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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

Il Piano Marshall
la “ricostruzione” europea

di Lorenzo Tacconi

 

Al termine della guerra la situazione generale dell'Europa sembrava avvantaggiare il comunismo: la disperazione facilitava la diffusione di idee socialiste e i partiti di sinistra predominavano in tutti i fronti antifascisti. La speranza di creare un baluardo contro l'espansione sovietica verso Occidente cadde assieme al crollo dell'Impero Britannico.

 

Il Piano Marshall, garantendo la ripresa e la stabilità dei governi, arginò l'impeto delle sinistre e scongiurò qualsiasi tentativo espansionistico da parte di Mosca.

 

Secondo D.W. Ellwood (1994) la minaccia di una diffusione del comunismo su tutto il continente va ridimensionata. L'Unione Sovietica, più che intenzionata ad espandersi verso Occidente, si proponeva di rafforzare il proprio controllo sull'Europa orientale per motivi difensivi, mentre per quanto riguarda i partiti comunisti questi non erano realmente intenzionati a dar vita ad un'insurrezione armata: gli avvenimenti greci del 1944, in cui le truppe inglesi avevano soffocato le forze comuniste, avevano altresì rafforzato in tutti i leader degli schieramenti di sinistra la convinzione dell'impossibilità di un esito vittorioso della rivoluzione. Se è vero inoltre che nel dopoguerra i partiti comunisti occidentali avevano aumentato notevolmente i propri consensi (soprattutto in Francia e Italia), è vero anche che i partiti comunisti furono battuti alle elezioni del '46 dai rivali partiti socialisti (ad eccezione della Francia), e dovettero ovunque fare i conti con la rinata forza di massa dei partiti cristiano-democratici. La minaccia rivoluzionaria era quindi minore rispetto ai timori americani.

 

Nel dopoguerra i partiti comunisti, inoltre, consideravano prioritaria la necessità di continuare la collaborazione con tutte le altre forze antifasciste al fine di riconvertire al più presto l'economia e introdurre libere elezioni. In Italia “il PCI e la CGIL furono le forze più efficaci nel frenare l'impulso insurrezionale nelle fabbriche e nel favorire la smobilitazione degli organi politici della Resistenza”; gli scioperi furono soltanto “esplosioni spontanee della massa dei lavoratori contro l'ozio forzato e contro la situazione generale” (D.W. Ellwood 1994, 59). Nel caso poi della Francia fu il governo a sfruttare la paura del comunismo per ottenere aiuti economici dagli americani. La delegazione capeggiata da Léon Blum e Jean Monnet, che nella primavera del 1946 si recò a Washington, agitò lo spettro del comunismo per ottenere dal Congresso un credito di 650 milioni di dollari, a cui si aggiungevano 550 milioni che la Francia aveva ottenuto pochi mesi prima della Export-Import Bank.

 

I capitali americani furono comunque essenziali nel mantenere la stabilità politica: i finanziamenti del Piano Marshall consentirono ai governi europei di evitare, a causa della carenza di moneta, politiche economiche austere, scongiurando così possibili tensioni sociali dovute a eventuali compressioni di salari e consumi (F. Romero, 2009).

 

L'impegno americano nel contrastare l'influenza sovietica in Europa e i consensi ai partiti comunisti occidentali incrementò con lo sviluppo della logica bipolare e l'escalation della guerra fredda. Nel corso del '46 le relazioni diplomatiche con l'URSS peggiorarono drasticamente: portare avanti la cooperazione alleata era diventato sempre più difficile dopo la fine del nazi-fascismo; le due superpotenze avevano inoltre idee diverse sulle politiche da attuare nei territori occupati e soprattutto non vi era accordo sul futuro della Germania. Nel marzo del '47 Truman sostenne davanti al Congresso la necessità di “aiutare i popoli liberi a mantenere le loro libere istituzioni e la loro integrità nazionale di fronte ai movimenti aggressivi che cercavano di imporre loro un regime totalitario”. Esemplificative e chiare delle intenzioni americane furono le conclusioni del discorso:

 

“Il germe del totalitarismo è alimentato dalla sofferenza e dalla miseria. Si diffonde e cresce nel cattivo terreno della povertà e della discordia. Raggiunge la piena crescita quando nel popolo la speranza di una vita migliore è morta. Noi (americani) dobbiamo tenere in vita questa speranza” (Testo in DAFR, vol. IX, 1947, p. 650).

 

Fu il generale Marshall ad annunciare, il 5 giugno '47 ad Harvard, il ricorso ad uno speciale programma di aiuti, della durata di quattro anni, per favorire la ricostruzione e la ripresa in Europa; l'ERP fu proposto alla Conferenza di Parigi (luglio '47) e fu accettato da 16 paesi. Nella loro relazione finale gli stati partecipanti chiesero un finanziamento di 19 miliardi di dollari, mentre il Congresso americano approvò lo stanziamento di 5 miliardi per il primo anno, proponendosi di stabilire via via le quote successive.

 

Attraverso una scommessa calcolata il Piano fu proposto anche all'URSS, ma Stalin non accettò. La rinascita della Germania e il suo inserimento in un sistema di pianificazione continentale era un obiettivo inammissibile per i sovietici. L'URSS si ritirò così dalla Conferenza di Parigi, costringendo i paesi satelliti a fare altrettanto, e nel settembre del '47 creò il Cominform. La sovietizzazione dei paesi dell'Europa orientale, il cui atto culminante fu il colpo di stato di Praga del 1948, fu completata di lì a poco.

 

Secondo M.P. Leffler (2010) l'effetto immediato dell'ERP fu proprio quello di acuire la “scissione dell'Europa”, rendendo più stringente il controllo sovietico sul blocco orientale.

 

Per W.I. Hitchcock (2010) invece i paesi occidentali si erano già da tempo convinti che la divisione del continente fosse ormai irreversibile, e sia gli inglesi che i francesi chiesero insistentemente agli Stati Uniti di mantenere la propria presenza in Europa, timorosi di ritrovarsi i sovietici alle porte.

 

Quello che è certo è che il Piano Marsahll segnò un punto di non ritorno: l'URSS, interpretando l'ERP come un'offensiva americana per l'egemonia economica e strategica, irrigidì la propria linea politica, ordinò ai partiti comunisti occidentali di iniziare una campagna di propaganda contro gli aiuti americani e denunciò la riforma monetaria del '48 come una violazione degli accordi di guerra; il “blocco di Berlino” fu la disperata reazione sovietica contro l'imminente nascita di un nuovo stato tedesco autonomo e integrato nel blocco occidentale.

 

Dietro alla decisione di erogare sovvenzioni all'Europa gli Stati Uniti, oltre a motivazioni morali e valutazioni politiche, celarono anche un calcolo economico: l'economia americana aveva bisogno di partner commerciali e mercati in cui esportare i propri prodotti per continuare l'espansione del tempo di guerra. L'Europa rappresentava, in questo senso un potenziale immenso. C. Keyder (1985) parla non a caso di “keynesismo internazionale” per indicare come i fondi americani, attraverso la mediazione dello stato nazionale, dovevano servire ad allargare la domanda e aumentare il potere d'acquisto dei paesi europei, agevolando così le esportazioni americane.

 

Il Piano Marshall conteneva anche l'ambizione a lungo termine di integrare l'economia europea in un'unica area di libero scambio, arrivando a introdurre nel Vecchio continente un sistema federale simile a quello americano. Un'ambizione questa che andava oltre il contenimento del comunismo. “La tendenza astratta, wilsoniana, rooseveltiana, ad applicare la soluzione originale statunitense ai problemi mondiali di conflitto e di sviluppo si era lasciata alle spalle le utopie delle Nazioni Unite e di Bretton Woods e aveva trovato ora una nuova incarnazione nel Piano Marshall” (D.W. Ellwood, 1994, 130).

 

All'obiettivo dell'integrazione europea si frapponevano tuttavia diversi ostacoli, primi fra tutti l'opposizione della Francia alla ripresa tedesca e la volontà di ciascuno stato di non cedere parte della propria sovranità economica ad un organismo internazionale. L'Inghilterra era in prima fila in questa battaglia: si rifiutava di attuare modifiche all'area della sterlina, impedendo la possibilità di costruire un nuovo sistema di pagamenti europei che avrebbe inserito anche la Germania in nuova rete commerciale, e soprattutto si ostinava a non riconoscere l'autorità dell'OECE.

 

Il Piano Marshall, incrementando le esportazioni intraeuroepe tre il '48 e il '50, creò comunque una situazione di fatto che rese più vicino il Mercato comune. Allo stesso tempo l'opera di Monnet e il Piano Schuman favorirono la riconciliazione franco-tedesca e anticiparono la nascita della CECA (luglio 1952).

 

La comunità economica europea doveva essere completata da un patto di mutua difesa. Il Piano Marshall diede quindi l'impulso alla creazione di piani per la sicurezza dell'Occidente. Fu Bevin a convincere il Congresso che senza la partecipazione americana qualsiasi sistema di sicurezza sarebbe stato un guscio vuoto. Nell'aprile del '49 nacque così la NATO.

 

La Guerra di Corea rappresentò un punto di svolta, decretando la fine anticipata del Piano Marshall. Gli aiuti americani da sostenere la crescita economica furono destinati a finanziare le spese militari. Secondo M. Hogan (1987) ciò non rallentò il cammino di sviluppo intrapreso dai paesi europei perché le spese per la difesa stimolarono la produzione industriale. L'enorme quantità di reddito destinata al riarmo, assieme agli alti prezzi dei beni importati, produssero anche un processo inflattivo che erose la bilancia commerciale dell'intera Europa.

 

Gli Stati Uniti per rafforzare il contenimento disposero il riarmo della Germania e la sua integrazione nella NATO ma i paesi europei si opposero. L'integrazione militare dell'Europa, resa ancor più urgente dall'intensificarsi della guerra fredda, fu rimandata fino al 1955 perché i secolari timori di Francia e Inghilterra e la loro tradizionale rivalità verso la Germania non si erano ancora placati. La costruzione di un Europa unita è stato un cammino lungo e tortuoso, reso ancora più difficile dalla persistenza di interessi particolari da parte di ciascuno stato.

 

Dai progetti globali ai piani per l'Occidente

 

Per gli Stati Uniti era chiaro che la futura stabilità mondiale dipendeva sia dalla diffusione di regimi democratici, sia da obiettivi economici, quali la creazione di condizioni internazionali di benessere e prosperità diffuse, migliori condizioni di vita e alti tassi di occupazione a livello globale. Nella stessa Carta Atlantica (agosto 1941) vennero indicati futuri obiettivi economici: nell'Articolo 5 i paesi firmatari si proposero di “realizzare la piena collaborazione tra tutte le nazioni nel campo economico, con lo scopo di assicurare a tutti un miglioramento nelle condizioni di lavoro, il progresso economico e la sicurezza sociale”.Tanta era la convinzione e l’ambizione in questo senso che l’esperienza del New Deal doveva essere esportata addirittura in tutto il mondo. E l'Europa era pronta a risorgere su basi nuove.

 

A Ginevra nel 1944 i rappresentati dei movimenti di Resistenza di mezza Europa firmarono un documento che prevedeva la riorganizzazione delle relazioni internazionali nel senso del federalismo e di una maggiore collaborazione economica. In particolare le costituzioni del dopoguerra di Francia, Italia e Germania occidentale riconobbero la necessità di limitare la sovranità nazionale per consentire la nascita di organismi sovranazionali in grado di disciplinare i rapporti tra gli stati, favorire lo sviluppo comune e preservare la pace. Come spiega D.W. Ellwood gli stati europei si apprestavano a introdurre un “un compromesso tra l'indipendenza nazionale e l'interdipendenza economica” (D.W. Ellwood 1994, 35). Un primo passo in questo senso fu compiuto nel luglio del 1944 quando i paesi alleati istituirono con gli accordi di Bretton Woods il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale per promuovere la liberalizzazione commerciale e valutaria.

 

Le forze politiche che stavano per salire al governo in Europa erano accomunate anche dalla volontà di modernizzare le strutture produttive. Il rapporto Alphand del 1941 e il successivo piano Monnet furono ispirati proprio dall'idea di introdurre elementi di modernizzazione nell'economia francese. Anche in Belgio, Olanda e Danimarca furono elaborati, nella fase conclusiva della guerra, piani per la nazionalizzazione e lo sviluppo. “In Europa”, scrive D.W. Ellwood, “le persone che si apprestavano ad esercitare il potere dopo la guerra avevano elaborato un ordine del giorno comune: evitare gli errori del passato; pianificazione; welfare state; modernizzazione” (D.W. Ellwood 1994, 28)

 

In Italia invece la situazione era in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi europei: davanti alle macerie della guerra tra gli uomini politici prevaleva la convinzione dell'inutilità di piani per lo sviluppo. La tendenza attendista dei gruppi dirigenti deriva, tra l'altro, anche dal ripudio verso l'insistente retorica fascista sulla modernizzazione e “contro il pesante apparato di enti statali, organizzazioni e sistemi di protezione che sembravano inseparabili da essa” (D.W. Ellwood 1994, 29). Anche il PCI che sosteneva la necessità di una riforma strutturale dell'economia, intendeva la modernizzazione solo come superamento dell'autarchia fascista e dei monopoli industriali.

 

Al termine della guerra la situazione dell'Europa era indicibilmente grave, e ogni piano progettato per l'integrazione e lo sviluppo dovette essere abbandonato davanti a un dramma così vasto. La popolazione civile era ridotta alla fame, le vie di comunicazione e i trasporti avevano subito danni incalcolabili, gli scambi tra la città e la campagna si erano interrotti, il denaro aveva perso il suo potere d'acquisto e a ogni angolo fiorivano mercati neri. Il commercio triangolare tra gli stati Europei e le colonie si era spezzato e la possibilità di importare in Europa materie prime e rifornimenti dall'estero era pregiudicata dalla mancanza di dollari (“dollar gap”); in tutto il continente inoltre mancava il carbone e le tensioni sociali sembravano sul punto di esplodere. Ovunque si susseguivano scioperi a ripetizione, saccheggi ai panifici e assedi alle prefetture per protestare contro il razionamento e la mancanza di lavoro. Dei complessi piani di modernizzazione non rimase traccia alla fine del '46 e i controlli del tempo di guerra furono mantenuti anche dopo la fine del conflitto. “Il futuro dell'Europa”, commenta D.W. Ellwood, “non era mai sembrato tanto lontano: gli ambiziosi progetti di riforma dovevano essere accantonati, e il miglioramento del tenore di vita e l'unificazione europea sembravano ora sogni lontani e irrealizzabili” (D.W. Ellwood 1994, 48).

 

Le stesse istituzioni internazionali che dovevano sorreggere il nuovo ordine mondiale entrarono in crisi nel '47: la Banca mondiale, la Import-Export Bank e il Fondo monetario internazionale non riuscirono a superare difficoltà strutturali e a finanziare la ricostruzione. Nessuna potenza, compresi gli Stati Uniti, era inoltre pronta ad affidare la sicurezza nazionale al voto di maggioranza delle Nazioni Unite.

 

Con lo sviluppo della Guerra Fredda gli Stati Uniti abbandonarono gli ambiziosi progetti del tempo di guerra e si limitarono a garantire lo sviluppo e la sicurezza dell'Occidente. La stabilità dell'Europa era però impossibile senza la ripresa della Germania: il Piano Marshall pose così le basi per riavviare l'economia tedesca e per la creazione di uno stato autonomo nella parte occidentale. La fusione della zona di occupazione americana con quella inglese (Bi-zona) si era resa ancor più necessaria visto il crollo economico della Gran Bretagna e il suo stallo nella politica tedesca.

 

I progetti americani di creare delle istituzioni sovranazionali, a imitazione della propria struttura federale, e l'unificazione del mercato europeo vennero ristrette all'Occidente, al meno fin quando l'“orso sovietico” non sarebbe stato abbattuto. “L'universalismo da New Deal”, scrive D.W. Ellwood, “fu ridimensionato per aderire a una nuova e più circoscritta visione del mondo, suddivisa in blocchi regionali”(D.W. Ellwood 1994, 114).

W.I. Hitchoch (2010) parla non a caso di “Cration of the West” per indicare il fatto che l'ERP non solo favorì l'integrazione economica e pose le base per una futura Europa politicamente unita, ma contribuì anche alla diffuse di stili di vita, aspettative e modelli comportamentali comuni, trasformando l'Occidente in uno schieramento economico coeso, un'alleanza politica e un sistema di valori condivisi.

 

L'impatto del Piano Marshall sull'economia europea

 

Alla Conferenza di Parigi W. Clayton cercò di convincere i paesi europei ad accettare un piano di ricostruzione collettivo che garantisse la libertà di commercio e l'integrazione europea. Gli aiuti americani furono però utilizzati da ciascun governo in base alle esigenze nazionali, prestando poca attenzione alle proposte di spesa dei consiglieri americani. Sugli obiettivi collettivi del Piano Marshll e sulla collaborazione tra i paesi prevalsero gli interessi particolari degli stati e le vie nazionali. “Gli europei”, commenta M. Hogan, “si rifiutarono di impegnarsi in una programmazione congiunta o di adattare i piani nazionali di produzione ai bisogni dell'Europa” (M. Hogan 1987, 55)

 

In Francia i finanziamenti americani furono utilizzati per sostenere il Piano Monnet, per coprire il debito nazionale, aggravato dalla mancanza di un sistema fiscale efficiente, e soprattutto per comprare materie prime e macchinari industriali per far ripartire la produzione. Gli obiettivi di modernizzazione furono perseguiti all'interno di una strategia di pianificazione centrale, resa possibile grazie alla nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia. A partire dal '50 gli investimenti pubblici iniziarono poi a diminuire in modo da favorire la ripresa dell'iniziativa privata e il ritorno all'economia di mercato.

 

In Gran Bretagna i fondi ERP furono destinati per il 30% all'acquisto di materie prime e prodotti alimentari, mentre il resto fu utilizzato per ripianare il debito nazionale. Il partito laburista edificò un poderoso sistema di welfare state, ma la fragile economia britannica non riuscì a sorreggerlo per molto. La pianificazione economica, a differenza della Francia, fu considerata un mezzo per garantire la sicurezza e la stabilità sociale piuttosto che la modernizzazione della produzione.

 

In Italia la Democrazia cristiana prese le distanze dalle politiche stataliste del periodo fascista e il governo non investì grandi somme nello sviluppo economico, contribuendo così ad aumentare la disoccupazione e a rallentare la crescita. Luigi Einaudi cercò di far quadrare il bilancio dello stato e il deficit commerciale tagliando la spesa pubblica e rafforzando la moneta. Secondo W.I. Hitchock (2010) il Piano Marshall non servì a salvare il paese dalla crisi: i finanziamenti americani furono consistenti (577 milioni di dollari in totale) ma non furono investiti nell'aumento della produzione.

Secondo J.L. Harper, la classe politica italiana, espressione di interessi disparati e contraddittori, era decisa ad assumere il controllo degli aiuti esterni a vantaggio delle rispettive clientele, rafforzando il proprio controllo sullo Stato. La coalizione di governo, capeggiata dalla democrazia cristiana, “fu incapace di progettare un coerente programma di sviluppo e riforme sociali (J.L. Harper 1987, 306).

 

In Germania nel '48 iniziò il “miracolo economico”: la produzione triplicò, la disoccupazione scese dal 10% a meno di un quarto, le esportazioni sestuplicarono, mentre il PIL crebbe ad un tasso medio del 7,9% annuo. Gli storici divergono sulle cause alla base di tale sviluppo: per alcuni la ripresa iniziò con la riforma monetaria e fu sostenuta grazie agli aiuti americani; per altri invece i finanziamenti esterni non furono decisivi e la produzione decollò prima dell'introduzione del Deutsche-Mark.

 

 Secondo W. Abelshauser (1982) solo il 5% degli impianti industriali era andato distrutto durante la guerra e una volta che il governo militare ristabilì il sistema dei trasporti e provvide ai rifornimenti di carbone le industrie si rimisero in moto. D.W. Ellwood (D.W. Ellwood 1994) sostiene al contrario che fu riforma monetaria a far decollare gli investimenti e a stabilizzare l'economia.

 

Ad oggi gli storici dibattono se il Piano Marshall fu indispensabile a far uscire i paesi dalla crisi o se una tendenza alla ripresa era già presente in Europa.

 

Secondo A. Milward (1984) alla fine del '47 Francia e Inghilterra avevano già superato i livelli di produzione antecedenti alla guerra, mentre Italia, Belgio e Olanda si apprestavano a raggiungere tale traguardo entro la fine dell'anno successivo. Quando i fondi americani arrivarono in Europa la produzione era in buona parte già riavviata. Il Piano Marshall fu quindi fondamentale non per far ripartire le industrie ma per superare il deficit di dollari, permettendo così di importare materie prime e permettere all'Europa di proseguire il lungo cammino di espansione che durò fino agli anni '60.

 

C. Maier (1981) sostiene al contrario che senza un programma di aiuti l'economia europea non si sarebbe risollevata: il denaro degli Stati Uniti fu come il lubrificante di un motore che altrimenti si sarebbe inceppato.

 

Gli storici non concordano nemmeno su chi abbia trainato la ripresa. Per Milward (1984) furono gli investimenti privati e non le politiche keynesiane dei governi a guidare il rinnovamento economico. Secondo D.W. Ellwood (1994) senza gli aiuti americani non si sarebbe ricreato quel clima di fiducia che permise ai privati di tornare a investire.

 

Secondo M.M. Postan (1967) il Piano Marshall fu “il prodotto di una strategia e cultura della crescita”: “strategia” perché l'introduzione nel Vecchio Continente del modello economico americano basato sullo sviluppo continuo avrebbe consentito di vincere la competizione con il sistema sovietico, e “cultura” perché nel dopoguerra la crescita economica era diventata un credo universale, una comune aspettativa di tutti i popoli europei.

 

C. Maier (1981) sostiene che la “crescita economica” era il concetto chiave che ispirò la politica americana in Europa. Gli Stati Uniti erano convinti che la solo lo sviluppo economico avrebbe reso possibile stabilizzare le democrazie liberali e instaurare un'“egemonia consensuale”. La crescita di redditi, consumi e occupazione avrebbe permesso di creare un modello di società in cui i rapporti antagonistici tra le classi sarebbero stati riconciliati. Tuttavia l'idea della “crescita” dovette in Europa mediare e accordarsi con le particolari condizioni di “capitalismo di welfare state”, estranee agli Stati Uniti.

 

Conclusioni

 

Dare un giudizio netto e complessivo sui risultati del Piano Marshall non è certo semplice.

 

Secondo i calcoli e le previsioni degli Stati Uniti l'ERP avrebbe dovuto produrre risultati immediati: aumentare di colpo la produzione, risolvere i problemi dei trasporti, degli alloggi, dell'energia, dell'industria, e arginare i voti a partiti comunisti. Tuttavia alcuni di questi obiettivi furono raggiunti solo parzialmente e altri dovettero essere rinviati.

 

L'obiettivo della piena occupazione, promosso durante la guerra, non si realizzò. La disoccupazione continuò a persistere soprattutto nel settore agricolo, e il divario tra l'Europa nord-occidentale, con carenza di manodopera diffusa, e i paesi del Mediterraneo, dove invece la disoccupazione era incrementata rispetto all'anteguerra, aumentò notevolmente.

 

Con l'espansione della produzione industriale i beni di consumo tornarono gradualmente in circolazione, ma i viveri e gli alloggi rimasero un grave problema fin dopo l'inizio degli anni '50.

 

Le politiche economiche espansionistiche, messe in atto da governi alla ricerca di legittimità e consenso, ebbero come conseguenza immediata quella di innescare processi inflattivi. Mentre in Germania la riforma monetaria consentì l'attuazione di una riforma fiscale che avvantaggiò soprattutto i ricchi, aumentando la sperequazione sociale (D.W. Ellwood 1994, 183-185).

 

Alla fine del '49 il volume complessivo del commercio degli stati membri dell'ERP ritornò ai livelli precedenti alla guerra, e vi fu anche un aumento del 50% degli scambi intraeuropei rispetto ai due anni precedenti. Tuttavia le esportazioni verso gli Stati Uniti si ridussero: nel '49 i paesi occidentali esportarono oltreoceano beni per un valore di 1,5 miliardi di dollari, mentre le esportazioni statunitensi in Europa superarono i 4 miliardi, causando un disavanzo nelle bilance dei pagamenti e allontanando la possibilità di ripristinare l'equilibrio commerciale con l'area del dollaro.

 

Da un punto di vista economico gli aiuti americani consentirono di garantire e puntellare la ripresa in Europa, ma non riuscirono ad assicurare la stabilità finanziaria, l'equilibrio nella bilancia dei pagamenti e la fine dell'inflazione. Questi erano però obiettivi al di fuori della portata del Piano Marshall e non risolvibili nell'arco di tre o quattro anni, senza imporre sacrifici insostenibili per la popolazione europea. Gli sforzi per ripristinare la stabilità finanziaria furono inoltre annullati dall'aumento delle spese militari dopo lo scoppio della guerra di Corea.

 

Per quanto riguarda il crollo dei consensi ai partiti di sinistra questo non ci fu: se è vero che furono cacciati dai governi, questi mantennero lo stesso un forte radicamento nella società. Soltanto nel '56, dopo l'appoggio dato all'invasione dell'Ungheria, i partiti comunisti persero numerosi consensi in Francia e Italia.

 

Per contrastare il comunismo gli Stati Uniti non rinunciarono a ingerire pesantemente negli affari interni degli altri paesi. In Italia, durante la campagna elettorale del '48, fu mobilitato un poderoso apparato propagandistico e furono predisposti piani per un eventuale sbarco in Sicilia e Sardegna. Il 20 marzo Marshall ammonì che nel caso di vittoria del Fronte Popolare i finanziamenti sarebbero stati sospesi; il futuro di Trieste sarebbe anch'esso dipeso dell'esito elettorale (P. Ginsborg 1989, 153).

 

La politica americana verso l'Italia, secondo J.L. Harper, registrò comunque un innegabile successo: “la generosità materiale e la presenza militare degli Stati Uniti consentirono di evitare il crollo politico e il caos economico verificatosi dopo la prima guerra mondiale” (J.L. Harper 1987, 308).

 

Gli aiuti americani furono parte integrante della logica del conteniment e della “Dottrina Truman”, ma attraverso il Piano Marshall gli Stati Uniti dimostrarono di essere l'unica potenza in grado di assumersi i costi e le responsabilità della ricostruzione e della difficile realizzazione di un nuovo ordine mondiale. Il Piano Marshall terminò in un momento in cui l'economia europea era travagliata dall'inflazione e dal deficit di bilancio, ma gli aiuti ERP contribuirono lo stesso a porre le basi per il boom degli anni '50. In un decennio le nazioni distrutte dalla guerra rivoluzionarono consumi e produzione, avvicinandosi all'American way of life. I beni di consumo, dagli elettrodomestici alle automobili alle televisioni, si diffusero infatti presso ogni famiglia, i ceti medi si irrobustirono grazie allo sviluppo di attività finanziarie e dei servizi, e l'ottimismo crebbe parallelamente assieme alla patina di benessere che ricoprì il continente.

 

Secondo R. Aron, l'ERP ebbe anche un effetto psicologico sulla popolazione civile, perché contribuì a restaurare un senso di fiducia e speranza nell'avvenire: il nuovo clima di solidarietà creò un'occasione senza precedenti per realizzare ciò che per secoli era stato il sogno dei filosofi e che ora era un'imperiosa necessità della storia: l'unità dell'Europa.

 

Per quanto riguarda il ruolo dall'OECE bisogna considerare che se anche non riuscì a diventare il governo economico dell'Europa e se le svalutazioni del '49, attuate senza la sua consultazione, annullarono ogni piano previsto per ripianare i deficit degli stati, dopo il declino di Bretton Woods e dell'ONU si era creato, scrive Ellwood, “un vuoto nella gestione dei rapporti economici internazionali che l'OECE contribuì a colmare, fungendo da punto di incontro per gli scambi tra gli esperti sulle tendenze, i problemi e le strategie” (D.W. Ellwood 1994, 212)

 

Al di là quindi dell'impatto che il Piano Marshall ha avuto sull'economia europea nell'immediato, il suo significato storico è quello di aver rappresentato la prima tappa verso la costruzione di una consolidata comunità di idee, di legami economici e di sicurezza tra i paesi europei, e tra questi e gli Stati Uniti.



 

 

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