ovvero quella dissoluta e intemperante, e, se non ti è possibile, tienitene lontano e cerca di contrastare il popolo che ti richiede simili spettacoli. Fa’ sempre in modo che le ragioni delle tue spese siano giuste e sagge, aventi come fine il bello e il necessario o, per lo meno, il piacere e lo svago che ne conseguono siano disgiunti dal danno e dalla dissolutezza» (XXX).

 

Qualora la disponibilità delle sostanze sia modesta, «non v’è nulla di ignobile o di meschino a riconoscere la propria povertà e tirarsi indietro nel competere con le elargizioni di chi ne ha i mezzi, e non una volta indebitato essere oggetto di compassione e di riso per queste pubbliche manifestazioni. […] In tali casi occorre soprattutto avere un buon dominio di se stessi, […] misurarsi piuttosto per virtù e saggezza con quelli che cercano sempre di guidare la città con la forza del ragionamento, che possiedono non solo nobiltà e dignità, ma anche il modo di raccogliere il favore e di saper guidare “più desiderabile degli stateri di Creso”» (XXXI).

 

Fondamentale è la nobiltà d’animo: «Chi è veramente nobile non è prepotente né odioso, e il saggio non è uomo rigido, che “avanza con occhio crudele a vedersi per i suoi concittadini”, ma anzitutto è cortese e affabile a essere avvicinato e accostato da tutti, e offre sempre aperta la sua casa, come posto in cui trovare rifugio, a tutti quelli che hanno bisogno, dimostrando la propria sollecitudine e umanità non solo con opere utili e attività, ma anche prendendo parte al dolore di chi soccombe e partecipando alla gioia di chi ha successo […]».

 

Il politico deve vivere attivamente, tra la gente, avendo cura delle problematiche dei suoi concittadini. In ordine, deve essere consigliere benevolo, difensore senza compenso, pacificatore sincero delle mogli con i mariti e di amici tra loro. Il politico ideale non deve trascorrere gran parte del giorno a far politica dalla tribuna o dal proscenio, ma ad occuparsi della vita dello stato con ogni cura, essendo convinto che la politica è «vita e azione e non una continua fatica e servitù» (XXXI).

 

Il fine è ultimo dell’azione politica risiede per Plutarco nel mantenimento della concordia e della pace: «La cosa migliore comunque è provvedere per tempo che non abbiano mai a scoppiare tumulti e considerare che questa è la funzione più nobile dell’arte politica. Pensa che i maggiori beni da desiderarsi per la città sono la pace, la libertà, la prosperità, l’incremento del popolo, la concordia […]».

 

Il trattato si conclude quindi con delle riflessioni sullo scopo prioritario dell’azione politica, ovvero creare la concordia e l’amicizia, eliminare le contese, le discordie e ogni malanimo, mostrarsi vicini a coloro che sono stati offesi in parte maggiore, dimostrando di partecipare all’offesa ricevuta e di sdegnarsi insieme a loro, quindi dimostrare che coloro che «lasciano perdere riescono superiori a quanti intraprendono le contese a furia di vincere e di fare violenza, non solo per moderazione e buona disposizione naturale, ma anche in magnanimità e grandezza d’animo e che, pur cedendo in cose di poco conto, vincono nelle questioni elevate e importanti […]».

 

Per concludere, il politico è colui che eccelle per nobiltà e magnanimità d’animo, che è vicino alla sua gente e che, attraverso il proprio modus operandi, aspira alla realizzazione della concordia e alla pace. Sono questi per Plutarco i beni più preziosi per la crescita e la prosperità di ogni comunità.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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T. E. Duff, Plutarch’s Lives, Exploring Virtue and Vice, Oxford 1999.

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M. Le Glay, J.-L. Voisin, Y. Le Bohec, Histoire romaine, trad. it. Bologna 2002.

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