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N. 89 - Maggio 2015 (CXX)

PASCOLI E PUCCINI

UN’INTESA MANCATA - Parte I
di Claudia Antonella Pastorino

 

Quello tra Giacomo Puccini (1858-1924) e Giovanni Pascoli (1855-1912) non fu, come accade di solito tra musicisti e letterati, un rapporto di non intesa o incomprensione o di ricerca di uno scambio per combinare insieme qualcosa– e che poi magari non va in porto per una ragione o per l’altra – ma dobbiamo porlo sullo sconfortante piano della collaborazione mai nata.

 

Pascoli la voleva, Puccini per niente, per cui venne incoraggiata da una sola parte proprio dal poeta-bambino così tanto schivo e riservato, chiuso nel suo mondo votato alla campagna, al ricordo della famiglia, alle meditazioni solitarie attraversate da ombre, larve, fantasmi : quasi un ossario alleggerito dalla sensibilità un po’ fiabesca del ‘fanciullino’, la chiave del suo pensiero di uomo e di poeta a cui si deve il lato più solare dell’opera sua.

 

Sulla base di questo dato reale, e cioè l’assenza di un inizio, è chiaro che i documenti disponibili al riguardo sono assai esigui e mostrano di seguire perlopiù una linea di generica cortesia di circostanza, attestata da qualche cartolina di saluti e uno sporadico scambio epistolare, ma non sono del tutto alieni da possibilità di approfondimenti che possano aiutare a comprendere meglio le ragioni del mancato sodalizio (più che disinteresse, impossibilità di definire un tracciato in comune).

 

Innanzitutto dobbiamo attenerci alle uniche date del loro incontro nella casa del poeta, il 1908, quando Pascoli aveva 53 anni e Puccini 50, e il 1911, 56enne l’uno e 53enne l’altro, vale a dire un’epoca in cui erano entrambi molto affermati e avevano già prodotto il meglio dell’arte loro.

 

Il musicista lucchese aveva scritto e dato Le Villi (1884), Edgar (‘89 e ‘92), Manon Lescaut (‘93), La Bohème (‘96), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), La Fanciulla del West (1910), al Pascoli per essere ricordato sarebbero bastate le due raccolte che ancora adesso lo consacrano alla letteratura, Myricae (1891, ristampate negli anni successivi) e i Canti di Castelvecchio (1903, riediti nel 1907 e nel 1913), sebbene sia doveroso ricordarne altre che non andarono oltre il 1911, vale a dire un anno prima della fine : Poemi conviviali (1904), Primi Poemetti (1905), Odi e Inni (1906), Poemi italici e Canzoni di Re Enzio (1908-1910), Nuovi Poemetti (1909), Poemi del Risorgimento (1911, interrotti dalla morte).

 

In un discorso a sé si collocano i Carmina del Pascoli latinista, raccolta di carmi latini composti tra il 1885 e il 1911 (prima edizione 1914, seconda 1930) e comprendenti trentuno poemetti e settantatrè poesie più brevi. Di detti poemetti fanno parte alcune delle figure di donna più significative, Thallusa e Pomponia Graecina, considerate personaggi drammatici rispetto alla scarna ritrattistica del mondo femminile pascoliano dominato da vergini, monache e fanciulle che muoiono senza mai aver avuto il tempo di sapere e capire qualcosa della vita. Ma fu anche prosatore, critico, oratore, latinista e grecista, autore di antologie scolastiche, insomma tutto quel che all’opera lirica serve a poco per non dire a niente.

 

Sappiamo però che amava la musica, il melodramma in particolare. L’inseparabile sorella Maria, più nota come Mariù, ricorda nelle Memorie che il fratello, studente universitario con pochi quattrini in tasca, si recava spesso a teatro con gli amici e, quando prese con sé lei e l’altra sorella Ida, festeggiò l’evento portandole all’opera.

 

Continuò a coltivare la sua passione ascoltando musica dal piano melodico della Ditta Racca di Bologna collocato nello studio della casa di Castelvecchio, strumento donatogli dall’amico Giulio Vita al quale il poeta scrisse di avervi sentito l’Ave Maria di Gounod, «la portentosa sinfonia della Semiramide, e due o tre volte quella divinissima Prière d’une vierge, che mi ha suggerito i più alti e profondi pensieri. Io e Maria siamo risorti a nuova vita. Il Racca è un benefattore dell’umanità a più buon diritto di qualunque scopritore e inventore di comodità e di medicine. Egli viene in soccorso degli appassionati – dei bisognosi – della musica, i quali, come molte atre cose, così non poterono da ragazzi apprenderne l’arte consolatrice e sublimatrice. Vorrei avere il ritratto di questo industriale per metterlo accanto a quello dei poeti che più m’hanno ispirato e giovato! A me pare che lì dentro ci sia del mistero, dell’oltreumano. Insomma dacché ho il musico strumento, io vivo il doppio di prima».

 

Mistero e oltreumano, come si legge in questa lettera che celebra con tanto entusiasmo gli effetti della musica ponendola perfino al di sopra delle conquiste della scienza medica e del benessere, sono motivi tipicamente pascoliani, ma lo erano anche pucciniani? Occorre chiederselo e magari si obietterà che comunque l’epoca era la stessa e che perciò qualcosa doveva accomunarli.

 

Non proprio. Il decadentismo pucciniano non era esattamente quello del tempo, anzi non lo era quasi per niente: nulla o poco di misticismo, nulla o poco di mistero, nulla o poco di divagazioni metafisiche, morte sì ma mai ossessione mortuaria come nel Pascoli, con i suoi fantasmi poetici, il nido familiare ricreato a Barga prendendo con sé Mariù, le meditazioni dolcissime sempre intercettate da voci, perlopiù dei propri cari.

 

Non che Puccini fosse un vanesio – e questo lo sappiamo dalla sua musica – ma del decadentismo in senso stretto non ne fece un mito, la nuova religione degli sbigottimenti e dei vaneggiamenti se la girò e rigirò come volle, traendone e affermandone un’arte personale. Le sue inquietudini e le sue frammentazioni non spezzano, creano pause, lunghi respiri che si fanno sospiri, poi le illusioni, la giovinezza che si consuma, l’annullarsi di sé mentre si vive (non mentre si pensa), l’amore che angoscia, sfugge e non si raggiunge se non per essere dissolto, la fine che quasi accarezza senza ghermire, senza violare.

 

Il Lucchese non elaborava a freddo la propria poetica riandando in ricordi o in dimensioni sospese a mezz’aria, ma la filtrava attraverso la vita e le sue sciocchezze, i momenti fatti di tutto e di niente, cogliendo ogni attimo fugace non solo per interiorizzarlo ma per sfaldarlo nella fugacità vitale dell’esperienza.

 

Andava a caccia, fumava come un turco, si distraeva con donne, il club della bohème, tressette, briscola, vestiti e automobili all’ultima moda, biciclette, camice e colletti fatti venire da Londra, la pelliccia per il freddo americano, la vita lacustre, le notti e i giorni al pianoforte a comporre quasi sempre con gente intorno a giocare e chiacchierare, i trasalimenti che lo afferravano quando sapeva di aver trovato per i suoi personaggi le parole giuste per la situazione giusta. E poi le note facevano il resto perché erano già lì ad aspettare in qualche parte di sé.

 

La tradizione librettistica epico-romantico-eroica dell’800 era un lontano ricordo, vi aveva sostituito cose legate alle persone, al quotidiano, a una certa realtà tangibile, per cui nell’affannosa ricerca faceva impazzire gli amici librettisti, tutti uomini di lettere e di teatro, come la genesi della Manon Lescaut, e non solo, ampiamente dimostra.

 

In che modo e con quale mezzo tutto questo complicato armamentario di far arte potesse non dico conciliarsi, ma sperare d’incontrarsi con le regressioni del mondo pascoliano all’infanzia, ai tormenti della tragedia familiare segnata dall’assassinio del padre, alle proiezioni continue di un immaginario tutto suo – sia pure mediato dalla luminosità di un profondo sentimento per la natura che opera, che canta, che vive – direi che è difficile da intravedere.

 

Per questo, mal sopporto leggere di qua e di là assurdità riferite a rapporti di stretta amicizia fra i due, peraltro impossibile da documentare in quanto di amicizia non si è mai trattata e forse non poteva neppure esserci come molti vorrebbero, essendosi appena sfiorati con garbo, con rispetto, con tatto, senza mai arrivare a un’ipotesi di lavoro insieme. E non perché non si fossero capiti, ma per l’esatto contrario.

 

Si obietterà con lo sbandierare la famosa poesiola della farfallina, che senz’altro va ricordata in seguito al crollo di Madama Butterfly alla Scala il 17 febbraio 1904, quando il poeta scrisse e spedì per cartolina al compositore i bei versi poi pubblicati sul Giornale d’Italia il 20 aprile di quell’anno: “Caro nostro e grande Maestro, / la farfallina volerà : / ha l’ali sparse di polvere, / con qualche goccia qua e là, / gocce di sangue, gocce di pianto … / Vola, vola farfallina, / a cui piangeva tanto il cuore; / e hai fatto piangere il tuo cantore… / Canta, canta farfallina, / con la tua voce piccolina, / col tuo stridere di sogno, / soave come l’ombra, / dolce come una tomba, / all’ombra dei bambù / a Nagasaki ed a Cefù”.

 

Risposta di Puccini : «Caro grande poeta, con tanta gioia ho letto la fine sua cartolina e ne la ringrazio. Anch’io ho così fede (sia pur tenue) nel volo di Cio Cio San!».

 

L’opera per fortuna si riprese e trionfò tre mesi dopo, il 28 maggio, al Teatro Grande di Brescia con sette bis e la giusta rivincita, ma vorrei far notare un dettaglio apparentemente insignificante del biglietto di risposta di Puccini, che scrive del «volo di Cio Cio San», non della «farfallina», diminutivo caro al lessico pascoliano non solo per il linguaggio bensì per tutta una poetica di riferimento.

 

Puccini invece è più concreto, per lui Butterfly non è una farfallina, è Cio Cio San. Il verso dolce come una tomba è un altro motivo dell’assillo pascoliano e non so come dovette suonare al già lacerato spirito del musicista dopo la disfatta dell’opera; fatto sta che, se per il poeta romagnolo la morte è una tomba, per il Lucchese è una dissolvenza fra le nebbie di un lago all’alba o al tramonto, un vapore che non produce ossari ma soltanto annientamento dell’esistenza già da vivi, purché passi per le passioni e le densità del vivere, non per il niente.

 

Eccelsa la poesia del Pascoli quando viaggia nel liquido amniotico dell’infanzia – le ciaramelle, la befana, la ninna-nanna – e i sapori, gli odori, i suoni, il lavoro della campagna e della natura, ed è eccelsa quando bisbiglia sogni, parole quasi inarticolate, modi popolari a guisa di ritornello, tormenti della domus spezzata che brama di ricostituire attraverso le sorelle superstiti con le quali vivere per sempre (ma Ida si sposa gettandolo nel più cupo sconforto, mentre Mariù gli rimarrà accanto fino alla morte, custode di carte e memorie).

 

Genera fantasmi, si popola di morti, specchio di una vita chiusa, spesa fra libri e cattedre scolastiche cui gli unici affetti a fare capolino sono quelli familiari, le figure del padre Ruggero e della madre Caterina – che sopravvisse da vedova poco più di un anno al marito ucciso - inseguite per tutta la vita a promettere loro, come a risarcirle delle ingiustizie patite, in una personale offerta votiva, il suo essere poeta che ha saputo affermarsi, essere degno di loro.

 

Poteva Puccini attingere materia nuova da un Pascoli librettista, il poeta che inizia ‘Myricae’ con un camposanto (Il giorno dei morti) e lo stesso fa con i ‘Canti di Castelvecchio’ (Tra San Mauro e Savignano), per non parlare, da ambo le raccolte, de IlBrivido, il tremito che secondo la credenza romagnola si prova al passaggio della morte, La voce, Il morticino, Morte e Sole, Morto, La civetta, Lapide, Il bacio del morto, La notte dei morti ?

 

Vero è che l’attitudine del Pascoli a un ripiegamento così angoscioso nei confronti della vita e soprattutto della morte, deriva anche da suggestioni del patrimonio classico, greco e latino in particolare, con la sua tragicità, la sua sacralità letteraria perpetuatasi da millenni nella nostra cultura del pensare e del vivere.

 

Le malinconie del poeta passano per questo retroterra unito alla storia della cronaca familiare e non sono le malinconie nevrotiche di Puccini che invece nella noia ripone e rimesta le migliori soluzioni dell’arte sua : il superfluo, le piccolezze, sono il trionfo di questa poetica, quel che fa imprimere nel profondo le sue opere.

 

Un esempio per tutti La Bohème. La cuffietta rosa, le buffonate dei quattro amici, le chiacchiere alla dogana, i litigi fuori campo di Musetta e Marcello, la vecchia zimarra, il manicotto e, a un passo dalla fine, il gesto caritatevole di Musetta che pensa a un riparo per la lampada perché la fiamma sventola (e vi si sentono tutti gli spifferi che su quella povera soffitta dovevano abbattersi), sono pulviscoli di grandezza che chiamano a sé tutta l’opera in ogni frammento e non soltanto nelle pagine più note.

 

Se manca la tipica atmosfera pucciniana non sarebbe neppure possibile isolare un’aria o un duetto come per la tradizione del passato, perché non avrebbero senso, gli stessi personaggi non starebbero in piedi nella loro dissolvenza esistenziale.

 

 

Un amico in comune per due vite agli antipodi

 

S’incontrarono in Toscana, in casa del poeta, dopo alcuni cenni di contatto tentati anni addietro, ma sappiamo che Puccini era di Lucca e che al periodo di Bohème risale la scelta di stanziarsi a Torre del Lago, mentre Pascoli, nativo di San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli), in Toscana ci andò per insegnare latino e greco a Massa negli anni ‘84-’87 e a Livorno in quelli ‘87-’95, decidendo di stabilirsi a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, nell’autunno 1895.

 

Lasciò Livorno il 15 ottobre in treno insieme alla sorella Mariù (mancava Ida, l’altra sorella, che si era intanto sposata il 30 settembre andando a vivere nella zona di Rimini) e andò a stare in affitto nella nuova casa sul colle di Caprona – o dei Caproni – nella Valle del Serchio, in Garfagnana, lo stesso territorio selvaggio che l’Ariosto, in qualità di governatore, andò a liberare dal banditismo nel 1522 rimanendovi tre anni.

 

Il poeta vi rimase per tutta la vita, lasciandola solo per i periodi dell’insegnamento universitario a Messina, Pisa e Bologna e per andare a curarsi la grave malattia allo stomaco nel capoluogo emiliano, dove giunse ormai allo stremo il 17 febbraio 1912 e dove morì il 6 aprile.

 

Sappiamo che Puccini fu presente ai funerali, quando la salma venne portata a Castelvecchio da Bologna in un giorno assai piovoso, vero pianto del cielo, il 9 aprile, un martedì, tra acqua, vento e temporale, con sosta a Lucca, arrivo a Fornaci (all’epoca unica stazione attiva del comune di Barga), con il corteo funebre costretto a fermarsi più volte nel buio a causa delle strade ridotte ad acquitrini, in direzione del cimitero di Barga.

 

Nella casa tanto amata dal poeta avvennero i due incontri, testimoniati da due fotografie : quella del 1908 venne scattata sull’altana che da un lato affaccia su Barga, dall’altra sulle Alpi Apuane, in particolare sulla Pania (la dantesca Pietrapana), Puccini elegante come sempre, Pascoli di profilo con la sua pancia prominente; quella del 1911, un anno prima della morte del poeta, li ritrae insieme nel giardino detto “chiusa”, il cui viottolo conduce alla chiesetta di San Niccolò celebrata in The Hammerless Gun (il nome di un fucile da caccia donato al poeta nel Natale 1896 da Adolfo De Bosis, traduttore di Shelley).

 

Si vede un Pascoli assai pingue e, rispetto all’altro, con il solito aspetto dimesso, da sempliciotto di campagna, tanto che di sé diceva di essere «grosso e colorito […]. Non un indizio esterno ch’io conosca l’alfabeto. Molti si sono compiaciuti di affermare che sembro un fattore, piuttosto che un poeta». Sappiamo che accolse in estate l’illustre ospite, giunto in compagnia del comune amico Alfredo Caselli, lucchese, omaggiandolo con l’ascolto sul piano melodico di una delle sue composizioni.

 

In comune avevano sicuramente, più che qualcosa, qualcuno, il citato Alfredo Caselli (1865-1921), titolare di una nota drogheria e caffetteria di famiglia nel centro di Lucca, uno dei componenti il club della Bohème e tra i loro maggiori referenti epistolari, tanto che entrambi gli indirizzavano lettere fra le più significative della propria attività.

 

Esiste al riguardo un fitto carteggio tanto pucciniano quanto pascoliano, perché il Caselli, omosessuale ben accetto, competente di musica, viaggiatore, persona colta e raffinata, era amato e tenuto in considerazione dall’uno e dall’altro, come dimostrano tante confidenze anche sulle rispettive poetiche.

 

Il Pascoli, che lo conobbe nel 1898 e lo frequentò anche perché l’amico soleva trascorrere la villeggiatura estiva in una località della Garfagnana (qui fu poi trovato morto in non mai precisate circostanze, a mio avviso lo scotto della sua diversità, come oggi), dedicandogli nel 1902 l’ode Ad Alfredo Caselli e, nelle Note alla prima edizione dei Canti di Castelvecchio, nel 1903, rivolgendogli un ringraziamento per aver «tanto fatto, vegliato, trepidato, col suo gran cuore e col suo gentile intelletto, per noi».

 

Puccini gli scrisse da Londra, da Parigi, si fece da lui fotografare per i giornali dopo il grave incidente d’auto del 26 febbraio 1903, lo mise al corrente della messa in scena e di altri dettagli di opere come Bohème e Butterfly, gli estese le sue impressioni, lo annoverò tra i membri di quel circolo bohèmienne assai pericoloso per ogni genere di virtù e che aveva sede dirimpetto la villa del musicista a Torre del Lago, in una baracca in legno col tetto di paglia che oggi definiremmo una sorta di prefabbricato.

 

Può forse sembrare strana tanta condivisione con l’asetticità pratico-esistenziale del Pascoli, fatto sta che nel regolamento del club, presieduto da Puccini, i soci erano obbligati al giuramento di bere e mangiar bene, a non ammettere “immusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere”, a proibire severamente “tutti i giochi leciti”, a vietare il silenzio, a bandire la saggezza “non ammessa neppure in via eccezionale”. Unica concessione andava al cassiere, avente “facoltà di fuggire con la cassa”.

 

Se poi si lancia un’occhiata al resto della combriccola, in particolare ai nomignoli di ognuno, ci si può fare un’idea più precisa dei suoi componenti nonché dello spirito che dominava l’attività di gruppo: oltre il citato Caselli con Alfredo Catalani, il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone, Luigi Illica, Renato Fucini, perfino un sacerdote don Pietro Panichelli, meritano menzione personaggi coloriti come i pittori Angiolino e Ludovico Tommasi, Ferruccio Pagni detto “mi strafotto” e “denti di ghisa”, Ferruccio Fanelli il “patata”, il giornalista Carlo Paladini il “pelacane”, il riduttore delle partiture pucciniane Carlo Carignani il “mestola”.

 

Di costoro il presidente si circondava anche dentro casa, mentre lavorava a Bohème, forse facendone tesoro mentre pensava ai quattro spiantati della soffitta parigina e mentre sentiva schiamazzare intorno a lui, tra le note che venivano fuori da risa, scherzi, carte da gioco, facezie scurrili, racconti di avventurette, proprio come nei ritrovi o nelle osterie.

 

Un clima da bettola, una fucina d’idee, scenario impossibile e assolutamente impensabile per un tipo come il Pascoli, i cui unici frastuoni graditi erano quelli delle cucine di campagna intente al girarrosto, alla pentola che brontola brontola brontola e sfrigola sfrigola sfrigola, alle castagne sul fuoco, alla legna che scoppietta, o quelli provenienti dai brontolii della natura, insomma quel mondo semplice che si portava dietro fin dall’infanzia. Blindato con Mariù e il cane Gulì nell’eremo che si era creato a Barga, riconosciuta «la patria di quasi tutta l’opera mia», confiderà al Caselli, in una lettera dell’11 settembre 1900, come lui e la sorella non fossero felici «nella loro trista vita solitaria […] ma rassegnati, rassegnati».

 

Puccini stava tutto sommato bene in quel suo veleggiare in libertà, nelle brevi o lunghe relazioni malcelate ad Elvira e che confidava alla prediletta sorella Ramelde, raccomandandole di stracciare dopo aver letto – un andazzo che provocò la famosa strigliata di Giulio Ricordi nella lettera del 31 maggio 1903 a proposito di Corinna, la studentessa universitaria di Torino che frequentava da qualche anno –, e in tal disordine, come nel crogiolarsi annoiato nello sciocchezzame di ogni giorno, si nutriva la fecondità del suo comporre.

 

Siamo nel riscatto eccellente dell’arte, lo stesso che Pascoli cercava invece di trarre dal conforto colloquiale con i suoi morti, lieti di godere delle glorie poetiche del congiunto volte a ripagarne il destino avverso – soprattutto il padre invendicato - avuto da vivi.

 

C’è da chiedersi dunque che spazio, all’interno della progettualità pucciniana, poteva trovare la pur bella lirica del poeta, specchiante così bene l’autore con il suo mondo virginale-virgiliano da cui non era mai uscito.

 

Naturalmente qui non si vuole indagare e moralizzare il modus vivendi di ognuno, bensì l’ars che ne poteva derivare se vi fosse stato un principio d’intesa non tra le due persone, ma tra le due poetiche, solo in apparenza simili mentre simili non erano né potevano essere (eppure si è scritto tanto a vanvera sul contrario).

 

Sul piano concettuale ed espressivo erano anzi assai differenti per opposte visioni ed elaborazioni di esperienze tanto biografiche quanto artistiche. Inutile dire che Puccini era rivolto sempre al futuro, il Pascoli era rimasto prigioniero del passato, e non mi si dica che questo non ha conseguenze e non lascia tracce sull’opera propria.



 

 

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