.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

.

contemporanea


N. 86 - Febbraio 2015 (CXVII)

PRIMA DI PIERSANTI
STORIA DI "UN ALTRO" DEMOCRISTIANO ONESTO

di Giuseppe Tramontana

 

La storia è nota. E, quindi, come direbbe il filosofo, poco conosciuta. È una storia che mi è tornata in mente in questi giorni.

 

A furia di parlare del neo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del fratello buono, vulcanico ed integerrimo Piersanti (un po’ meno, a dire il vero, dell’altro fratello, Antonino), mi è tornata in mente la storia di un altro democristiano, un democristiano onesto e integerrimo. Ed uno così – in Sicilia specialmente – non è mai stata merce a buon mercato.

 

L’hombre vertical di cui ci occupiamo ha – o meglio, aveva – un nome e un cognome: si chiamava Pasquale Almerico, era scapolo, aveva quasi 43 anni. E, soprattutto, era una persona onesta.

 

Per questo la sua storia è degna di essere raccontata e ri-raccontata. Affinché la gente sappia, ricordi e, soprattutto, capisca che, spesso, in Italia, il problema dei problemi si chiama onestà. O, se volete, dirittura morale.

 

La sera del 25 marzo 1957, Pasquale Almerico, 43enne, maestro elementare, da circa due anni sindaco di Camporeale, comune di settemila anime alle porte di Palermo, e segretario cittadino della DC, era appena uscito dal “Circolo Italia”, un circolo di borghesi masticatori di avvizzite chiacchiere paesane, e stava percorrendo Via Minghetti, in pieno centro.

 

Ormai ci andava di rado in quel circolo. Anche se, ultimamente, aveva deciso di rompere quella vita da quaresima che si era imposto e fare quello che gli piaceva di più: stare tra la sua gente.

 

Che le cose andassero come dovevano andare: meglio morire all’impiedi che vivere in ginocchio, come aveva detto un grande sindacalista ucciso una decina d’anni prima. E Pasquale, alla fine, aveva scelto la strada da seguire.

 

Quella sera del 25 marzo 1957, la televisione trasmetteva - ovviamente in bianco e nero - le immagini della storica firma del Trattato del Mercato Comune Europeo, il cosiddetto Trattato di Roma.

 

Ma, allora, ad avere i televisori in casa erano rari e la gente si ritrovava nei circoli o nelle sale parrocchiali per non perdersi gli spettacoli. E quella sera proprio a quella storica firma aveva assistito Almerico davanti alla tv del Circolo “Italia”. Certo, di preoccupato era preoccupato, ma, visto che era in ballo, doveva ballare.

 

Lo stato d’ansia era cominciato quando, alcuni mesi prima, si era presentato in segreteria un tipo poco raccomandabile, don Vanni Sacco si chiamava. Secco come un’acciuga, coppola nera, scuro di vestiti e di sentimenti, taciturno e sordido come un rancore, don Vanni era il boss riconosciuto della mafia di Camporeale.

 

Pasquale Almerico lo sapeva. E come faceva a non saperlo? Ecco perché quando don Vanni aveva tirato fuori dalla tasca della giacca quattrocento domande di iscrizione alla DC, lui aveva deciso di rifiutare, d non accettarle.

 

Quattrocento iscrizioni, quattrocento tessere! Un successone per la DC di Camporeale, paese in cui per tradizione era forte il vecchio notabilato liberale e monarchico. Eppure, Almerico non aveva esultato. Anzi.

 

Lui sapeva cosa voleva dire quella mossa. Voleva dire che don Vanni e la sua cricca non trovavano più attraente i vecchi liberali di Vittorio Emanuele Orlando. Non lo trovavano attraente perché non se li filava quasi più nessuno. I tempi erano cambiato e anche le referenze, i garanti e i padrini politici.

 

Di conseguenza, anche i voti e gli appoggi stavano cambiando casacca e bandiera. E, così stava mutando l’influenza nella vita politica, nell’amministrazione, nell’assegnazione degli appalti e dei subappalti, nella possibilità di condizionare la vita di centinaia, migliaia di esseri umani, decretandone la sottomissione e l’infelicità.

 

Almerico sapeva tutto questo e sapeva che ormai era una questione di tempo: i mafiosi erano passati in massa dai vecchi, arrugginiti partiti monarchico e liberale alla nuovo, rampante, spregiudicata DC, il nuovo partito di governo e,. soprattutto, di potere.

 

Era lì che lo avevano fiutato, il potere, ed era lì che si stavano fiondavano. Anzi si azzeccavano, come si dice in siciliano.

 

Il segretario sapeva tutto questo. Avrebbe potuto far finta di nulla e accettare le iscrizioni, ma non era nella sua indole. La mattina, lui, voleva continuare a guardarsi allo specchio senza vergogna e senza conati. Quindi, tutto, ma di far finta di nulla non se ne parlava.

 

Era un cattolico praticante, uno di quelli che aveva scelto di fare politica per passione e spirito di servizio e aveva scelto di farla nella DC perché era il partito che incarnava (o avrebbe dovuto farlo) gli autentici valori cristiani.

 

I valori dell’aiuto ai più bisognosi, della solidarietà, dell’altruismo, della lotta alla miseria. E questi valori non si piegano al potere né lui si sarebbe sottomesso ai mafiosi mettendo il paese nelle loro mani. E così aveva detto no.

 

Don Vanni e i suoi accoliti non l’avevano presa bene. Avevano fatto sapere che se non avesse accettato le tessere, per lui sarebbero stati problemi. Problemi seri. Ma Almerico non si fece impressionare. Anzi, pensò di informare i vertici della Dc.

 

Prima la DC provinciale e poi quella regionale. Lì gli avrebbero dato aiuti e consiglio, avrebbe trovato sostegno e sponda. Lì avrebbe trovato solidarietà. Male cose non erano andate così.

 

Né Nino Gullotti, segretario provinciale, né Giovanni Gioia, proconsole fanfaniano in Sicilia, avevano dato credito all’allarme di Almerico. O meglio, Gioia, a dire il vero, gli aveva dato credito solo che, per lui, quella di Vanni Sacco era tutt’altro che una minaccia: era un’opportunità.

 

E l’aveva detto a chiare lettere al povero ex sindaco. Gli aveva telefonato dal suo quartier generale palermitano e gli aveva impartito la più classica delle lezioni di realismo politico: “Caro Almerico,” gli aveva detto, con paludato tono partenalistico, “qui a Palermo capiamo i suoi dubbi, le sue perplessità, ma sa il patito ha bisogno di partiti con cui coalizzarsi. Ha bisogno di crescere, se vuole affermate i suoi valori, le sue strategie. Se vuole fermare i comunisti. Lei forse non si è reso conto che il partito ha bisogno di compromessi: senza compromessi non si va da nessuna parte”.

 

E gli aveva consigliato, nel caso stentasse a capire o non condividesse la linea politica di Palermo, di farsi da parte: che se ne andasse e lasciasse la segreteria a qualcuno di più duttile, di più accomodante.

 

Amareggiato, minacciato, isolato, Almerico però a dimettersi non ci aveva nemmeno pensato. Anzi, aveva scritto un paio dossier nei quali cui faceva nomi e cognomi e nei quali avvertiva del proprio eventuale, probabile assassinio.

 

I dossier li inviò a Palermo e a Roma. Poi iniziò a vivere nell’attesa della morte. All’inizio alcuni amici, armati, lo accompagnavano quando uscivano. Una sera, due sere, tre sere, una settimana, un mese. Poi, si sa come vanno queste cose, la gente ha anche altri impegni, ha famiglia, moglie, figli, la visita ai parenti, il suocero all’ospedale, l’appuntamento dal dottore… e alla fine si ritrovò da solo. E da solo, o quasi, andò incontro alla morte.

 

Finita la trasmissione, uscì dal circolo insieme al fratello Liborio. La sera era fresca, in giro poche anime. Giunto in Via Minghetti, venne circondato da cinque uomini a cavallo, cinque cavalieri dell’apocalisse armati di lupare, mitra e pistole.

 

Sul suo corpo lazzariato, il medico legale contò non meno di centoquaranta colpi d’arma da fuoco, compresi i sette colpi di grazia sparati a bruciapelo.

 

Poi andò via la luce. Il silenzio che seguì agli spari, rotto solo dai rantoli della vittima, fu quello della morte, quello carico degli umori malefici che aleggiano su un luogo di sterminio. In lontananza, il rumore degli zoccoli dei cavalli che si allontanavano.

 

Quando tornò la luce, accanto ad Almerico c’erano altre vittime, un passante, Antonio Pollari, colpito a morte, Liborio e altre tre persone – un ragazzo, una ragazza e un anziano – tutti feriti in maniera non grave.

 

A distanza di quasi trent’anni, nel 1984, una signora di Camporeale, Maria Saladino, divenuta nel frattempo un’operatrice sociale capace di gestire vari centri per la cura di bambini disagiati, così raccontò il fatto al settimanale “I Siciliani”: “Quando arrivai, avevano già caricato Pasqualino a bordo di una macchina, perché avrebbero voluto condurlo all’ospedale di Palermo. Nessuno ancora capiva che quel povero corpo era stato ferito da centinaia di proiettili, che la sua vita correva via irreparabilmente. Riuscii ad infilare la testa nel finestrino: era pallidissimo ed aveva sangue dappertutto. Pasqualino, gli dissi, prega insieme a me: Gesù mio, misericordia, Gesù mio, misericordia. Lo udii ripetere quelle parole. Poi non disse più nulla. Gli afferrai la mano, probabilmente morì in quell’attimo”.

 

E veniamo agli assassini. Anche secondo la prima Commissione antimafia, a decretare la morte del sindaco Almerico era stato Vanni Sacco, a cui il “piccolo” maestro elementare aveva osato negare le famose tessere.

 

Un oltraggio. Ma, più ancora, un ostacolo al processo di penetrazione della mafia nel partito scudocrociato e nel Comune di Camporeale.

 

D’altra parte, che Vanni Sacco fosse abituato a spazzar via gli oppositori a colpi di lupara non era una novità: la stessa cosa aveva fatto 1° aprile 1948 col segretario della Camera del lavoro, il socialista Calogero Cangelosi, che si era convinto di togliere la terra agli agrari per darla ai contadini. Ma, allora, don Vanni l’aveva fatta franca.

 

Per l’omicidio Almerico, invece, almeno all’inizio le cose sembrarono andare diversamente. Il capomafia venne arrestato con l’accusa di avere ordinato il delitto. Lo portarono all’Ucciardone, ma vi rimase solo qualche giorno.

 

Accusò vari disturbi fisici e venne trasferito all’ospedale della “Feliciuzza” di Palermo (un sorta di Hotel di lusso per pezzi da novanta), fino all’assoluzione per insufficienza di prove. E così la mafia di Vanni Sacco si impossessò di Camporeale.

 

Lo confermò, nel 1976, Pio La Torre, nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia: “L’onorevole Gioia – scrisse il parlamentare comunista - non batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC”.

 

Vanni Sacco, infatti, venne accolto con tutti gli onori nel partito democristiano. Sarebbe morto, da uomo libero, nel suo letto, il 4 aprile 1960.

 

Invece, solo nel 2001, l’Assemblea Regionale Siciliana ha trovato il modo di ridare “l’onore” a Pasquale Almerico, inserendolo nel lungo elenco dei caduti “per la libertà e la democrazia” in Sicilia.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Alfio Caruso, Da cosa nasce cosa. Storia della mafia dal 1943 a oggi, Milano, 2008;

Giuseppe Fava, I Siciliani, Firenze, 1980;

Giuseppe Fava, Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, Catania, 1982 (II ed., Roma, 1984);

Salvatore Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Roma, 2004;

Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Roma, 2000.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.