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N. 34 - Ottobre 2010 (LXV)

PATRIOTTISMO ITALIANO O MISSIONE UNIVERSALE?
Pio IX e il Risorgimento

di Ivano Abbadessa

 

I giudizi sull’operato politico di Pio IX durante il suo lungo pontificato riflettevano per lo più quelle che erano le diverse tendenze di pensiero politico all’interno del Risorgimento Italiano.

 

Le correnti conservatrici e clericali vedevano in Mastai il papa buono “che si era prodigato per il bene dei suoi figli, ricevendone in ricompensa ingratitudine, oltraggi, persecuzioni, esilio, e superando tutto con la sua santità e con l’aiuto soprannaturale”.

 

Diversa fu l’opinione democratica, radicale e mazziniana, che vedeva nel papa un traditore e un voltagabbana che ha prima incoraggiato e poi rinnegato la causa nazionale.

 

La tesi del papa vittima dei suoi errori politici fu invece la valutazione sostenuta dalla maggioranza dei moderati e in particolare da uno dei suoi esponenti più illustri, Luigi Carlo Farini, che si soffermava sulla “ispirazione prettamente religiosa di tutta la politica del papa, convinto di dover conservare il potere temporale come presidio di indipendenza per la Chiesa, […], e di non recare danno alla religione col venire incontro alle aspirazioni dell’epoca”.

 

Negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale grazie all’accesso ad ampie fonti prima riservate, e grazie anche alla maturazione di un distacco “emotivo” dagli eventi, la storiografia ha potuto elaborare un giudizio più ponderato sul pontificato di Pio IX.

 

Come è noto, all’interno del movimento nazionale italiano, furono sostanzialmente due le correnti di pensiero e di azione politica che immaginarono e perseguirono strade differenti per giungere all’unità d’Italia: una era quella seguita da Giuseppe Mazzini e dai democratici; l’altra quella seguita dai moderati.

 

Le rivoluzioni del ’30 e ’31 segnarono la fine delle società segrete che nell’atto pratico non furono in grado di realizzare larghe intese e di cambiare le cose. Da queste esperienze maturò la figura di Mazzini che si rese conto dell’insufficienza del movimento carbonaro, elaborando una nuova strategia e divenendo così uno dei grandi artefici del movimento nazionale italiano.

 

Secondo Mazzini, infatti, se l’Italia voleva essere nazione (una e repubblicana), non poteva fare affidamento sulle sette segrete ma era piuttosto necessario che il movimento nazionale prendesse atto della propria forza e dei propri obiettivi.

 

La sua strategia era incentrata sull’associazionismo e poggiava su una base etico-religiosa. Credeva che Dio avesse affidato a ciascun popolo una missione di civiltà e ciascuno dovesse portarla avanti. Ogni popolo doveva poter aspirare all’indipendenza politica e, nel caso in cui subisse pressioni esterne, doveva lottare e fare il possibile per ottenere l’indipendenza.

 

Per fare questo bisognava unire le forze, propagandare le idee e dichiarare apertamente gli obiettivi. Mazzini individuò i maggiori ostacoli all’unità italiana nell’Austria e nello Stato pontificio. Riteneva quest’ultimo anacronistico e auspicava la scomparsa della Chiesa cattolica in nome di una religiosità laica.

 

Mazzini era un autentico rivoluzionario, avverso però a tutte le dottrine socialiste; puntò molto sulla stampa come mezzo per esporre le sue idee alla massa, scontrandosi tuttavia con il forte analfabetismo che caratterizzava l’Italia dell’Ottocento.

 

Accanto alla via mazziniana troviamo numerose correnti di pensiero che aspirano all’unificazione italiana. C’è l’idea federalista democratica di Cattaneo e Ferrari; quella di Balbo e di D’Azeglio che vogliono federare la Penisola sotto la guida del Piemonte; quella neoguelfa del torinese Vincenzo Gioberti che vede un’Italia federata sotto l’autorevole guida del papa. L’opera di quest’ultimo influenzò molto il movimento nazionale italiano. Gioberti fa infatti riferimento al primato morale e civile degli italiani che egli ricerca nelle arti, nella letteratura, nella gloria dei comuni e soprattutto nella religione cattolica, nella quale vede la componente fondamentale della nazione italiana. Gioberti, che aveva abbracciato la vita sacerdotale, fu costretto all’esilio nel 1833 perché sospettato dal governo sabaudo di avere inclinazioni liberali.

 

Fu proprio in esilio che egli elaborò il suo pensiero filosofico nella convinzione che la Chiesa cattolica potesse riprendere il ruolo di guida dei popoli, trovando un punto d’incontro con i principi della civiltà moderna. A suo avviso, l’autorità morale del papa e il rafforzamento etico-culturale della Chiesa dovevano coincidere con il risorgimento politico dell’Italia, centro del cattolicesimo, destinata a sostituirsi alla Francia nell’indicazione delle vie del progresso civile.

 

Queste idee furono elaborate nell’opera Del primato morale e civile degli italiani, pubblicata nel maggio del 1843 a Bruxelles. Gioberti non crede che sia possibile fare la rivoluzione contro i rispettivi sovrani e formare uno stato unico, ne che l’unità italiana possa essere fatta dalla forza dello straniero. L’unità d’Italia, egli sosteneva, doveva fondarsi sul principio federale che doveva trovare il collante nella religione cattolica e il capo naturale dei sovrani, che sarebbero entrati a far parte della federazione, sarbbe dovuto essere il papa. Anche se questo suo disegno dell’unità nazionale sembrava insufficiente a molti, per Gioberti era l’unico attuabile.

 

Dopo gli avvenimenti del ’48-’49 fallisce l’idea mazziniana e prende sempre più forma e respiro il movimento moderato composto da uomini di diversi Stati: piemontesi, toscani, meridionali. Essi sostenevano che un movimento rivoluzionario in Italia non avrebbe avuto sbocco: da una parte perché nelle masse era forte l’attaccamento alla fede cattolica e ai sovrani; dall’altra, perché le classi della media e alta borghesia avevano interessi conservatori, difficilmente conciliabili con le dottrine sovversive della Giovine Italia di Mazzini.

 

Per alcuni moderati la via dell’indipendenza passava per il progresso economico e, in particolare, con la costruzione di linee ferroviarie che all’epoca si andavano espandendo in tutti i più industrializzati paesi europei. La strada ferrata avrebbe fatto uscire dal loro isolamento e protezionismo economico gli Stati italiani e, allo stesso tempo, avrebbe inevitabilmente portato ad una crisi del sistema politico della Penisola a causa della disomogeneità delle politiche fiscali e tariffarie. È per questo che il grosso dei moderati comincia a pensare ad una federazione o confederazione degli Stati italiani.

 

Uno dei maggiori problemi all’unità della Penisola era rappresentato dalla presenza dello Stato pontificio, l’unico regno teocratico d’occidente. Parlare in questo tipo di stato di riforme fiscali, doganali, di diritto familiare, di valori o ancor di più di costituzione comportava necessariamente maggiori problemi. Vi era tuttavia una corrente di cattolici liberali che ritenevano possibile conciliare l’azione papale con quella del pensiero moderno. Per molti lo stesso cardinale Mastai apparteneva a questa corrente, tanto da identificarlo con il papa idealizzato nel Primato di Gioberti.

 

Dopo la morte di Gregorio XVI, forse uno dei papi più reazionari dell’Ottocento, il Sacro Collegio era composto da cinquantaquattro italiani e otto stranieri, dei quali però nessuno riuscì ad arrivare in tempo per partecipare al conclave che si riunì il 15 giugno e si concluse l’indomani dopo soli quattro scrutini. La rapidità con cui si svolse l’elezione non deve indurre a pensare che questa sia stata immune da pressioni politiche. Invero, i liberali avevano simpatie per il cardinal Gizzi che venne anche soprannominato per l’occasione “il papa di D’Azeglio”; l’ala più conservatrice premeva per l’elezione del cardinal Lambruschini già segretario di Stato con Gregorio XVI.

 

Il nuovo papa sarebbe dovuto essere, dunque, una figura di moderato in grado di poter conciliare le differenti posizioni. Questo identikit sembrava corrispondere proprio a quello dell’arcivescovo di Imola: il cardinal Giovanni Maria Mastai Ferretti, che venne eletto nella tarda mattinata del 17 giugno 1846. Il nuovo Pontefice, un mese esatto dopo la sua elezione, fece un’ampia amnistia, concesse la libertà di stampa, istituì una commissione cardinalizia che studiasse dei miglioramenti da apportare allo Stato pontificio e approvò una serie di riforme costituzionali che entusiasmarono la popolazione e fecero sperare nel mito del “papa liberale”. In realtà secondo lo storico Roger Aubert: “il suo preteso liberalismo si riduceva, da una parte, a una bontà d’animo, che lo portava a ritenere preferibile disarmare lo spirito rivoluzionario con la dolcezza piuttosto che tentare di domarlo con la forza, soprattutto quando il sovrano riveste il carattere sacerdotale; e, d’altra parte, a un sincero desiderio di affrontare gli abusi dell’amministrazione pontificia e d’introdurre certe riforme, purché, si capisce, esse non servissero di pretesto per dare al popolo una parte effettiva di governo, cosa che gli pareva inconciliabile con il carattere religioso di questo”.

 

Così, anche a causa dell’azione dei rivoluzionari, dei mancati investimenti nelle infrastrutture, nelle ferrovie, nei telegrafi e anche per la situazione del quadro internazionale, il fervore del popolo cominciò a raffreddarsi. Anche l’apertura del governo ai laici, sotto la presidenza del cardinal Antonelli, non produsse visibili effetti e cosi il 14 marzo 1848, dopo la caduta di Luigi Filippo in Francia, e sull’esempio di altri sovrani italiani, papa Mastai promulgò la nuova legge fondamentale dello Stato reclamata da mesi e che, per quanto possibile, cercava di separare il vertice politico-civile da quello canonico della Santa Sede.

 

Costituzioni furono concesse anche da Carlo Alberto (con il ben noto “Statuto Albertino”, Legge Fondamentale del futuro Regno d’Italia), dal granduca di Toscana e prima ancora da Ferdinando II di Napoli. Ad eccezione del Lombardo-Veneto e dei ducati di Parma e di Modena, nel febbraio-marzo del ’48 tutti gli stati italiani ricevettero ordinamenti costituzionali.

 

La creazione della repubblica in Francia ebbe immediate ripercussioni nell’Europa centrale con manifestazioni popolari nei domini asburgici: Vienna, Ungheria, Boemia e nei territori croati e polacchi. Saputo ciò che accadeva a Vienna, prima Venezia e poi Milano insorsero liberandosi dal giogo straniero. Carlo Alberto intenzionato a dominare l’Alta Italia, fatto che lo avrebbe inevitabilmente portato alla leadership della Penisola, entra in guerra contro l’Austria il 23 marzo: è la Prima Guerra d’Indipendenza. Anche il papa cedendo alle pressioni popolari inviò un contingente comandato dal generale Giacomo Durando, con più di dodicimila uomini.

 

Pio IX si trovò così di fronte ad un cruciale dilemma: patriottismo italiano o missione universale della Chiesa? Nella famosa allocuzione Non semel, del 29 aprile 1848, il papa scelse per la missione religiosa, dichiarando che come rappresentante in terra di un Dio di pace non poteva prendere parte a guerre contro nessun popolo. Alla base di questa decisione pesarono sicuramente anche i forti allarmi che arrivavano dell’Austria dove venivano distribuiti opuscoli antiromani e si minacciava uno scisma.

 

Cadeva cosi anche l’ipotesi neoguelfa di soluzione del problema italiano nei termini del confederativismo giobertiano e il mito di un Pio IX liberale e patriota si trasformò presto nel papa traditore e voltafaccia. La situazione nello Stato pontificio si faceva sempre più incandescente. Dopo molte incertezze il papa decise di affidare il governo al saggio ed energico conte Pellegrino Rossi che fu assassinato dopo pochi giorni.

 

I rivoluzionari assediarono il palazzo del Quirinale e non sentendosi più al sicuro il papa, travestito da povero abatino, con l’aiuto dell’ambasciatore bavarese Karl von Spauer e di una perfetta macchina organizzativa, decise di fuggire recandosi a Gaeta dove vi rimase per diciassette mesi.

 

A Roma, il 9 febbraio 1849, venne proclamata la Repubblica Romana all’interno della quale Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini vennero eletti “Triumviri della Repubblica”, adottando provvedimenti in linea con le idee mazziniane. Repubbliche si costituirono anche in altri stati della Penisola come Firenze, dove il granduca lasciò il suo stato nel febbraio ’49. Tuttavia le repubbliche e le rivendicazioni di autonomie nazionali ebbero vita breve e ben presto il principio di autorità e legittimazione fece il suo ritorno in Italia e in Europa.

 

Già tra il ’48 e il ‘49 iniziarono in Europa le azioni dei sovrani per ristabilire l’ordine preesistente all’avvento delle repubbliche e delle sommosse. Gli Asburgo domarono con l’esercito le rivolte delle varie nazionalità; in Francia Luigi Bonaparte (il futuro Napoleone III) venne eletto alla presidenza della Repubblica; l’ordine venne ristabilito anche in Germania.

Negli Stati italiani la situazione non fu diversa: a Firenze Leopoldo II respinse l’invito a rientrare pacificamente e si fece precedere da un corpo di spedizione austriaco; a Napoli Ferdinando II ristabilì l’assolutismo sciogliendo definitivamente il parlamento. Fece eccezione solo il Piemonte dove, sconfitto a Novara dall’esercito asburgico, Carlo Alberto decise di abdicare in favore di Vittorio Emanuele II che conservò lo Statuto.

 

Da Gaeta, il segretario di Stato cardinal Antonelli, radunava gli ambasciatori delle grandi potenze per decidere il da farsi. Già il 24 aprile 1849 un corpo di spedizione francese approdò a Civitavecchia marciando verso Roma, gli austriaci occuparono il Nord dello Stato pontificio, mentre le forze napoletane avanzavano da sud e gli spagnoli sbarcavano a Fiumicino.

 

Nel luglio ’49 il papa poté far ritorno nella Città Eterna mentre Mazzini e Garibaldi fuggivano nonostante la coraggiosa resistenza. La restaurazione poté avvenire non con mano pesantissima. La folla accolse il papa con tripudi, luminarie, inni di ringraziamento, anche se non si sentirono gli “Evviva Pio IX” dei suoi primi mesi di pontificato.

 

L’esperienza del ’48 e la successiva restaurazione avevano messo in evidenza la crisi delle progettazioni politiche degli anni Quaranta. Non si ebbe solo il fallimento delle idee democratico-rivoluzionarie che non erano riuscite a coinvolgere le classi più basse e che da questo momento, con Mazzini che da Londra forma una nuova formazione politica chiamata “Associazione Nazionale”, tenteranno di organizzare insurrezioni che tuttavia falliranno miseramente, ma veniva vanificato anche il mito neoguelfo di Gioberti.

 

Gli stessi moderati si resero conto che la strada del progresso economico come collante dell’unità non rispondeva più alle mutate condizioni di una Penisola dominata da monarchie conservatrici e reazionarie. Si resero conto che senza istituzioni liberali non era possibile lo sviluppo civile. Dunque la realizzazione del Risorgimento d’Italia con i suoi ideali di Patriae unitati e Civium libertati passava necessariamente per il Piemonte liberale, unico stato ad aver conservato la costituzione.

 

Grazie al suo energico primo ministro, il conte di Cavour Camillo Benso, lo stato sabaudo si era messo alla testa del movimento per l’unità nazionale puntando sulla cacciata degli austriaci dalla Penisola. Assunto il ruolo di paladino dell’indipendenza e della nazionalità italiana Cavour, grazie alla sua abile attività diplomatica, partecipò con un contingente piemontese alla sanguinosa guerra di Crimea che Francia e Inghilterra stavano combattendo contro la Russia, in modo così da entrare a pieno diritto nello scenario internazionale e affrontare il “caso italiano”.

 

Al tavolo della pace di Parigi, l’8 aprile 1856, venne finalmente sollevata la questione italiana e Cavour la descrisse come una situazione di subbuglio a causa delle reazionarie corti che la governano (in primis quella del papa), e delle attività sovversive dei rivoluzionari italiani. Il 21 luglio 1858 Cavour e Napoleone III si incontrano nella località termale di Plombières per discutere un piano segreto sulla possibilità di una guerra contro l’Austria.

 

In questa circostanza l’Imperatore francese si impegnò a costituire un regno del Nord che comprendesse Piemonte, Liguria, Sardegna, Lombardia, Veneto e Legazioni, in cambio di Nizza e della Savoia. Per trovare legittimazione alla guerra era necessario che fosse l’Austria ad attaccare e Cavour, da abile stratega quale era, fece muovere gli eserciti al confine, arruolare volontari e pronunciare a Vittorio Emanuele II, il 10 gennaio 1859, il famoso discorso del “grido di dolore”. Il 19 aprile l’Impero Asburgico consegna un ultimatum al Piemonte che ovviamente rifiuta: è la Seconda Guerra d’Indipendenza.

 

Dal carteggio privato di Pio IX si intuisce come egli fosse a conoscenza di tutto ciò che stava per accadere, smentendo la tesi secondo cui era poco avvezzo alla politica. Il papa deplorò, il giorno dopo il suo inizio, la guerra che per di più avveniva fra stati cattolici. Dopo il cambiamento del quadro internazionale, temendo un’entrata in guerra anche della Prussia, Napoleone firmò l’armistizio di Villafranca con l’Austria. Non essendone a conoscenza e dopo una vivace discussione con Vittorio Emanuele II, Cavour decise di rassegnare le dimissioni.

 

Nel gennaio 1860, però, ritornò al governo e cedette Nizza e la Savoia all’Imperatore di Francia in cambio dell’ottenimento dell’annessione dell’Italia centrale. Frattanto il papa, resosi conto della volontà di annessione piemontese, aveva ingaggiato ventimila soldati provenienti da Olanda, Francia, Polonia, Irlanda, Svizzera, Belgio e anche seimila italiani a difesa dello Stato pontificio.

 

Nel maggio 1860 Garibaldi iniziò con i suoi uomini la conquista dell’Italia meridionale; Cavour inviò un abilissimo ultimatum al segretario di Stato della Santa Sede, cardinal Antonelli che, come facilmente immaginabile, rifiutò per “garantire alla Chiesa quella libertà che la sottrae alla soggezione di qualsivoglia potere civile”(Pio IX).

 

Nel settembre l’esercito pontificio venne sconfitto a Castelfidardo. Terminava così il dominio papale in Romagna, nelle Marche e in Umbria che furono annesse al Piemonte mediante plebisciti, riducendo così lo Stato della Chiesa al solo Lazio. Da questo momento la resistenza del papa sarà sostanzialmente solo passiva.

 

Dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie (febbraio ’61), il 17 marzo Vittorio Emanuele II venne proclamato re d’Italia.

 

I governanti del nuovo regno volevano però che fosse Roma la capitale d’Italia. Tentarono così di trattare con papa Mastai che, insieme al cardinal Antonelli, non intendeva rinunziare al potere temporale non fidandosi delle proposte del regno d’Italia, all’interno del quale si sosteneva che la libertà della Chiesa potesse essere assicurata solo da un’effettiva separazione fra Stato e Chiesa.

 

Pio IX tornò a condannare il liberalismo e le leggi in vigore nel nuovo regno che certo non aiutavano la conciliazione. In effetti, già nel 1850, prima ancora che il Piemonte iniziasse l’opera di annessione dell’Italia, il ministro della Giustizia del governo sabaudo, Giuseppe Siccardi, redasse una legge, che sarà poi controfirmata dal re, che prevedeva l’introduzione del matrimonio civile, l’abolizione del foro ecclesiastico, la cancellazione del diritto di asilo per le chiese e i conventi, l’annullamento di molte feste religiose e la censura sui libri.

 

Nel 1854 fu il conte di Cavour a presentare la legge per la soppressione degli ordini religiosi che conteneva anche l’espropriazione dei beni della Chiesa. Il papa denunciò questa legge e lo stesso venne fatto a Torino da don Giovanni Bosco che fece arrivare al re antichi documenti di Casa Savoia dove venivano sconfessati e maledetti tutti i loro discendenti che avessero agito contro la Chiesa.

 

La legge continuò il suo iter e venne approvata il 2 marzo 1855 portando alla soppressione di numerosissimi ordini religiosi e permettendo allo Stato di incamerare una rendita di oltre due milioni dell’epoca.

 

Durante quelle settimane Pio IX scrisse lettere di profonda vicinanza al re gravemente provato da un’inquietante ondata di lutti che colpirono la famiglia reale in quei mesi, ma non si astenne dall’ammonirlo per quella legge e più tardi a scomunicarlo insieme a tutti coloro che l’avevano proposta, approvata e sanzionata.

 

Naturalmente queste leggi vennero estese a tutti i territori che di volta in volta venivano annessi al regno dei Savoia entrando a far parte dell’ordinamento giuridico del neonato regno d’Italia. In effetti, oltre a sequestrare i beni ecclesiastici, il nuovo Regno processò e confinò sessantasei vescovi tra i quali anche i cardinali di Napoli e Fermo.

 

Nel 1861 l’artefice dell’Italia unita, liberale e moderna, il conte di Cavour, muore. I suoi successori non ebbero la sua stessa abilità diplomatica e puntavano ad una riforma della Chiesa largamente imposta dallo Stato, che la Curia romana, come facilmente intuibile, non poteva prendere nemmeno in considerazione. Anche la maggioranza dell’episcopato, infatti, riteneva il potere temporale, un’istituzione provvidenziale indispensabile al bene della Chiesa, senza tuttavia farne una verità di fede.

 

È in questo contesto storico che si ha la pubblicazione maggiormente discussa e criticata del pontificato di Pio IX. Si tratta dell’enciclica Quanta cura promulgata l’8 dicembre 1864, con il cosiddetto Sillabus errorum, contenente ottanta dichiarazioni dei “principali errori dell’epoca nostra”, riassuntiva di tesi già enunciate in encicliche, lettere e allocuzioni pastorali.

 

Il documento era di un’estrema sintesi, che verteva su materie vastissime, dalla storicità dei Vangeli alla libertà di coscienza, dal potere temporale alla condanna dell’affermazione che il papa può e deve riconciliarsi con il progresso, il liberalismo e la cultura moderna (illuminismo, razionalismo, socialismo, comunismo, positivismo, ecc). Pio IX forse, credendo di individuare nel liberalismo l’errore del secolo, non fu più in grado di stabilire la radicale differenza che passa tra il liberalismo cattolico e il liberalismo tout court.

 

Non stupisce quindi come all’epoca la pubblicazione del Sillabo abbia suscitato molte critiche tanto da mettere in ombra la questione romana e suscitare nuove discussioni sui rapporti fra Chiesa e mondo moderno. Molti storici dell’epoca, vicini alle posizioni del pontefice, come Francesco Panella, Pietro Balan, il gesuita P. Schrader e molti altri, tessero l’elogio del Pastore che “sradica le erbe cattive e allontana il gregge dai pascoli avvelenati”, collocando Pio IX sulla scia dei grandi pontefici campioni dell’indipendenza del papato: Gregorio VII, Innocenzo III, Pio VII. Al contrario i liberali si scagliarono contro Pio IX: alcuni lo indicarono come un’ottima persona, tuttavia limitata, che non comprendeva assolutamente niente dello spirito del suo tempo; altre posizioni furono più violente.

 

La critica più dura è probabilmente quella che gli rivolse Mazzini, sostenendo che “la sua fede è l’ira abietta dell’uomo che vorrebbe vendicarsi col rogo degli assalitori e non può”. In molti paesi, come la Francia di Napoleone III, venne proibita la pubblicazione dell’enciclica e simili provvedimenti vennero presi anche dall’Italia.

 

Che questo documento presentasse dei difetti di forma è lo stesso Pio IX a riconoscerlo disponendo il bisogno di ulteriori interventi esplicativi.

 

L’avvenimento più importante nel pontificato di Pio IX è, però, il Concilio Vaticano I, la cui convocazione ebbe luogo il 29 giugno 1868. Il grande giorno dell’inaugurazione dei lavori conciliari fu l’8 dicembre 1869.

 

I vescovi presenti furono settecentosettantaquattro provenienti da molte parti del mondo. Nella terza seduta pubblica del 24 aprile 1870 venne proclamata la costituzione dogmatica sulla fede cattolica. Ma il Concilio fu caratterizzato dalla discussione sul dogma dell’infallibilità del successore di Pietro. Il 9 maggio iniziarono le consultazioni su questo argomento.

 

Ci furono centoquaranta interventi molto energici pro e contro il dogma. Prevalsero alla fine le tesi a favore del dogma, che volevano rafforzare religiosamente il papa proprio mentre la sua autorità temporale si stava dissolvendo. La decisione fu presa a larghissima maggioranza il 18 luglio 1870 dopo che i vescovi si pronunciarono con 451 Placet, 88 No Placet e 62 Placet iuxta modum (cioè con modifiche).

 

La definizione approvata dice che quando il papa annuncia una dottrina ex cathedra, cioè “quando in qualità di pastore e dottore di tutti i cristiani, in virtù della sua apostolica autorità, definisce che una dottrina riguardante la fede e i costumi deve ritenersi vera dalla Chiesa”, la dottrina diviene “irreformabile per se stessa e non in virtù del consenso della Chiesa”.

 

Anche dopo la definizione dell’infallibilità del Sommo Pontefice e del suo primato di giurisdizione su tutta la Chiesa, non mancarono critiche e plausi alla sua decisione. Molti credevano che la centralizzazione rispondesse ad una necessità oggettiva, e che nelle nuove circostanze costituisse il mezzo migliore per rafforzare la compagine ecclesiale; dall’altra parte non mancarono forti attacchi soprattutto dalla stampa francese contro l’autorità papale e il sistema di governo della Chiesa.

 

Ci furono attacchi anche d’incompetenza teologica, ambizione, autoritarismo e di remissività nei confronti dei gesuiti, che però furono respinte dalla maggioranza dei fedeli e dell’episcopato. Il papa ne usciva comunque rafforzato proprio alla vigilia del crollo definitivo del potere temporale.

 

Il Concilio venne sospeso sine die per volontà del papa il giorno dopo lo scoppio della guerra franco-prussiana, quando erano stati approvati appena due documenti. Restava ancora molto da fare, ma di li a poco la storia avrebbe portato notevoli cambiamenti e il Concilio lo avrebbe continuato qualche suo successore. Giovanni XXIII, che provava una profonda venerazione per Pio IX, considererà il Concilio da lui indetto come una prosecuzione del primo.

 

Nel settembre del 1864 i governanti italiani conclusero con Napoleone III un accordo, la cosiddetta “Convenzione di settembre”, che prevedeva il rispetto dei confini dello Stato pontificio da parte dell’Italia in cambio del ritiro delle truppe francesi dal Lazio.

 

I francesi rispettando gli accordi, avevano lasciato Roma alla fine del 1866, assicurando comunque al papa il sostegno in caso di necessità. Il contenzioso tra Corona italiana e Triregno verteva soprattutto sulla situazione della Chiesa in Italia. Molte decine di vescovi erano stati arrestati, esiliati, confinati e decine di diocesi erano senza più i propri pastori, ai quali fu proibito di prendere il possesso delle loro cattedre.

 

Un epistolario tra Vittorio Emanuele II (che nelle sue lettere si dichiarava sempre “devotissimo ed obbedientissimo”) e Pio IX, cercò di risolvere la situazione. Cominciarono una serie di incontri fra i rappresentanti di ambo le parti, ma le richieste dello Stato italiano erano considerate troppo alte dalla Santa Sede per essere accettate. Alla fine si raggiunse un accordo che prevedeva la possibilità di un ritorno graduale solo di alcuni vescovi nelle rispettive sedi.

 

Il 1866 fu un anno molto importante che vide la guerra fra la Prussia del cancelliere Otto von Bismarck e l’Austria di Francesco Giuseppe, la quale per evitare un attacco dal sud, era intenzionata a cedere all’Italia, mediante la mediazione di Napoleone III, il Veneto.

 

L’Italia non accetterà e dichiarerà guerra all’Austria: è la Terza Guerra d’Indipendenza. Nonostante le forti sconfitte per terra a Custoza e per mare a Lissa l’Italia, grazie alla mediazione francese, riuscirà comunque ad ottenere il Veneto. Anche il papa sapeva bene che all’“Italia fatta” mancava ancora un’importante lembo di terra: Roma.

 

La “Convenzione di settembre” non prevedeva missioni di aiuto al papa in caso di sommosse interne allo Stato pontificio. Conoscendo questo aspetto, il primo ministro italiano Urbano Rattazzi, che verosimilmente sperava nel ripetersi di quanto accaduto alcuni anni prima nel regno di Napoli, lasciò agire i rivoluzionari di Garibaldi in modo da intervenire poi con l’esercito regio per ristabilire l’ordine. Garibaldi e i suoi volevano provocare la sollevazione di Roma.

 

Vennero messi degli esplosivi che fecero saltare in aria parte della caserma Serristori, abitata dagli zuavi pontifici, provocando la morte di venticinque persone. I cospiratori vennero acciuffati e condannati a morte.

 

Garibaldi con i suoi uomini si avvicinò alle porte di Roma. Pio IX pronunciò parole di fuoco contro queste sommosse che vedevano l’appoggio esterno dell’esercito italiano. Napoleone III decise di intervenire con un corpo di spedizione che sbarcò a Civitavecchia.

 

Insieme a duemila uomini dell’esercito pontificio l’esercito francese, il 3 novembre 1867, inflisse una dura sconfitta nei pressi di Mentana agli uomini di Garibaldi. La conquista di Roma da parte del Regno d’Italia era solo rimandata.

 

Come già detto, il papa sospese nell’estate del 1870 il Vaticano I a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana. Napoleone III visto l’evolversi della guerra ritirò le sue truppe da Roma, senza prima però aver ottenuto dal ministro degli Esteri italiano l’assicurazione del rispetto della “Convenzione di settembre”.

 

Il 2 settembre dello stesso anno Napoleone è sconfitto a Sedan dove, due giorni dopo, verrà preso prigioniero portando così alla costituzione della Repubblica in Francia. Guglielmo I e il suo abilissimo cancelliere Bismarck poterono dichiarare la nascita del secondo Reich. Per l’Italia essendo caduto Napoleone, non sussistevano più i vincoli dell’accordo del ’64.

 

L’Italia mandò degli ambasciatori per trattare con il governo papalino. Il papa sapeva che con il suo piccolo esercito (circa tredicimila uomini) non poteva certo opporsi all’avanzata dell’esercito sabaudo. Pio IX si rese conto che la situazione era diversa da quella di vent’anni prima: ora Roma non sarebbe stata occupata da anarchici e rivoluzionari come nel ’49, ma da un esercito di un sovrano costituzionale che ne avrebbe fatta la capitale d’Italia.

 

Pio IX scelse di rimanere, ordinando di opporre una resistenza soltanto simbolica all’esercito italiano, per non creare inutili vittime. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane, comandate dal generale Raffaele Cadorna, entrarono a Roma grazie alla famosa breccia di Porta Pia e, mediante plebiscito (che per la verità vide una fortissima astensione), qualche giorno dopo ne venne sancita l’annessione all’Italia. Iniziava così la “reclusione” del papa in Vaticano.

 

Pio IX non fece mai mancare la protesta nei confronti degli “usurpatori” per la spoliazione dello Stato pontificio e il primo novembre con l’enciclica Respicientes inflisse la scomunica a tutti i responsabili della presa di Roma. Il 13 maggio 1871 a Firenze, per il momento ancora capitale del Regno, venne approvata la ben nota legge delle guarentigie, dove lo Stato italiano garantiva al Papa l’indipendenza e gli concedeva alcune prerogative tipiche dei reali.

 

Tra le altre cose, veniva garantita anche una rendita annua per il Pontefice, necessaria al mantenimento suo e di tutta la sua corte, la possibilità di avere una propria guardia personale e di intrattenere rapporti diplomatici. Come poteva essere facile immaginare il Sommo Pontefice rifiutò, con l’enciclica Ubi nos del maggio ’71.

 

Le garanzie italiane di fatto facevano dipendere la sua posizione da una legge dello Stato che sarebbe potuta essere revocata o modificata in qualsiasi momento. Il papa auspicava un ristabilimento del potere temporale che potesse garantire l’esercizio indipendente della sua missione.

 

La Chiesa, non essendo più impegnata nella gestione del potere temporale, e avendo chiesto a i cattolici con il non expedit l’astensione dalla partecipazione alla vita politica italiana, si dedica molto al sociale, con la creazione di numerose opere che lavorano soprattutto nell’ambito parrocchiale.

 

La preoccupazione del Sommo Pontefice non era tanto la perdita del potere temporale quanto le conseguenze sul piano religioso della nuova situazione creatasi con l’occupazione di Roma.

 

“Tutto ciò che domando”, diceva, “è un angolo di terra dove essere padrone”. Da qui nascerà quella che sarà poi la soluzione adottata nel 1929 con i Patti Lateranensi.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giulio Andreotti, Sotto il segno di Pio IX, Rizzoli, Milano 2000

Roger Aubert, Pio IX e il Risorgimento, in: I personaggi della storia del Risorgimento, Marzorati, Milano 1976

Paolo Della Torre, Pio IX e Vittorio Emanuele II, Edizione Istituto di Studi Romani, Roma 1972

Josef Gelmi, I Papi, Rizzoli, Milano 1986

Arturo Carlo Jemolo, Gli uomini e la storia, Edizioni Studium, Roma 1978

Giacomo Martina, Pio IX, Università Gregoriana Editrice, Roma 1974

Alceste Santini, Dizionario dei PAPI e del Papato, ElleU Multimedia, Roma 2000

Andrea Tornielli, Pio IX l’ultimo papa re, “Il Giornale” Biblioteca storica, Milano 2004

 



 

 

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