N. 90 - Giugno 2015 
                          
                          (CXXI)
																						PASCOLI E PUCCINI
																			
																			
																			
																			UN’INTESA 
																			MANCATA 
																			- 
																			Parte 
																			II
																			
																			
																			
																			
																			di 
																			Claudia 
																			Antonella 
																			Pastorino
																						 
																			
																			
																			
																			Nel 
																			ribadire 
																			al 
																			lettore 
																			che 
																			nessun 
																			confronto 
																			in 
																			meriti 
																			o 
																			demeriti 
																			si 
																			vuole 
																			qui 
																			porre 
																			tra 
																			i 
																			due 
																			personaggi, 
																			ma 
																			soltanto, 
																			sulla 
																			base 
																			di 
																			quei 
																			pochi 
																			dati 
																			certi, 
																			alcune 
																			valutazioni 
																			e 
																			approfondimenti 
																			per 
																			dimostrare 
																			come 
																			e 
																			perché 
																			non 
																			si 
																			sia 
																			arrivati 
																			a 
																			una 
																			volontà 
																			unanime 
																			di 
																			collaborazione, 
																			partirei 
																			da 
																			un 
																			concetto 
																			di 
																			fondo, 
																			forse 
																			il 
																			solito, 
																			però 
																			difficile 
																			da 
																			confutare 
																			: il 
																			pensare 
																			per 
																			il 
																			teatro, 
																			il 
																			saper 
																			fare 
																			teatro.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			E ci 
																			risiamo. 
																			Puccini, 
																			come 
																			Verdi 
																			e 
																			come 
																			tutti 
																			gli 
																			operisti 
																			che 
																			si 
																			rispettino, 
																			era 
																			un 
																			uomo 
																			di 
																			teatro 
																			e 
																			con 
																			i 
																			librettisti 
																			il 
																			primo 
																			punto 
																			di 
																			condivisione 
																			non 
																			poteva 
																			che 
																			essere 
																			il 
																			teatro. 
																			Nei 
																			tentativi 
																			di 
																			capirsi 
																			con 
																			D’Annunzio, 
																			progettò 
																			senza 
																			esito
																			
																			Parisina 
																			d’Este,
																			
																			La 
																			Rosa 
																			di 
																			Cipro,
																			
																			La 
																			Crociata
																			
																			degli 
																			Innocenti.
																			
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Esplicita 
																			la 
																			lettera 
																			del 
																			16 
																			agosto 
																			1906 
																			per
																			
																			La 
																			Rosa 
																			di 
																			Cipro, 
																			laddove 
																			informò 
																			l’amico 
																			Gabriele 
																			di 
																			non 
																			volere 
																			un 
																			«realismo»vero 
																			e 
																			proprio, 
																			bensì 
																			«un 
																			‘quid 
																			medium’ 
																			che 
																			prenda 
																			possesso 
																			degli 
																			ascoltatori 
																			per 
																			i 
																			fatti 
																			dolorosi 
																			e 
																			amorosi, 
																			i 
																			quali 
																			logicamente 
																			vivano 
																			e 
																			palpitino 
																			in 
																			una 
																			aureola 
																			di 
																			poesia 
																			di 
																			vita 
																			più 
																			che 
																			di 
																			sogno». 
																			In 
																			seguito 
																			si 
																			spingerà 
																			a 
																			chiedergli, 
																			per 
																			un’altra 
																			idea, 
																			due 
																			o 
																			tre 
																			atti 
																			«di 
																			dolci 
																			e 
																			piccole 
																			cose 
																			e 
																			persone. 
																			[…]. 
																			Metti 
																			dei 
																			bimbi, 
																			dei 
																			fiori, 
																			dei 
																			dolori, 
																			degli 
																			amori” 
																			(agosto 
																			1912 
																			da 
																			Karlsbaden, 
																			in 
																			Germania). 
																			Sembra 
																			di 
																			vedere 
																			lo 
																			schizzo 
																			di
																			
																			Suor 
																			Angelica, 
																			la 
																			seconda 
																			opera 
																			del 
																			Trittico 
																			(1918), 
																			al 
																			centro 
																			fra
																			
																			Il 
																			Tabarro 
																			e 
																			Gianni 
																			Schicchi. 
																			Si 
																			rivela 
																			chiaro 
																			il 
																			suo 
																			guardare 
																			al 
																			concreto, 
																			al 
																			vissuto, 
																			non 
																			all’idea 
																			o 
																			all’illusione 
																			o 
																			alla 
																			filosofia 
																			del 
																			vivere. 
																			Se 
																			l’idea 
																			non 
																			veniva 
																			circostanziata 
																			e 
																			precisata, 
																			non 
																			poteva 
																			esserci 
																			musica. 
																			Un’idea 
																			vagheggiata 
																			è 
																			perfetta 
																			per 
																			la 
																			poesia, 
																			non 
																			per 
																			un 
																			libretto.
																			 
																			
																			
																			
																			Aveva 
																			avuto 
																			rapporti 
																			difficili 
																			con 
																			il 
																			D’Annunzio, 
																			troppo 
																			sofisticato 
																			per 
																			lui, 
																			e 
																			con 
																			il 
																			Verga 
																			(per
																			
																			La 
																			lupa), 
																			ma 
																			resta 
																			il 
																			fatto 
																			che 
																			costoro, 
																			prima 
																			di 
																			essere 
																			uomini 
																			di 
																			teatro 
																			e 
																			letterati, 
																			erano 
																			uomini 
																			d’azione, 
																			uomini 
																			che 
																			amavano 
																			la 
																			vita 
																			e le 
																			donne, 
																			dunque 
																			naturalmente 
																			preposti 
																			a 
																			una 
																			forma 
																			d’intesa, 
																			a un 
																			rapporto 
																			di 
																			scambi 
																			con 
																			l’incontentabile 
																			compositore.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Con 
																			loro 
																			non 
																			concluse 
																			nulla, 
																			ma 
																			provò 
																			a 
																			imbastire 
																			un 
																			tipo 
																			di 
																			discorso, 
																			mentre 
																			invece 
																			non 
																			possiamo 
																			sapere 
																			come 
																			sarebbe 
																			stato 
																			con 
																			il 
																			Pascoli 
																			se 
																			si 
																			fosse 
																			avviata 
																			una 
																			qualche 
																			forma 
																			di 
																			collaborazione, 
																			né 
																			vogliamo 
																			in 
																			questa 
																			sede 
																			montare 
																			congetture 
																			o 
																			pregiudizi 
																			su 
																			presunte 
																			inadeguatezze 
																			o 
																			incomprensioni 
																			che 
																			potessero 
																			sorgere 
																			se 
																			fosse 
																			almeno 
																			cominciata. 
																			Tuttavia 
																			non 
																			può 
																			passare 
																			sotto 
																			silenzio 
																			il 
																			fatto 
																			che 
																			un 
																			poeta 
																			tanto 
																			grande 
																			non 
																			abbia 
																			coinvolto 
																			il 
																			compositore 
																			fino 
																			al 
																			punto 
																			da 
																			indurlo 
																			a 
																			provare.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Non 
																			vorrei 
																			di 
																			certo 
																			far 
																			serpeggiare 
																			il 
																			dubbio 
																			che 
																			la 
																			mancanza 
																			di 
																			frequentazioni 
																			femminili 
																			nel 
																			vissuto 
																			reale 
																			pascoliano 
																			possa 
																			essere 
																			stato 
																			il 
																			motivo 
																			o 
																			uno 
																			dei 
																			motivi 
																			della
																			
																			recusatio, 
																			ma 
																			non 
																			si 
																			può 
																			e 
																			non 
																			si 
																			deve 
																			escludere 
																			che 
																			l’asessualità 
																			pascoliana 
																			riferita 
																			alla 
																			poetica 
																			sia 
																			stato 
																			per 
																			Puccini 
																			elemento 
																			di 
																			valutazione 
																			a 
																			favore 
																			della 
																			rinuncia.
																			 
																			
																			
																			
																			I 
																			tentativi 
																			di 
																			caccia 
																			da 
																			parte 
																			della 
																			critica 
																			e 
																			dei 
																			biografi 
																			non 
																			sono 
																			mancati, 
																			soprattutto 
																			per 
																			effetto 
																			di 
																			due 
																			liriche 
																			vagamente 
																			intriganti 
																			riferite 
																			a 
																			possibili 
																			donne 
																			presenti 
																			nella 
																			vita 
																			del 
																			poeta,
																			
																			Per 
																			sempre 
																			e 
																			La 
																			tessitrice, 
																			entrambe 
																			da i
																			
																			Canti 
																			di 
																			Castelvecchio, 
																			ma 
																			lo 
																			sguinzagliamento 
																			dei 
																			curiosi 
																			veniva 
																			puntualmente 
																			sbarrato, 
																			nelle 
																			conclusioni, 
																			dalla 
																			sorella 
																			Mariù, 
																			la 
																			fide 
																			custode 
																			delle 
																			memorie, 
																			delle 
																			carte 
																			e 
																			della 
																			castità 
																			non 
																			solo 
																			poetica 
																			del 
																			fratello, 
																			al 
																			quale 
																			sopravvisse 
																			fino 
																			a 
																			quasi 
																			novant’anni 
																			di 
																			età, 
																			nel 
																			1953.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Puccini 
																			la 
																			conobbe 
																			senz’altro 
																			in 
																			casa 
																			del 
																			poeta, 
																			inseparabile 
																			com’era 
																			dal 
																			fratello, 
																			lei, 
																			la 
																			sorella 
																			madre 
																			dedicataria 
																			di 
																			diverse 
																			poesie 
																			negli 
																			anni 
																			di 
																			Massa 
																			e 
																			Livorno, 
																			dell’elegia
																			
																			Sorella 
																			in “Myricae”, 
																			de
																			
																			La 
																			mia 
																			malattia 
																			e 
																			Maria 
																			nei 
																			“Canti 
																			di 
																			Castelvecchio”, 
																			presente 
																			in 
																			tutti 
																			i 
																			componimenti 
																			del 
																			ciclo 
																			familiare. 
																			Fu 
																			lei 
																			a 
																			raccogliere 
																			e a 
																			dare 
																			alle 
																			stampe 
																			il 
																			volume 
																			postumo
																			
																			Poesie 
																			varie, 
																			la 
																			raccolta 
																			di
																			
																			Traduzioni 
																			e 
																			Riduzioni 
																			da 
																			poeti 
																			greci 
																			e 
																			latini, 
																			i 
																			Carmina.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Se 
																			però 
																			si 
																			affacciava 
																			all’orizzonte 
																			il 
																			sentore 
																			che 
																			l’innocenza 
																			della 
																			poesia 
																			del 
																			fratello, 
																			la 
																			stessa 
																			che 
																			si 
																			era 
																			tanto 
																			affermata 
																			per 
																			purezza, 
																			bucolicità, 
																			pianto, 
																			animo 
																			e 
																			stupore 
																			di 
																			fanciullo, 
																			esortazione 
																			alla 
																			fratellanza, 
																			canto 
																			della 
																			natura 
																			e 
																			degli 
																			uccelli, 
																			potesse 
																			essere 
																			adombrata 
																			da 
																			sospetti 
																			di 
																			aspirazioni 
																			non 
																			proprio 
																			incorporee, 
																			Mariù 
																			vigilava 
																			sulla 
																			memoria 
																			di 
																			Giovannino 
																			– 
																			come 
																			il 
																			poeta 
																			era 
																			comunemente 
																			chiamato 
																			da 
																			familiari 
																			e 
																			amici 
																			- 
																			come 
																			il 
																			drago 
																			alla 
																			custodia 
																			del 
																			vello 
																			d’oro, 
																			probabilmente 
																			anche 
																			per 
																			proteggere 
																			la 
																			fortuna 
																			dell’opera 
																			pascoliana 
																			e la 
																			sua 
																			eco 
																			nel 
																			mondo.
																			 
																			
																			
																			
																			Per
																			
																			La 
																			tessitrice 
																			si 
																			fece 
																			il 
																			nome 
																			di 
																			Erminia 
																			Tognacci, 
																			concittadina 
																			di 
																			San 
																			Mauro, 
																			morta 
																			fanciulla 
																			a 
																			Rimini 
																			nel 
																			1878, 
																			e lo 
																			farebbe 
																			pensare 
																			anche 
																			il 
																			fatto 
																			che 
																			il 
																			componimento 
																			venne 
																			inserito 
																			dall’autore 
																			nel 
																			ciclo 
																			“Il 
																			ritorno 
																			a 
																			San 
																			Mauro” 
																			(sempre 
																			all’interno 
																			dei
																			
																			Canti 
																			di 
																			Castelvecchio). 
																			Si 
																			disse 
																			che 
																			il 
																			progetto 
																			di 
																			matrimonio 
																			venne 
																			impedito 
																			dalla 
																			sorella, 
																			fatto 
																			sta 
																			che 
																			Mariù, 
																			sulla 
																			possibilità 
																			di 
																			amare 
																			del 
																			fratello 
																			intervenne 
																			a 
																			dissipare 
																			ogni 
																			dubbio.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			In 
																			una 
																			lettera 
																			del 
																			18 
																			gennaio 
																			1916 
																			a 
																			Luigi 
																			Pietrobono 
																			(1863-1960), 
																			il 
																			famoso 
																			critico 
																			noto 
																			anche 
																			come 
																			dantista, 
																			tenne 
																			a 
																			precisare 
																			che 
																			«la 
																			poesia 
																			d’amore 
																			nell’opera 
																			di 
																			Giovannino, 
																			intendo 
																			d’amore 
																			personale, 
																			non 
																			si 
																			trova. 
																			Egli 
																			non 
																			ne 
																			scriveva 
																			per 
																			principio. 
																			Diceva 
																			che 
																			la 
																			poesia 
																			d’amore 
																			è 
																			troppo 
																			facile 
																			e si 
																			può 
																			fare 
																			anche 
																			di 
																			fantasia 
																			senza 
																			sentirla 
																			affatto, 
																			anzi 
																			molto 
																			spesso 
																			i 
																			poeti 
																			che 
																			l’hanno 
																			fatta 
																			hanno 
																			avuto 
																			di 
																			mira 
																			un 
																			ideale 
																			della 
																			loro 
																			mente». 
																			E, a 
																			proposito 
																			di
																			
																			Per 
																			sempre, 
																			evocante 
																			in 
																			prima 
																			persona 
																			un 
																			amore 
																			tradito, 
																			aggiunge 
																			sempre 
																			al 
																			Pietrobono 
																			che 
																			si 
																			trattava 
																			di 
																			una 
																			poesia 
																			sognata 
																			dal 
																			fratello 
																			durante 
																			la 
																			notte, 
																			completa 
																			dei 
																			versi, 
																			ma 
																			siccome 
																			il 
																			sogno 
																			non 
																			aveva 
																			fornito 
																			versi 
																			«perfetti», 
																			lui 
																			«li 
																			perfezionò 
																			da 
																			desto».
																			 
																			
																			
																			
																			Si 
																			dia 
																			uno 
																			sguardo 
																			ai 
																			primi 
																			versi 
																			del 
																			componimento 
																			(lui 
																			che 
																			parla) 
																			: 
																			Io 
																			t’odio?!…Non 
																			t’amo 
																			più, 
																			vedi,
																			
																			/ 
																			non 
																			t’amo… 
																			Ricordi 
																			quel 
																			giorno 
																			?
																			
																			/ 
																			Lontano 
																			portavano 
																			i 
																			piedi 
																			/ 
																			un 
																			cuor 
																			che 
																			pensava 
																			al 
																			ritorno.
																			
																			/ 
																			E 
																			dunque 
																			tornai… 
																			tu 
																			non 
																			c’eri.
																			
																			/ 
																			Per 
																			casa 
																			era 
																			un’eco 
																			dell’ieri,
																			
																			/ 
																			d’un 
																			lungo 
																			promettere. 
																			E 
																			meco 
																			/ 
																			di 
																			te 
																			portai 
																			sola 
																			quell’eco:
																			
																			/ 
																			Per 
																			sempre!
																			
																			
																			
																			Il 
																			finale 
																			(lui 
																			e 
																			poi 
																			lei) 
																			: 
																			Risposi: 
																			«Sei 
																			bimba 
																			e 
																			non 
																			sai
																			
																			/ 
																			Per 
																			sempre 
																			che 
																			voglia 
																			dir 
																			mai!» 
																			/ 
																			Rispose: 
																			«Non 
																			so 
																			che 
																			vuol 
																			dire?
																			
																			/ 
																			Per 
																			sempre 
																			vuol 
																			dire 
																			Morire…
																			
																			/ 
																			sì:addormentarsi 
																			la 
																			sera: 
																			/ 
																			restare 
																			così 
																			come 
																			s’era,
																			
																			/ 
																			Per 
																			sempre!».  
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Difficile 
																			che 
																			un 
																			testo 
																			del 
																			genere, 
																			pur 
																			così 
																			tenue 
																			nella 
																			sua 
																			ambivalenza 
																			amore-odio 
																			già 
																			di 
																			reminescenza 
																			catulliana 
																			(cc. 
																			75 e 
																			85), 
																			accenda 
																			la 
																			fiaccola 
																			creativa 
																			di 
																			chi 
																			deve 
																			pensare 
																			al 
																			pentagramma 
																			e, 
																			soprattutto, 
																			a un 
																			personaggio 
																			o a 
																			dei 
																			personaggi 
																			dietro 
																			quelle 
																			note. 
																			C’è 
																			da 
																			chiedersi 
																			cosa 
																			Puccini 
																			potesse 
																			rimestare 
																			e 
																			acciuffare 
																			nel 
																			baule 
																			dei 
																			simbolismi 
																			del 
																			poeta-bambino 
																			che 
																			si 
																			stupisce 
																			di 
																			tutto, 
																			che 
																			piange 
																			i 
																			suoi 
																			morti, 
																			che 
																			sorride 
																			alla 
																			vita 
																			dei 
																			campi 
																			e ne 
																			canta 
																			oggetti, 
																			animali, 
																			suoni, 
																			impressioni 
																			come 
																			se 
																			li 
																			scoprisse 
																			per 
																			la 
																			prima 
																			volta.
																			 
																			
																			
																			
																			Il 
																			compositore 
																			toscano 
																			non 
																			incoraggiò 
																			neppure 
																			formalmente 
																			un 
																			inizio 
																			di 
																			collaborazione 
																			perché 
																			sapeva 
																			che 
																			sarebbe 
																			stato 
																			inutile, 
																			che 
																			non  
																			avrebbe 
																			funzionato, 
																			sapeva 
																			che 
																			il 
																			mondo 
																			pascoliano 
																			possedeva 
																			fermenti 
																			interessanti 
																			alla 
																			sua 
																			poetica 
																			ma 
																			troppo 
																			lontani 
																			dal 
																			suo 
																			assillo 
																			di 
																			concretezza, 
																			di 
																			parole 
																			giuste, 
																			di 
																			azioni 
																			che 
																			aderissero 
																			alla 
																			carne 
																			e al 
																			sangue 
																			degli 
																			umani: 
																			tutto 
																			ciò 
																			che 
																			era 
																			chiaramente 
																			sconosciuto 
																			alla 
																			sensibilità 
																			e 
																			all’esperienza 
																			pascoliane. 
																			La 
																			poesia 
																			di 
																			Giovannino 
																			bandiva 
																			nel 
																			suo 
																			pudore 
																			ogni 
																			riferimento 
																			casuale 
																			od 
																			esplicito 
																			o 
																			velato 
																			a 
																			presenze 
																			femminili 
																			che 
																			non 
																			fossero 
																			figure 
																			di 
																			famiglia 
																			o 
																			personaggi 
																			di 
																			un’incorporeità 
																			tale 
																			da 
																			impedire 
																			di 
																			guardare 
																			alla 
																			sua 
																			vita 
																			con 
																			curiosità 
																			morbosa.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Non 
																			perché 
																			dovesse 
																			preoccuparsi 
																			di 
																			nasconderle, 
																			ma 
																			perché 
																			non 
																			v’era 
																			nulla 
																			da 
																			dover 
																			nascondere 
																			: un 
																			nulla 
																			che 
																			a un 
																			campatore 
																			come 
																			Puccini 
																			non 
																			credo 
																			potesse 
																			sfuggire, 
																			come 
																			non 
																			può 
																			sfuggire 
																			il 
																			fatto 
																			che 
																			le 
																			sue 
																			donne 
																			teatrali 
																			non 
																			fossero 
																			– 
																			per 
																			quanto 
																			acquerellate 
																			dal 
																			gusto 
																			dell’epoca 
																			- 
																			così 
																			tanto 
																			sdegnose 
																			di 
																			attenzioni 
																			maschili. 
																			Potevano 
																			incontrarsi 
																			due 
																			visioni 
																			del 
																			femminino 
																			così 
																			opposte 
																			e 
																			che 
																			tipo 
																			di 
																			versi 
																			il 
																			poeta 
																			poteva 
																			offrire 
																			alla 
																			musica 
																			di 
																			Puccini, 
																			una 
																			musica 
																			che 
																			ha 
																			bisogno 
																			di 
																			accendere 
																			i 
																			sensi 
																			prima 
																			di 
																			divampare 
																			in 
																			estasi 
																			di 
																			amore 
																			e di 
																			morte 
																			come 
																			per 
																			quel 
																			“piccolo 
																			Tristano” 
																			denominata
																			
																			Manon 
																			Lescaut?
																			 
																			
																			
																			
																			Se 
																			Puccini 
																			non 
																			vedeva 
																			e 
																			non 
																			sentiva 
																			le 
																			parole 
																			di 
																			un 
																			libretto 
																			farlo 
																			scattare 
																			infondendogli 
																			la 
																			smania 
																			di 
																			non 
																			staccarsi 
																			per 
																			tutta 
																			la 
																			notte 
																			dal 
																			pianoforte, 
																			l’ingordigia 
																			di 
																			provare 
																			e 
																			riprovare 
																			a 
																			centrare 
																			l’attimo 
																			o il 
																			silenzio 
																			giusti 
																			per 
																			una 
																			frase, 
																			non 
																			poteva 
																			mai 
																			accadere 
																			nulla 
																			nella 
																			trasfigurazione 
																			musicale 
																			così 
																			pregna 
																			di 
																			umori 
																			e di 
																			languori. 
																			Senza 
																			dannazione, 
																			vite 
																			consumate, 
																			giovinezze 
																			che 
																			si 
																			logorano, 
																			non 
																			c’era 
																			Puccini.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			La 
																			rarefazione 
																			della 
																			sua 
																			musica 
																			non 
																			è la 
																			rarefazione 
																			della 
																			poesia 
																			pascoliana: 
																			l’una 
																			incarna 
																			delle 
																			realtà 
																			e 
																			delle 
																			persone 
																			che 
																			non 
																			vivono 
																			soltanto 
																			per 
																			pensare, 
																			sognare, 
																			struggersi 
																			in 
																			ricordi 
																			e 
																			nostalgie; 
																			l’altra 
																			non 
																			incarna 
																			niente 
																			e 
																			nessuno, 
																			evoca 
																			e 
																			simboleggia, 
																			insegue 
																			e si 
																			perde, 
																			trovando 
																			spiraglio 
																			e 
																			conforto 
																			nelle 
																			meditazioni 
																			sulla 
																			vita, 
																			la 
																			morte, 
																			la 
																			natura 
																			e le 
																			sue 
																			manifestazioni 
																			(il 
																			lavoro 
																			dei 
																			campi, 
																			gli 
																			uccelli, 
																			le 
																			mucche, 
																			il 
																			bosco, 
																			il 
																			mare, 
																			il 
																			temporale, 
																			l’acqua, 
																			l’alba, 
																			il 
																			tramonto, 
																			il 
																			vento, 
																			gli 
																			alberi, 
																			le 
																			montagne 
																			e 
																			via 
																			di 
																			seguito).
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Vi 
																			coglieva 
																			tutti 
																			i 
																			suoni, 
																			scandendoli 
																			come 
																			ritornelli 
																			: 
																			chiù 
																			chiù, 
																			gre 
																			gre, 
																			trr 
																			trr 
																			trr 
																			terit 
																			tirit, 
																			sci 
																			sci 
																			sci, 
																			tac 
																			tac, 
																			tin 
																			tin, 
																			zisteretetet, 
																			rererere, 
																			sii 
																			sii, 
																			tellterelltelltelltelltell, 
																			finc 
																			finc, 
																			uid 
																			uid, 
																			don 
																			don, 
																			sì! 
																			sì!, 
																			sicceccè 
																			sicceccè, 
																			fru, 
																			dlin 
																			dlin, 
																			cu 
																			cu, 
																			chio 
																			chio 
																			chio 
																			chio, 
																			tri 
																			tri, 
																			scilp, 
																			vitt 
																			videvitt 
																			e 
																			quelli 
																			umani 
																			del 
																			lavoro 
																			agricolo 
																			o 
																			dell’intimità 
																			familiare: 
																			tient’a 
																			su 
																			(il 
																			taglialegna), 
																			stacci! 
																			stacci! 
																			stacci! 
																			(lo 
																			stacciaio), 
																			Zvanî 
																			(il 
																			nome 
																			del 
																			poeta, 
																			il 
																			Giovannino 
																			in 
																			dialetto 
																			romagnolo 
																			de
																			
																			La 
																			voce).
																			 
																			
																			
																			
																			Compare 
																			uno 
																			dei 
																			motivi 
																			più 
																			frequenti 
																			della 
																			sua 
																			poetica, 
																			la 
																			simbologia 
																			degli 
																			uccelli 
																			spesso 
																			equiparata 
																			alla 
																			condizione 
																			dell’orfano 
																			– la 
																			rondine 
																			uccisa 
																			di
																			X 
																			agosto, 
																			giorno 
																			dell’assassinio 
																			del 
																			padre, 
																			o 
																			Il 
																			nido 
																			di 
																			farlotti 
																			
																			- in 
																			cui 
																			si 
																			era 
																			trovato 
																			insieme 
																			a 
																			fratelli 
																			e 
																			sorelle 
																			dopo 
																			la 
																			tragedia 
																			familiare, 
																			un 
																			tema 
																			desunto 
																			dalle
																			
																			Operette 
																			morali 
																			di 
																			Leopardi 
																			(Elogio 
																			degli 
																			uccelli 
																			e 
																			Cantico 
																			del 
																			gallo 
																			silvestre): 
																			tanti 
																			i 
																			titoli 
																			dei 
																			componimenti 
																			dedicati 
																			a 
																			molte 
																			varietà 
																			di 
																			uccelli, 
																			ma 
																			in 
																			Puccini, 
																			al 
																			di 
																			fuori 
																			del 
																			pettirosso 
																			che 
																			dovrebbe 
																			rifare 
																			il 
																			nido 
																			per 
																			la 
																			speranza 
																			di 
																			Cio 
																			Cio 
																			San, 
																			diventa 
																			un 
																			po’ 
																			arduo 
																			trovare 
																			un’assimilazione 
																			del 
																			genere 
																			ai 
																			soggetti 
																			della 
																			propria 
																			poetica.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Quando 
																			il 
																			musicista 
																			scrisse 
																			al 
																			Caselli 
																			da 
																			Parigi, 
																			il 
																			10 
																			maggio 
																			’98, 
																			per 
																			trasmettergli 
																			il 
																			fastidio 
																			provato 
																			a 
																			contatto 
																			con 
																			la 
																			grande 
																			città, 
																			aggiunse 
																			di 
																			amare 
																			il 
																			merlo, 
																			il 
																			capinero, 
																			il 
																			picchio 
																			e di 
																			odiare 
																			il 
																			cavallo, 
																			il 
																			gatto, 
																			il 
																			passero 
																			dei 
																			tetti, 
																			il 
																			cane 
																			di 
																			lusso. 
																			Come 
																			si 
																			nota, 
																			è 
																			uno 
																			spirito 
																			del 
																			decadentismo, 
																			contenuti 
																			compresi, 
																			completamente 
																			diverso. 
																			Puccini 
																			ha 
																			un 
																			approccio 
																			diretto 
																			con 
																			la 
																			vita 
																			e 
																			con 
																			gli 
																			altri, 
																			compone 
																			come 
																			vive, 
																			in 
																			cerca 
																			di 
																			sensazioni 
																			certe, 
																			palpabili, 
																			di 
																			sentimenti 
																			da 
																			rappresentare, 
																			di 
																			momenti 
																			da 
																			definire, 
																			non 
																			da 
																			evocare, 
																			da 
																			consegnare 
																			ad 
																			ombre 
																			della 
																			memoria. 
																			Quell’angosciosa 
																			vaghezza 
																			non 
																			precisata 
																			doveva 
																			dargli 
																			ai 
																			nervi 
																			come 
																			le 
																			schermaglie 
																			con 
																			i 
																			librettisti 
																			dimostrano, 
																			perché 
																			ansioso 
																			di 
																			cose 
																			vive, 
																			di 
																			perdizioni, 
																			di 
																			veleni, 
																			non 
																			di 
																			malinconie 
																			funeree.
																			 
																			
																			
																			
																			Il 
																			Pascoli 
																			non 
																			aveva 
																			le 
																			innervature 
																			e le 
																			nevrosi 
																			del 
																			teatro 
																			che 
																			lo 
																			piegavano 
																			dentro, 
																			non 
																			poteva 
																			neppure 
																			immaginare 
																			di 
																			cosa 
																			vivesse 
																			un 
																			personaggio 
																			d’opera, 
																			essendo 
																			il 
																			suo 
																			mondo 
																			da 
																			un’altra 
																			parte, 
																			in 
																			un 
																			sogno 
																			ristretto 
																			a 
																			pochi 
																			spazi, 
																			gli 
																			unici 
																			varchi 
																			da 
																			cui 
																			uscire 
																			a 
																			respirare, 
																			gli 
																			stessi 
																			del 
																			suo 
																			universo 
																			poetico.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Eppure 
																			il 
																			poeta 
																			romagnolo 
																			non 
																			era 
																			sempre 
																			stato 
																			un 
																			fanciullone 
																			innocuo. 
																			Le 
																			avversità, 
																			i 
																			lutti 
																			familiari 
																			a 
																			catena, 
																			la 
																			morte 
																			impunita 
																			del 
																			padre, 
																			lo 
																			avevano 
																			inasprito 
																			e, 
																			come 
																			tutti 
																			i 
																			timidi, 
																			quando 
																			sbottava 
																			erano 
																			guai 
																			: 
																			nel 
																			1876 
																			perse 
																			una 
																			borsa 
																			di 
																			studio 
																			universitaria 
																			per 
																			aver 
																			fischiato 
																			Ruggero 
																			Bonghi, 
																			ministro 
																			della 
																			Pubblica 
																			Istruzione 
																			dal 
																			’74 
																			al 
																			’76, 
																			nel 
																			’79 
																			scontò 
																			tre 
																			mesi 
																			nel 
																			carcere 
																			di 
																			San 
																			Giovanni 
																			in 
																			Monte 
																			a 
																			Bologna 
																			per 
																			aver 
																			preso 
																			parte 
																			a 
																			manifestazioni 
																			socialiste 
																			e 
																			per 
																			aver 
																			esaltato 
																			in 
																			un’ode 
																			Giovanni 
																			Passannante, 
																			attentatore 
																			il 
																			17 
																			novembre 
																			’78 
																			alla 
																			vita 
																			di 
																			Umberto 
																			I.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Dopo 
																			tanto 
																			patire 
																			per 
																			ultimare 
																			gli 
																			studi 
																			e 
																			dopo 
																			aver 
																			peregrinato 
																			a 
																			motivo 
																			dell’insegnamento, 
																			Barga 
																			gli 
																			sembrò 
																			il 
																			paese 
																			delle 
																			favole, 
																			dove 
																			regnavano 
																			il 
																			«bello» 
																			e il 
																			«buono» 
																			annunciati 
																			ai 
																			nuovi 
																			concittadini 
																			nel 
																			suo 
																			discorso 
																			di 
																			saluto 
																			un 
																			anno 
																			dopo 
																			l’insediamento 
																			nella 
																			casa 
																			dei 
																			sogni, 
																			ma 
																			ben 
																			presto 
																			dovette 
																			fare 
																			i 
																			conti 
																			con 
																			la 
																			realtà 
																			e 
																			con 
																			le 
																			amarezze 
																			che 
																			ne 
																			avrebbe 
																			ricevuto 
																			: 
																			con 
																			i 
																			contadini, 
																			con 
																			don 
																			Archimede 
																			Mancini 
																			per 
																			le 
																			nuove 
																			campane, 
																			con 
																			i 
																			protagonisti 
																			della 
																			vita 
																			politico-amministrativa 
																			locale, 
																			con 
																			i 
																			proprietari 
																			della 
																			casa, 
																			i 
																			Cardosi-Carrara, 
																			per 
																			ottenerne 
																			a 
																			fatica 
																			l’acquisto.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Fu 
																			un 
																			susseguirsi 
																			di 
																			guerre 
																			intervallate 
																			dai 
																			periodi 
																			dell’insegnamento 
																			universitario 
																			a 
																			Bologna 
																			(‘95-’98, 
																			1905-’12), 
																			Messina 
																			(’98-1902), 
																			Pisa 
																			(1903-1905), 
																			e le 
																			tensioni 
																			non 
																			risparmiarono 
																			neppure 
																			i 
																			rapporti, 
																			dapprima 
																			buoni, 
																			con 
																			il 
																			suo 
																			mezzadro 
																			sul 
																			podere 
																			annesso 
																			alla 
																			casa, 
																			Giovanni 
																			Arrighi 
																			detto 
																			il 
																			Mère, 
																			il 
																			padre 
																			di 
																			Valentino, 
																			il 
																			contadinello 
																			scalzo
																			
																			vestito 
																			di 
																			nuovo 
																			celebrato 
																			dall’omonima 
																			poesia 
																			del 
																			‘98 
																			che 
																			ha 
																			accompagnato 
																			credo 
																			tutti 
																			fin 
																			dalle 
																			elementari. 
																			Anche 
																			con 
																			questa 
																			famiglia, 
																			definita 
																			«nido 
																			di 
																			vipere», 
																			vi 
																			furono 
																			aspri 
																			contrasti 
																			negli 
																			anni 
																			successivi 
																			al 
																			1900 
																			(il 
																			giovane 
																			Valentino 
																			emigrerà 
																			poi 
																			in 
																			America 
																			come 
																			tanti 
																			a 
																			quell’epoca). 
																			In 
																			mezzo 
																			alle 
																			burrasche 
																			coi 
																			vicini 
																			e 
																			nella 
																			solitudine 
																			personale, 
																			il 
																			rifugio 
																			di 
																			Barga 
																			divenne 
																			una 
																			fucina 
																			di 
																			ripiegamento 
																			interiore, 
																			ottima 
																			per 
																			far 
																			poesia, 
																			ma 
																			che 
																			non 
																			s’affacciava 
																			sul 
																			mondo 
																			degli 
																			altri 
																			e 
																			non 
																			lo 
																			faceva 
																			dialogare 
																			se 
																			non 
																			con 
																			se 
																			stesso, 
																			con 
																			le 
																			voci 
																			dei 
																			familiari 
																			defunti, 
																			con 
																			la 
																			nostalgia 
																			dei 
																			ricordi, 
																			con 
																			la 
																			contemplazione 
																			della 
																			natura, 
																			con 
																			la 
																			definizione 
																			di 
																			quel 
																			linguaggio 
																			animale 
																			da 
																			molti 
																			ritenuto 
																			“zoologico” 
																			per 
																			la 
																			sua 
																			precisione.
																			 
																			
																			
																			
																			Non 
																			così 
																			Torre 
																			del 
																			Lago 
																			che 
																			Puccini 
																			adorava 
																			perché 
																			gli 
																			permetteva 
																			di 
																			vivere 
																			come 
																			voleva, 
																			oltre 
																			che 
																			di 
																			comporre 
																			in 
																			libertà, 
																			nel 
																			caos 
																			e 
																			nel 
																			silenzio, 
																			di 
																			andare 
																			a 
																			caccia 
																			di 
																			uccelli 
																			lacustri, 
																			avviare 
																			contatti, 
																			stendere 
																			intese, 
																			insomma 
																			un 
																			luogo 
																			di 
																			brume 
																			come 
																			già 
																			Sant’Agata 
																			per 
																			Verdi, 
																			ritenuta 
																			dallo 
																			stesso 
																			Bussetano 
																			zona 
																			non 
																			bella 
																			ma 
																			indispensabile 
																			per 
																			farsi 
																			venire 
																			le 
																			migliori 
																			idee 
																			musicali.
																			 
																			
																			
																			
																			Tutto, 
																			perfino 
																			la 
																			morte, 
																			si 
																			trasforma 
																			in 
																			una 
																			componente 
																			del 
																			vivere 
																			e 
																			dell’amare 
																			: 
																			anche 
																			se 
																			fosse 
																			stata 
																			un’ossessione 
																			come 
																			per 
																			il 
																			Pascoli, 
																			Puccini 
																			la 
																			fa 
																			passare 
																			per 
																			i 
																			sensi, 
																			per 
																			tutti 
																			i 
																			capillari 
																			del 
																			corpo 
																			e le 
																			strade 
																			della 
																			vita, 
																			per 
																			quanto 
																			oscene 
																			siano. 
																			Se 
																			le 
																			case 
																			di 
																			poeti 
																			e 
																			letterati 
																			sono 
																			biblioteche 
																			e 
																			archivi 
																			viventi, 
																			quelle 
																			dei 
																			musicisti 
																			hanno 
																			perlopiù 
																			i 
																			libri 
																			che 
																			a 
																			loro 
																			occorrono, 
																			a 
																			cui 
																			attingere 
																			soggetti 
																			nati 
																			o 
																			mai 
																			nati, 
																			per 
																			il 
																			resto 
																			sono 
																			bazar 
																			di 
																			ogni 
																			genere 
																			e 
																			gusto, 
																			idem 
																			la 
																			villa 
																			di 
																			Torre 
																			così 
																			descritta 
																			ad 
																			Illica 
																			il 4 
																			agosto 
																			’93, 
																			per 
																			invogliarlo 
																			a 
																			raggiungerlo 
																			: 
																			«In 
																			casa 
																			mia, 
																			qui, 
																			esistono 
																			letti 
																			soffici, 
																			polli, 
																			oche, 
																			anitre, 
																			agnelli, 
																			pulci, 
																			tavoli, 
																			sedie, 
																			fucili, 
																			quadri, 
																			statue, 
																			scarpe, 
																			velocipedi, 
																			cembali, 
																			macchine 
																			da 
																			cucire, 
																			orologi, 
																			una 
																			pianta 
																			di 
																			Parigi, 
																			olio 
																			buono, 
																			pesci, 
																			vino 
																			di 
																			tre 
																			qualità 
																			(acqua 
																			non 
																			se 
																			ne 
																			beve), 
																			sigari, 
																			amache, 
																			moglie, 
																			figli, 
																			cani, 
																			gatti, 
																			rhum, 
																			caffè, 
																			minestre 
																			di 
																			varie 
																			forme, 
																			una 
																			scatola 
																			di 
																			sardine 
																			andate 
																			a 
																			male, 
																			pesche, 
																			fichi, 
																			due 
																			latrine, 
																			un 
																			eucaliptus, 
																			pozzo 
																			in 
																			casa, 
																			una 
																			scopa, 
																			tutto 
																			a 
																			vostra 
																			disposizione 
																			(tranne 
																			la 
																			moglie). 
																			Vieni».
																			 
																			
																			
																			
																			È il 
																			disordine 
																			della 
																			sregolatezza 
																			quotidiana, 
																			l’inventario 
																			di 
																			cose 
																			pensate 
																			alla 
																			rinfusa, 
																			senza 
																			apparente 
																			importanza 
																			eppure 
																			così 
																			ricco 
																			di 
																			vitalità, 
																			di 
																			azione, 
																			di 
																			progetti 
																			– 
																			come 
																			indica 
																			la 
																			pianta 
																			di 
																			Parigi, 
																			preparatoria 
																			di
																			
																			Bohème 
																			– 
																			una 
																			conferma 
																			di 
																			simpatica 
																			canaglieria 
																			e di 
																			aderenza 
																			allo 
																			spirito 
																			da 
																			vagabondo. 
																			Tanti 
																			oggetti 
																			anche 
																			inutili 
																			diventano 
																			nelle 
																			sue 
																			opere 
																			non 
																			pezzi 
																			di 
																			arredo, 
																			ma 
																			cellule 
																			stesse 
																			dei 
																			personaggi, 
																			l’anima 
																			dell’ambiente 
																			in 
																			cui 
																			si 
																			muovono.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			I 
																			contatti
																			
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Puccini, 
																			come 
																			ogni 
																			compositore 
																			che 
																			si 
																			rispetti, 
																			era 
																			sempre 
																			in 
																			cerca 
																			di 
																			novità 
																			e 
																			molte 
																			furono 
																			le 
																			idee 
																			per 
																			soggetti 
																			mai 
																			realizzati. 
																			Spesso 
																			su 
																			consiglio 
																			di 
																			Illica 
																			e 
																			dell’amica 
																			inglese 
																			Sybil 
																			Seligman, 
																			pensò 
																			ad 
																			autori 
																			italiani 
																			ma 
																			soprattutto 
																			stranieri:
																			
																			Pelléas 
																			et 
																			Mélisande 
																			di 
																			Maurice 
																			Maeterlinck,
																			
																			Notre-Dame 
																			di 
																			Victor 
																			Hugo, 
																			La 
																			Faute 
																			de 
																			l’abbé 
																			Mouret 
																			di 
																			Emile 
																			Zola,
																			
																			Tartarin
																			
																			di 
																			Alphonse 
																			Daudet,
																			
																			Teodora
																			
																			di 
																			Victorien 
																			Sardou,
																			
																			Mauvais 
																			bergers 
																			di 
																			Octave 
																			Mirbeau,
																			
																			Enoch 
																			Arden 
																			di 
																			Alfred 
																			Tennyson,
																			
																			La 
																			femme 
																			da
																			
																			La 
																			femme 
																			et 
																			le 
																			pantin 
																			di 
																			Pierre 
																			Louÿs 
																			(da 
																			affidare 
																			ai 
																			versi 
																			di 
																			Maurice 
																			Vaucaire 
																			con 
																			il 
																			titolo
																			
																			Conchita),
																			
																			The 
																			Duchess 
																			of 
																			Padua 
																			e 
																			A 
																			Fiorentine 
																			Tragedy 
																			di 
																			Wilde,
																			
																			Hanneles 
																			Himmelfahrt 
																			e 
																			Tessitori
																			
																			di 
																			Gerhardt 
																			Hauptmann,
																			
																			Anima 
																			allegra 
																			di 
																			Serafin 
																			e 
																			Joaquin 
																			Alvarez 
																			Quinterno,
																			
																			Don 
																			Pablo 
																			di 
																			Segovia 
																			di 
																			Francisco 
																			de 
																			Quevedo,
																			
																			La 
																			locandiera 
																			e 
																			Le 
																			baruffe 
																			chiozzotte 
																			di 
																			Carlo 
																			Goldoni, 
																			
																			Lea
																			
																			di 
																			Felice 
																			Cavallotti,
																			
																			Margherita 
																			da 
																			Cortona 
																			di 
																			Valentino 
																			Soldani,
																			
																			un 
																			soggetto 
																			sugli 
																			ultimi 
																			giorni 
																			di
																			
																			Maria 
																			Antonietta, 
																			uno 
																			da 
																			Paul 
																			de 
																			Kock 
																			e, 
																			ancora, 
																			Poe, 
																			Dumas 
																			padre, 
																			Balzac, 
																			Shawe. 
																			Sul
																			
																			Tartarin 
																			scrisse 
																			ad 
																			Illica 
																			che 
																			il 
																			soggetto 
																			gli 
																			piaceva 
																			perché 
																			il 
																			pubblico 
																			era 
																			stanco 
																			di 
																			lacrime 
																			e 
																			avrebbe 
																			voluto 
																			ridere, 
																			impressione 
																			che 
																			lo 
																			indusse 
																			ad 
																			accantonare 
																			l’Hanneles 
																			di 
																			Hauptmann 
																			perché 
																			«troppo 
																			triste 
																			e 
																			uniforme», 
																			ma 
																			di 
																			fatto 
																			li 
																			scartò 
																			tutti 
																			non 
																			rispondendo 
																			– 
																			come 
																			si 
																			evince 
																			dai 
																			tipi 
																			di 
																			soggetto 
																			– al 
																			suo 
																			sentire 
																			lontano 
																			da 
																			ideali 
																			epici 
																			e 
																			romantici, 
																			tragedie 
																			storiche 
																			e 
																			commedie 
																			dell’arte.
																			 
																			
																			
																			
																			Con 
																			il 
																			Pascoli 
																			un 
																			primo 
																			contatto 
																			si 
																			ebbe 
																			nel 
																			1898, 
																			quando 
																			il 
																			compositore 
																			chiese 
																			e 
																			ottenne 
																			per 
																			la 
																			morte 
																			dell’amico 
																			lucchese 
																			Guglielmo 
																			Lippi, 
																			giovane 
																			medico, 
																			un 
																			epitaffio, 
																			al 
																			che 
																			il 
																			poeta 
																			a 
																			sua 
																			volta 
																			richiese 
																			la 
																			musica 
																			per 
																			l’Inno 
																			alla 
																			Sicilia, 
																			un 
																			coro-inno 
																			dedicato 
																			agli 
																			studenti 
																			di 
																			Messina. 
																			Puccini 
																			lo 
																			ringrazierà 
																			il 
																			15 
																			dicembre: 
																			«Ho 
																			letto 
																			la 
																			magnifica 
																			epigrafe 
																			e 
																			l’ho 
																			trovata 
																			sublime 
																			per 
																			concezione 
																			e 
																			affettuosità. 
																			Bravo 
																			col 
																			cuore. 
																			Per 
																			l’inno 
																			ben 
																			venga 
																			da 
																			parte 
																			sua 
																			e 
																			sarò 
																			onorato 
																			farci 
																			la 
																			musica». 
																			Di 
																			fatto 
																			però 
																			non 
																			accadde 
																			nulla 
																			e 
																			l’inno 
																			venne 
																			poi 
																			musicato 
																			da 
																			Giovanni 
																			Zagari.
																			 
																			
																			
																			
																			Unico 
																			precedente 
																			di 
																			teatro 
																			giunse 
																			con 
																			il 
																			poemetto
																			
																			Il 
																			sogno 
																			di 
																			Rosetta, 
																			azione 
																			scenica 
																			musicata 
																			da 
																			Carlo 
																			Alfredo 
																			Mussinelli 
																			(1871-1955), 
																			nativo 
																			di 
																			La 
																			Spezia, 
																			definito 
																			dal 
																			poeta
																			
																			cieco 
																			veggente 
																			(era 
																			infatti 
																			cieco 
																			dall’infanzia), 
																			lavoro 
																			rappresentato 
																			con 
																			successo 
																			il 
																			14 
																			agosto 
																			1901 
																			al 
																			Teatro 
																			dei 
																			Differenti 
																			di 
																			Barga, 
																			poi 
																			al 
																			Teatro 
																			del 
																			Giglio 
																			di 
																			Lucca 
																			e a 
																			La 
																			Spezia. 
																			Composizione 
																			poetica 
																			destinata 
																			a 
																			collocarsi 
																			in 
																			appendice 
																			a 
																			Odi 
																			e 
																			inni, 
																			divenne 
																			dramma 
																			riproposto 
																			di 
																			recente, 
																			in 
																			occasione 
																			del 
																			centenario 
																			della 
																			prima 
																			rappresentazione, 
																			il 
																			25 
																			agosto 
																			2001 
																			nel 
																			giardino 
																			di 
																			Casa 
																			Pascoli 
																			su 
																			iniziativa 
																			della 
																			Fondazione 
																			Pascoli 
																			in 
																			collaborazione 
																			con 
																			la 
																			Misericordia 
																			di 
																			Castelvecchio, 
																			protagonisti 
																			il 
																			soprano 
																			Nicoletta 
																			Zanini, 
																			il 
																			tenore 
																			Leonardo 
																			de 
																			Lisi, 
																			il 
																			Coro 
																			di 
																			Voci 
																			bianche 
																			della 
																			Chiesa 
																			di 
																			Santa 
																			Rita 
																			di 
																			Viareggio, 
																			l’Orchestra 
																			Sinfonica 
																			“Carlo 
																			Alfredo 
																			Mussinelli” 
																			diretta 
																			da 
																			Marco 
																			Balderi. 
																			Spettacolo 
																			divenuto 
																			poi 
																			un 
																			Cd 
																			della 
																			Bongiovanni, 
																			etichetta 
																			sempre 
																			benemerita 
																			per 
																			le 
																			rarità.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Lo 
																			stesso 
																			poemetto 
																			venne 
																			musicato 
																			nel 
																			1902 
																			da 
																			Zandonai, 
																			mentre 
																			l’inno 
																			latino
																			
																			Corda 
																			Fratres 
																			glielo 
																			musicò 
																			Mascagni 
																			nel 
																			marzo 
																			dello 
																			stesso 
																			anno 
																			e 
																			Renzo 
																			Bossi, 
																			figlio 
																			del 
																			più 
																			noto 
																			Marco 
																			Enrico, 
																			fece 
																			altrettanto 
																			per 
																			il 
																			dramma
																			
																			Nell’Anno 
																			Mille 
																			che 
																			però 
																			non 
																			vide 
																			mai 
																			le 
																			scene. 
																			Soddisfazioni 
																			vicine 
																			al 
																			genere 
																			teatrale 
																			ne 
																			ebbe, 
																			sia 
																			pure 
																			di 
																			corta 
																			gittata, 
																			ma 
																			puntare 
																			su 
																			Puccini 
																			avrebbe 
																			rappresentato 
																			davvero 
																			molto, 
																			benché 
																			avesse 
																			le 
																			sue 
																			idee 
																			in 
																			materia 
																			di 
																			libretti 
																			quando 
																			con 
																			il 
																			Caselli 
																			affermò 
																			che 
																			«il 
																			dramma 
																			musicale 
																			non 
																			deve 
																			essere 
																			ridotto 
																			dal 
																			dramma 
																			prosaico 
																			e 
																			dal 
																			romanzo; 
																			ma 
																			deve 
																			essere 
																			concepito 
																			a 
																			sé».
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Non 
																			poté 
																			mai 
																			sapere, 
																			essendo 
																			scomparso 
																			già 
																			da 
																			sei 
																			anni, 
																			come 
																			la 
																			pensasse 
																			Puccini 
																			nel 
																			1918, 
																			quando 
																			a 
																			Carlo 
																			Clausetti 
																			scrisse 
																			che 
																			«il 
																			Poeta 
																			porta 
																			male 
																			al 
																			teatro 
																			lirico. 
																			Vi 
																			manca 
																			sempre 
																			il 
																			vero 
																			e 
																			spoglio 
																			e 
																			semplice 
																			senso 
																			umano. 
																			Tutto 
																			è 
																			sempre 
																			parossismo, 
																			corda 
																			tirata, 
																			espressione 
																			ultra 
																			eccessiva. 
																			La 
																			parola 
																			bella 
																			e 
																			varia 
																			che 
																			in 
																			musica 
																			non 
																			si 
																			sente 
																			lascia 
																			via 
																			libera 
																			al 
																			dramma, 
																			e 
																			questo 
																			è 
																			quello 
																			che 
																			non 
																			deve 
																			essere».
																			 
																			
																			
																			
																			Intanto 
																			il 
																			poeta 
																			si 
																			era 
																			assestato 
																			con 
																			la 
																			nuova 
																			casa, 
																			riuscendo 
																			ad 
																			acquistarla 
																			nel 
																			1902 
																			con 
																			il 
																			ricavato 
																			della 
																			vendita 
																			delle 
																			medaglie 
																			d’oro 
																			vinte 
																			tredici 
																			volte 
																			con 
																			i 
																			Carmina 
																			al 
																			concorso 
																			internazionale 
																			di 
																			poesia 
																			latina, 
																			bandito 
																			annualmente 
																			dall’Accademia 
																			Hoefftiana 
																			di 
																			Amsterdam. 
																			Ne 
																			fece 
																			fondere 
																			sei 
																			di 
																			250 
																			grammi 
																			ognuna 
																			e le 
																			vendette, 
																			assicurandosi 
																			così 
																			il 
																			possesso 
																			dell’amata 
																			dimora 
																			di 
																			Castelvecchio. 
																			Con 
																			il 
																			compositore 
																			volle 
																			tornare 
																			alla 
																			carica, 
																			ma 
																			di 
																			librettisti 
																			nuovi 
																			l’altro 
																			non 
																			aveva 
																			bisogno 
																			e, 
																			sempre 
																			in 
																			quell’anno, 
																			gli 
																			rispose: 
																			«Ascriverei 
																			a 
																			grande 
																			fortuna 
																			il 
																			poter 
																			collaborare 
																			con 
																			lei! 
																			Ma 
																			l’argomento? 
																			Questo 
																			è il 
																			nocciolo 
																			duro!». 
																			Pretesto 
																			o 
																			no, 
																			il 
																			diniego 
																			è 
																			palese 
																			sul 
																			fatto 
																			sostanziale, 
																			l’argomento, 
																			“il 
																			nocciolo 
																			duro” 
																			che, 
																			sulla 
																			scorta 
																			di 
																			una 
																			buona 
																			conoscenza 
																			di 
																			Pascoli 
																			poeta, 
																			appare 
																			insormontabile.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Troviamo 
																			in 
																			una 
																			lettera 
																			al 
																			Caselli 
																			del 
																			3 
																			aprile 
																			1903 
																			l’accenno 
																			di 
																			Puccini 
																			a un 
																			invito 
																			rivolto 
																			al 
																			poeta 
																			a 
																			raggiungerlo 
																			a 
																			Torre 
																			del 
																			Lago, 
																			ma 
																			in 
																			realtà 
																			non 
																			c’era 
																			sotto 
																			alcuna 
																			volontà 
																			di 
																			collaborazione, 
																			solo 
																			di 
																			ottenere 
																			un 
																			discorso 
																			pubblico 
																			a 
																			Lucca 
																			poi 
																			tenuto 
																			dal 
																			concittadino 
																			Giovanni 
																			Rosadi 
																			(1863-1925), 
																			avvocato, 
																			deputato 
																			e 
																			sottosegretario 
																			alle 
																			Belle 
																			Arti. 
																			Eppure 
																			Pascoli 
																			orazioni 
																			ufficiali 
																			ne 
																			fece 
																			diverse, 
																			di 
																			natura 
																			politica, 
																			sociale, 
																			patriottica.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Tuttavia 
																			non 
																			finì 
																			lì. 
																			Il 
																			poeta 
																			gli 
																			chiese 
																			la 
																			musica 
																			per 
																			il 
																			poemetto 
																			sul 
																			ritorno 
																			di 
																			Ulisse, 
																			probabilmente
																			
																			L’ultimo 
																			viaggio 
																			dai 
																			“Poemi 
																			conviviali” 
																			del 
																			1904, 
																			però 
																			non 
																			ebbe 
																			nulla. 
																			I 
																			versi 
																			sulla 
																			farfallina 
																			di 
																			quello 
																			stesso 
																			anno 
																			avrebbero 
																			forse 
																			voluto 
																			muovere 
																			qualcosa, 
																			far 
																			crollare 
																			delle 
																			riserve, 
																			ma 
																			personalmente 
																			non 
																			riesce 
																			ad 
																			abbandonarmi 
																			il 
																			sospetto 
																			– 
																			quasi 
																			un 
																			indizio 
																			– 
																			che 
																			Puccini 
																			ritenesse 
																			il 
																			Pascoli 
																			un 
																			poeta 
																			di 
																			cose 
																			mortuarie 
																			e 
																			che 
																			dunque 
																			l’ipotesi 
																			di 
																			lavorare 
																			su 
																			versi 
																			così 
																			distanti 
																			dalla 
																			realtà 
																			di 
																			un 
																			pubblico 
																			di 
																			teatro 
																			fosse 
																			davvero 
																			remota.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Mi 
																			pare 
																			che 
																			questa 
																			distanza 
																			sia 
																			oltremodo 
																			attestata 
																			da 
																			un’altra 
																			circostanza 
																			analoga, 
																			il 
																			desiderio 
																			di 
																			Puccini, 
																			trasmesso 
																			al 
																			poeta 
																			nel 
																			1907, 
																			di 
																			avere 
																			un’epigrafe 
																			per 
																			i 
																			propri 
																			genitori 
																			Michele 
																			e 
																			Albina, 
																			sepolti 
																			nel 
																			cimitero 
																			di 
																			Lucca, 
																			ma 
																			questa 
																			volta 
																			Pascoli 
																			la 
																			prese 
																			per 
																			le 
																			lunghe 
																			indugiandovi 
																			fino 
																			al 
																			1909 
																			senza 
																			mai 
																			concludere, 
																			come 
																			sostenne 
																			Mariù 
																			nelle
																			
																			Memorie 
																			confermando 
																			che 
																			le 
																			due 
																			epigrafi 
																			rimasero 
																			allo 
																			stato 
																			di 
																			abbozzo. 
																			Se 
																			ne 
																			deduce 
																			che 
																			quelle 
																			tuttora 
																			esistenti 
																			sulle 
																			tombe 
																			dei 
																			genitori 
																			del 
																			musicista 
																			e 
																			attribuite 
																			per 
																			tradizione 
																			al 
																			Pascoli, 
																			non 
																			lo 
																			siano. 
																			L’oggetto 
																			delle 
																			uniche 
																			richieste 
																			avanzate 
																			riguarda 
																			dunque 
																			epigrafi 
																			funerarie. 
																			Si 
																			badi 
																			pure 
																			al 
																			particolare 
																			della 
																			richiesta 
																			del 
																			poeta 
																			concentrata 
																			su 
																			un 
																			inno 
																			e su 
																			un 
																			soggetto 
																			omerico, 
																			temi 
																			troppo 
																			distanti 
																			da 
																			sentimenti, 
																			suggestioni, 
																			figure 
																			presenti 
																			nello 
																			scenario 
																			cui 
																			s’ispira 
																			di 
																			norma 
																			il 
																			teatro 
																			lirico.
																			 
																			
																			
																			
																			Non 
																			so 
																			fino 
																			a 
																			che 
																			punto 
																			Puccini 
																			conoscesse 
																			l’opera 
																			del 
																			Pascoli, 
																			ma 
																			se 
																			si è 
																			allungato 
																			per 
																			ben 
																			due 
																			volte 
																			nella 
																			casa 
																			di 
																			Castelvecchio 
																			un’idea 
																			doveva 
																			essersela 
																			fatta 
																			e, 
																			del 
																			resto, 
																			il 
																			poeta 
																			come 
																			si è 
																			detto 
																			aveva 
																			già 
																			dato 
																			alle 
																			stampe 
																			i 
																			maggiori 
																			lavori 
																			e 
																			fatto 
																			rappresentare
																			
																			Il 
																			sogno 
																			di 
																			Rosetta, 
																			andato 
																			in 
																			scena 
																			anche 
																			al 
																			Teatro 
																			del 
																			Giglio 
																			di 
																			Lucca, 
																			la 
																			città 
																			del 
																			musicista 
																			: un 
																			particolare 
																			che 
																			a 
																			questi 
																			non 
																			poteva 
																			essere 
																			sfuggito. 
																			Quello 
																			fu 
																			l’unico 
																			libretto 
																			di 
																			Giovannino, 
																			che 
																			nella 
																			sua 
																			produzione 
																			sfiorò 
																			appena 
																			la 
																			donna, 
																			inserendola 
																			come 
																			la 
																			vedeva 
																			lui, 
																			nell’inconsistenza 
																			di 
																			larve, 
																			di 
																			fanciulle 
																			che 
																			non 
																			hanno 
																			avuto 
																			il 
																			tempo 
																			di 
																			vivere, 
																			che 
																			passano 
																			dal 
																			limbo 
																			dell’adolescenza 
																			all’unica 
																			esperienza 
																			adulta 
																			della 
																			morte, 
																			ad 
																			essa 
																			arrivando 
																			all’improvviso 
																			senza 
																			aver 
																			conosciuto 
																			null’altro. 
																			Come 
																			lui.
																			 
																			
																			
																			
																			Forse 
																			qualcosa 
																			vi 
																			fu 
																			ad 
																			attirare 
																			l’attenzione 
																			di 
																			Puccini, 
																			un’idea 
																			che 
																			si 
																			concretizzò 
																			parecchi 
																			anni 
																			più 
																			tardi 
																			quando 
																			il 
																			poeta 
																			era 
																			già 
																			morto 
																			e lo 
																			spinse 
																			a 
																			sbirciare 
																			ne
																			I 
																			Poemetti 
																			del 
																			1897, 
																			in 
																			terzine, 
																			che 
																			poi 
																			divennero 
																			i 
																			due 
																			volumi 
																			distinti 
																			dei
																			
																			Primi
																			
																			Poemetti 
																			(1905) 
																			e 
																			Nuovi 
																			Poemetti 
																			(1909). 
																			In 
																			essi 
																			il 
																			poeta 
																			aveva 
																			sviluppato 
																			il 
																			ciclo 
																			di 
																			Rosa 
																			e la 
																			vita 
																			della 
																			sua 
																			famiglia, 
																			tutti 
																			contadini, 
																			padre, 
																			madre, 
																			quattro 
																			figli, 
																			una 
																			storia 
																			d’amore 
																			tra 
																			lei, 
																			figlia 
																			maggiore, 
																			e il 
																			cacciatore 
																			Rigo 
																			su 
																			uno 
																			sfondo 
																			di 
																			verde 
																			natura 
																			e il 
																			ciclo 
																			di 
																			stagioni 
																			che 
																			accompagna, 
																			nel 
																			suo 
																			evolversi, 
																			quello 
																			dell’amore 
																			nella 
																			nascita, 
																			nello 
																			sboccio, 
																			nella 
																			fioritura 
																			delle 
																			nozze.
																			
																			Rosa 
																			dalle 
																			bianche 
																			braccia 
																			doveva 
																			chiamarsi, 
																			nella 
																			bozza 
																			di 
																			progetto 
																			del 
																			1891, 
																			Reginella, 
																			di 
																			cui 
																			si è 
																			trovato 
																			fra 
																			le 
																			carte 
																			di 
																			Castelvecchio 
																			il 
																			documento 
																			programmatico.
																			 
																			
																			
																			
																			Molly 
																			del 
																			poemetto
																			
																			Italy 
																			– 
																			dai 
																			“Nuovi 
																			Poemetti” 
																			– è 
																			invece 
																			una 
																			bambina, 
																			protagonista 
																			di 
																			una 
																			vicenda 
																			sul 
																			dramma 
																			dell’Italia 
																			che 
																			emigra. 
																			Vi 
																			si 
																			narra 
																			il 
																			ritorno 
																			di 
																			una 
																			famiglia 
																			di 
																			contadini 
																			di 
																			Castelvecchio 
																			dall’America 
																			al 
																			luogo 
																			d’origine, 
																			storia 
																			vera 
																			di 
																			Molly, 
																			una 
																			delle 
																			nipotine 
																			di 
																			Bartolomeo 
																			Caproni, 
																			lo 
																			Zi 
																			Meo 
																			del
																			
																			Ciocco, 
																			fattore 
																			e 
																			amico 
																			del 
																			poeta. 
																			Molly 
																			era 
																			Isabella 
																			Caproni, 
																			figlia 
																			di 
																			Enrico 
																			– 
																			uno 
																			dei 
																			figli 
																			di 
																			Zi 
																			Meo 
																			– 
																			che 
																			a 
																			Cincinnati 
																			nell’Ohio 
																			mise 
																			su 
																			un 
																			ristorante 
																			e 
																			rientrò 
																			poi 
																			in 
																			Italia 
																			con 
																			la 
																			figlioletta 
																			malata, 
																			per 
																			farla 
																			curare. 
																			Il 
																			poeta 
																			si 
																			adoperò 
																			molto 
																			e 
																			con 
																			affetto 
																			per 
																			concorrere 
																			al 
																			risultato, 
																			ma 
																			la 
																			poverina 
																			morì 
																			nel 
																			gennaio 
																			1906, 
																			tre 
																			mesi 
																			prima 
																			di 
																			lui. 
																			Il 
																			poemetto 
																			invece, 
																			risalendo 
																			al 
																			1904, 
																			ha 
																			un 
																			lieto 
																			fine, 
																			la 
																			piccola 
																			guarisce 
																			e 
																			gli 
																			emigranti 
																			fanno 
																			ritorno 
																			in 
																			America.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			Diverse 
																			le 
																			eroine 
																			dei
																			
																			Carmina, 
																			poemetti 
																			scritti 
																			interamente 
																			in 
																			latino. 
																			Thallusa 
																			è 
																			una 
																			schiava 
																			cristiana 
																			alla 
																			quale 
																			è 
																			stato 
																			rapito 
																			il 
																			figlioletto 
																			e si 
																			affeziona 
																			ai 
																			figli 
																			dei 
																			padroni, 
																			venendone 
																			poi 
																			allontanata 
																			per 
																			i 
																			sospetti 
																			sulla 
																			sua 
																			fede 
																			Con 
																			questo 
																			componimento 
																			il 
																			poeta 
																			vinse 
																			per 
																			l’ultima 
																			volta 
																			ad 
																			Amsterdam 
																			nel 
																			marzo 
																			1912, 
																			aggiudicandosi 
																			il 
																			primo 
																			premio. 
																			Anche 
																			Pomponia 
																			Graecina, 
																			moglie 
																			di 
																			un 
																			flamine, 
																			è 
																			cristiana 
																			e 
																			avrà 
																			un 
																			nipote 
																			ucciso 
																			nelle 
																			catacombe, 
																			ma 
																			per 
																			non 
																			essere 
																			separata 
																			dal 
																			figlioletto 
																			continua 
																			a 
																			fare 
																			offerte 
																			ai 
																			Lari.
																			 
																			
																			
																			
																			Nei 
																			“Canti 
																			di 
																			Castelvecchio” 
																			ritroviamo 
																			una 
																			fanciulla,
																			
																			La 
																			figlia 
																			maggiore, 
																			colei 
																			che 
																			fa 
																			da 
																			madre 
																			ai 
																			fratelli 
																			senza 
																			che, 
																			dell’essere 
																			madre, 
																			conosca 
																			l’atto 
																			generante. 
																			Morirà 
																			prematuramente 
																			come 
																			la 
																			sorella 
																			del 
																			poeta, 
																			Margherita, 
																			uccisa 
																			dal 
																			tifo 
																			a 
																			diciotto 
																			anni 
																			(ché 
																			seppe, 
																			misera, 
																			un 
																			giorno, 
																			come 
																			si 
																			muore!).
																			
																			La 
																			tessitrice, 
																			che 
																			rammenta 
																			alla 
																			lontana 
																			la 
																			Silvia 
																			leopardiana 
																			che 
																			fila 
																			ma 
																			almeno 
																			canta, 
																			più 
																			che 
																			una 
																			donna 
																			è 
																			un’ombra, 
																			un 
																			silenzio, 
																			un 
																			fantasma 
																			che 
																			evapora, 
																			un 
																			tassello 
																			delle 
																			tante 
																			visioni 
																			incorporee 
																			che 
																			attraversano 
																			le 
																			ossessioni 
																			pascoliane:
																			E 
																			non 
																			il 
																			suono 
																			d’una 
																			parola;
																			
																			/ 
																			solo 
																			un 
																			sorriso 
																			tutto 
																			pietà.
																			
																			/ 
																			La 
																			bianca 
																			mano 
																			lascia 
																			la 
																			spola. 
																			Tutto 
																			però 
																			è 
																			muto, 
																			lei 
																			è 
																			muta, 
																			la 
																			spola 
																			è 
																			muta, 
																			il 
																			pettine 
																			è 
																			muto, 
																			lei 
																			non 
																			fa 
																			che 
																			piangere, 
																			lui 
																			fa 
																			domande 
																			finché 
																			l’altra 
																			non 
																			si 
																			decide 
																			a 
																			parlare 
																			per 
																			dirgli 
																			che 
																			è 
																			morta 
																			e 
																			che 
																			vive 
																			soltanto 
																			nel 
																			cuore 
																			di 
																			lui:
																			
																			Morta! 
																			Sì, 
																			morta! 
																			Se 
																			tesso, 
																			tesso
																			
																			/ 
																			per 
																			te 
																			soltanto; 
																			come, 
																			non 
																			so;
																			
																			/ 
																			in 
																			questa 
																			tela, 
																			sotto 
																			il 
																			cipresso,
																			
																			/ 
																			accanto 
																			alfine 
																			ti 
																			dormirò. 
																			Nessuna 
																			di 
																			costoro 
																			è 
																			donna 
																			e 
																			nessuna, 
																			come 
																			La 
																			figlia 
																			maggiore, 
																			sa
																			
																			come 
																			si 
																			nasce 
																			avendo
																			
																			l’umile 
																			cuore 
																			che 
																			non 
																			sa 
																			nulla!
																			 
																			
																			
																			
																			Pure 
																			vi 
																			fu 
																			un 
																			momento 
																			dell’animo 
																			pucciniano 
																			ad 
																			avvertire 
																			l’esigenza 
																			della 
																			purezza 
																			che 
																			non 
																			è 
																			necessariamente 
																			quella 
																			virginale, 
																			bensì 
																			quella 
																			dell’espiazione, 
																			della 
																			ricerca 
																			di 
																			altrui 
																			perdono 
																			o 
																			comunque 
																			del 
																			rimpianto 
																			di 
																			qualcosa. 
																			Uno 
																			scenario 
																			siffatto 
																			venne 
																			aperto, 
																			in  
																			“Myricae”, 
																			da
																			
																			Le 
																			monache 
																			di 
																			Sogliano, 
																			suore 
																			agostiniane 
																			di 
																			Sogliano 
																			sul 
																			Rubicone 
																			dove 
																			nel 
																			’74 
																			si 
																			ritirarono 
																			per 
																			diversi 
																			anni 
																			le 
																			sorelle 
																			del 
																			Pascoli 
																			Ida 
																			e 
																			Maria, 
																			prima 
																			di 
																			ricongiungersi 
																			al 
																			fratello, 
																			docente 
																			a 
																			Massa, 
																			nell’87. 
																			Il 
																			poeta 
																			si 
																			chiese 
																			: 
																			Oh! 
																			qual 
																			colpa 
																			macchiò 
																			l’anima
																			
																			/ 
																			di 
																			codeste 
																			prigioniere?
																			
																			/ 
																			qual 
																			dolor 
																			poté 
																			precorrervi 
																			/ 
																			la 
																			fiorita 
																			del 
																			piacere? 
																			/ 
																			Queste 
																			bimbe, 
																			queste 
																			vergini 
																			/ 
																			in 
																			che 
																			offesero 
																			Dio 
																			santo,
																			
																			/ 
																			che 
																			perdòno 
																			ne 
																			sospirano 
																			/ 
																			con 
																			sì 
																			lungo 
																			inno 
																			di 
																			pianto? 
																			Con
																			
																			Suor 
																			Virginia, 
																			considerato 
																			il 
																			componimento 
																			migliore 
																			dei 
																			“Primi 
																			Poemetti” 
																			queste 
																			idee 
																			si 
																			fecero 
																			più 
																			nette 
																			e, 
																			nella 
																			capacità 
																			della 
																			musica 
																			di 
																			armonizzare 
																			in 
																			mirabili 
																			sintesi 
																			tutte 
																			le 
																			immagini 
																			e 
																			tutti 
																			i 
																			pensieri, 
																			divennero 
																			con 
																			molta 
																			probabilità
																			
																			Suor 
																			Angelica, 
																			un 
																			personaggio 
																			atipico 
																			per 
																			una 
																			produzione 
																			come 
																			quella 
																			che 
																			Puccini 
																			aveva 
																			fino 
																			a 
																			quel 
																			momento 
																			realizzato.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			La 
																			fine 
																			di 
																			Suor 
																			Angelica, 
																			se 
																			ben 
																			si 
																			riflette, 
																			è 
																			forse 
																			la 
																			più 
																			deprimente 
																			di 
																			tutta 
																			l’opera 
																			sua, 
																			dove 
																			cioè 
																			si 
																			avverte 
																			un’oppressione 
																			molto 
																			simile 
																			a 
																			quella 
																			espressa 
																			dal 
																			Pascoli, 
																			che 
																			vi 
																			introdusse, 
																			similmente 
																			allo 
																			spirito 
																			del 
																			finale 
																			in
																			
																			Le 
																			monache 
																			di 
																			Sogliano, 
																			apparizioni 
																			larvali 
																			e 
																			premonizioni 
																			di 
																			morte 
																			(l’incessante
																			
																			tum 
																			tum… 
																			tum 
																			tum… 
																			della 
																			morte 
																			che 
																			bussa 
																			all’uscio, 
																			finché 
																			Suor 
																			Virginia 
																			comprende 
																			e le 
																			corre 
																			incontro). 
																			Il 
																			nesso 
																			sembra 
																			quasi 
																			certo. 
																			Sappiamo 
																			che 
																			per 
																			il 
																			Pascoli 
																			la 
																			vita 
																			coincideva 
																			con 
																			la 
																			morte 
																			e, 
																			per 
																			una 
																			volta, 
																			Puccini, 
																			avvezzo 
																			ad 
																			associare 
																			alla 
																			morte 
																			non 
																			la 
																			vita 
																			ma 
																			l’amore 
																			più 
																			corrosivo, 
																			fu 
																			d’accordo.
																			
																			
																			
																			
																			
																			
																			  
																			
																			
																			
																			E 
																			poi? 
																			Sarà 
																			un 
																			azzardo, 
																			ma a 
																			me 
																			pare 
																			difficile 
																			non 
																			pensare 
																			a 
																			Il 
																			sogno 
																			di 
																			Rosetta 
																			senza
																			
																			il 
																			bel 
																			sogno 
																			di 
																			Doretta 
																			da 
																			La 
																			Rondine 
																			(1917, 
																			1920), 
																			la 
																			meno 
																			fortunata 
																			delle 
																			sue 
																			opere 
																			in 
																			popolarità, 
																			ma 
																			non 
																			dispongo 
																			di 
																			elementi 
																			per 
																			sostenerne 
																			la 
																			fondatezza.
																			 
																			
																			
																			
																			In 
																			conclusione, 
																			sia 
																			chiaro 
																			che 
																			non 
																			si 
																			vuol 
																			far 
																			passare 
																			il 
																			pericoloso 
																			sospetto, 
																			men 
																			che 
																			mai 
																			da 
																			un’estimatrice 
																			del 
																			Pascoli 
																			come 
																			la 
																			scrivente, 
																			che 
																			la 
																			sua 
																			letteratura 
																			sia 
																			tutta 
																			incentrata 
																			sul 
																			funereo 
																			– 
																			poiché 
																			questo 
																			motivo 
																			va 
																			sempre 
																			inquadrato 
																			ed 
																			esaminato 
																			all’interno 
																			di 
																			una 
																			più 
																			vasta 
																			poetica 
																			- ma 
																			è 
																			indubbio 
																			che 
																			dalla 
																			morte 
																			fosse 
																			largamente 
																			pervasa 
																			e 
																			che 
																			questo 
																			aspetto 
																			sia 
																			stato 
																			determinante 
																			al 
																			defilarsi 
																			di 
																			Puccini, 
																			i 
																			cui 
																			personaggi 
																			stavano 
																			a 
																			dir 
																			poco, 
																			e 
																			per 
																			fortuna, 
																			agli 
																			antipodi.
																			
																			
																			
																			 
																			
																			
																			
																			C’è 
																			anche 
																			tanta 
																			poesia 
																			del 
																			Pascoli 
																			più 
																			serena, 
																			come 
																			quella 
																			d’ispirazione 
																			georgico-bucolica 
																			o 
																			quella 
																			delle 
																			meditazioni 
																			o 
																			dei 
																			ricordi 
																			d’infanzia, 
																			ma 
																			probabilmente 
																			a 
																			Puccini 
																			non 
																			interessavano 
																			o 
																			non 
																			ne 
																			sentiva 
																			il 
																			richiamo, 
																			circondato 
																			com’era 
																			da 
																			collaboratori 
																			più 
																			che 
																			collaudati 
																			e 
																			più 
																			che 
																			mai 
																			in 
																			sintonia 
																			con 
																			le 
																			sue 
																			esigenze 
																			di 
																			teatro. 
																			Sì, 
																			in 
																			lui 
																			musicista 
																			c’è 
																			dissolvenza, 
																			giovinezza 
																			che 
																			si 
																			sfalda, 
																			vite 
																			che 
																			bruciano 
																			in 
																			un 
																			soffio, 
																			passioni 
																			dalle 
																			ali 
																			tarpate, 
																			ma 
																			tutto 
																			è 
																			dentro 
																			la 
																			vita, 
																			tutto 
																			si 
																			combina 
																			con 
																			la 
																			vita, 
																			di 
																			cui 
																			la 
																			morte 
																			è 
																			solo 
																			un 
																			afflato 
																			e 
																			non 
																			può 
																			essere 
																			così 
																			invasiva 
																			da 
																			avvelenare 
																			l’esistenza 
																			per 
																			impedirsi 
																			di 
																			vivere.
																			 
																			
																			
																			
																			Sarebbe 
																			bastato 
																			comprendere 
																			questo 
																			per 
																			intendersi, 
																			ma, 
																			se 
																			anche 
																			Puccini 
																			vi 
																			si 
																			fosse 
																			provato, 
																			Pascoli 
																			non 
																			avrebbe 
																			potuto 
																			capire: 
																			per 
																			lui 
																			la 
																			vita 
																			era 
																			e 
																			restava 
																			mistero, 
																			stupore 
																			avvolto 
																			dal 
																			sogno, 
																			accarezzato 
																			dai 
																			fantasmi 
																			dei 
																			ricordi, 
																			dalla 
																			voce 
																			dei 
																			morti 
																			e da 
																			quella 
																			del 
																			fanciullino, 
																			vera 
																			indole 
																			del 
																			vero 
																			poeta. 
																			Puccini 
																			la 
																			vita 
																			se 
																			la 
																			spese 
																			come 
																			volle 
																			e ne 
																			fece 
																			teatro.
																							
																			
																			
																			
																			
																							
																			 
																			
																			