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N. 48 - Dicembre 2011 (LXXIX)

Orizzonti di gloria

Memoria della Grande Guerra - Parte V
di Gianluca Seramondi

 

La sequenza dell'attacco non solo riproduce le strategie seguite dall'esercito francese, restituisce inoltre quel paesaggio sonoro che, quasi sostituendosi a quello visivo, imponeva la morte con un suono meccanico, martellante, da fabbrica. In parole povere, restituisce della prima guerra mondiale, il suo lato più inquietante: la morte di massa. Infatti «... il fronte fu innanzitutto il luogo della morte di massa, perlopiù anonima, dove ignoto rimane colui che ammazza e dove si ignora chi si sta ammazzando» (Stephan Audoin-Rouzeau, Annette Becker, 2002, p. 30).

In Paths of Glory, la morte in battaglia arriva solo durante l'attacco. Prima, tuttavia, la sua presenza è molto più totale, pervasiva e invasiva, più spaventevole di quanto non lo siano i fanti che cadono sotto il fuoco nemico durante l'attacco. Difatti, «...il primo conflitto mondiale conferì alla morte in guerra una dimensione nuova [...] esso mise i combattenti di fronte non soltanto alla morte in battaglia, ma alla morte come parte della vita quotidiana delle trincee» (Gerge Mosse, 2002, p. 77). Ha ragione, allora, Bruno quando afferma che «La morte ... si rivela essere il vero nucleo tematico di questo film angoscioso» (Marcello Walter Bruno, 2003, p.33). Tutte le sequenze che precedono l'attacco sono interamente dominate dalla morte, ma come esperienza della morte, come rappresentazione di quell'evento cui tutti vogliono sfuggire e che la realtà della guerra rendeva dominante. Non è superfluo elencare le diverse occorrenze della morte in questa prima parte di Paths of Glory, giacché questa ricognizione darà la perfetta visione di come la Storia, da evento narrato, diventi regia teatrale della finzione.

La morte compare fin da subito durante il colloquio tra Mireau e Broulard, quando questo ultimo ordina l'attacco al Formicaio. Ma questa è una morte semplicemente allusa, indicata, mai realmente nominata. Mireau ne parla solo indirettamente, in termini di negazione del valore della vita, la reale posta in gioco dell'attacco: «La vita di uno di quei soldati significa per me più di tutte le stelle, le decorazioni e gli onori di Francia». Al di là dell'ipocrisia di queste parole, che potranno essere semplicemente dimenticate non appena si profilerà un avanzamento di carriera, la morte è qui tutt'altro che una presenza dominante. Rimane sull'orizzonte della vicenda, come una possibilità che nessuno vorrebbe vedere attuata.

Ben altro senso avrà la morte nelle parole sempre di Mireau durante la sua ispezione in trincea per ordinare a Dax l'attacco al Formicaio. Mentre percorre la trincea per raggiungere il ridotto di Dax, il generale si ferma tre volte per conferire con altrettanti soldati, dei quali i primi due sono Ferol e Paris, due dei condannati a morte. Mireau inizia queste tre parodie di dialoghi con la stessa domanda: «Olà [nel primo caso è un «Salve»] soldato, pronto ad uccidere altri tedeschi?». La morte è ora morte violenta. Da questa impostazione non si uscirà più per tutto il corso del film. Il dato non è del tutto ovvio o banale. Prima del conflitto del 14-18, in tempo di guerra si moriva più di malattia che a causa dei combattimenti. Le percentuali tenderanno ad equilibrarsi nella guerra d'Italia del 1859. Ma «...dal 1914 la morte in guerra è diventata quasi esclusivamente morte violenta, anche se il numero dei malati si mantiene elevato» (Stephan Audoin-Rouzeau, Annette Becker, 2002, p. 12), circa un sesto dei decessi. Quello che preme inoltre rilevare è che qui la morte violenta è infierita nei confronti di altri, è transitiva: «uccidere» non «essere uccisi». Questo sarà l'unico luogo in cui la morte sarà considerata transitiva e non riflessiva o passiva, e non è un caso che sia il generale ad utilizzare la forma attiva del verbo uccidere. E l'uccidere, inoltre, è la conditio sine qua non del rimanere in vita. La morte allusa nel dialogo con Broulard diventa qui la morte dell'altro, del nemico, come valore aggiunto della vita del proprio soldato soldato.

Il colloquio tra Dax e Mireau piegherà ulteriormente il significato della morte in direzione della realtà della guerra, perché in esso la transitività cederà in via definitiva il posto alla passività: dalla morte allusa, sfondo indifferenziato e indifferente, all'uccidere; dall'uccidere all'essere uccisi. Dopo aver ordinato a Dax che l'indomani dovrà attaccare il Formicaio, e richiesto da questi di una previsione sulle perdite, Mireau così risponde: «eh diciamo il 5 per cento uccisi dal loro stesso sbarramento, una concessione molto generosa, un altro 10 per cento nell'attraversare la terra di nessuno e un 20 per cento nel passare i reticolati. Resta un 65 per cento con la parte peggiore superata. Diciamo un altro 25 per cento nella conquista vera e propria del Formicaio. Ci restano ancora forze più che sufficienti per tenerlo».

La morte è sì passiva, giacché si parla di perdite, ma è anche, sostanzialmente, la voce all'interno di un bilancio. La morte è un computo, la registrazione di un dare e di un avere, allo stesso modo in cui dovranno essere registrate le armi perdute, le pallottole utilizzate, il gas diffuso etc. etc. Non ci si deve scandalizzare del cinismo con cui Mireau compie la previsione. Come sottolinea, tra gli altri, Gibelli la guerra del 14-18 è la trasposizione sul piano bellico del modello fordista introdotto nell'industria statunitense. Di là di altre conseguenze, su cui torneremo dopo, per ora basti rilevare che se la guerra funziona «...come un'industria per il macello umano specializzato [in cui] ogni paese belligerante diventa insomma un'officina di cui la guerra è il prodotto» (Antonio Gibelli, 1991, p. 104), allora essa deve accettare che i vari bilanci consuntivi e di previsione diventino la prassi centrale dell'attività bellica.

La morte come voce di un bilancio cancella ogni dubbio sulla presunta identità tra i sentieri di guerra e i sentieri di gloria. Nello stesso momento, la cifra che restituisce le perdite in battaglia convalida l'anonimato che investe i soldati al fronte, ne vanifica l'identità e con ciò stesso annulla ogni velleitaria pretesa di eroismo o di valore del soldato.

Dopo la morte infierita, si è passati così a una morte passiva ma epurata di tutte le pastoie relative al corpo. Non è già una morte astratta, bensì una morte concreta all'interno di un discorso economico. Il primo incontro fisico con la morte, il primo momento in cui la morte passa dal piano verbale a quello fisico, avviene nella sequenza della ricognizione ed è scandito in due momenti almeno. Durante l'avanzamento di Paris, Roget e di Lejeune verso i reticolati del nemico, il bagliore di un razzo lanciato per illuminare la Terra di nessuno, lascia comparire per un breve momento i cadaveri di due soldati, proni, con le braccia aperte, quasi iscritti nel terreno su cui poggiano. L'arditezza dello scorcio in cui i due corpi sono ripresi, conferisce loro una raffigurazione che ricorda quella del Cristo morto di Mantegna.

Queste figure riconducono certamente sul piano umano le percentuali di perdita stilate da Mireau. Ma, nel momento in cui ne denunciano la cinica astrattezza, le inverano compiutamente. I due cadaveri, infatti, sono ignoti, e tali resteranno, (sebbene uno degli obiettivi dichiarati della ricognizione, a detta del tenente Roget, è quello di identificare i cadaveri), quindi, tra loro indistinti. Nello stesso modo, le percentuali sulle perdite annullano la differenza tra ciascun "numero".

Con la morte fisica dei due soldati intravisti per un momento nella Terra di nessuno, ecco che l'anonimato della morte giunge a gravare anche sui soldati ancora vivi. Si estende nelle retrovie, nei luoghi del comando, nelle trincee stesse, tra i soldati che passano accanto ai cadaveri quasi sfiorandoli, che li hanno di fronte, e che, tuttavia, non accusano alcuna offesa morale da quella vista. L'anonimato della morte di massa ha come effetto la morte indifferente. La morte di Lejeune, ucciso dalla vigliaccheria del tenente Roget, non restituisce affatto l'umanità, pure disumana, della morte. La amplifica, piuttosto, nel senso dell'estensione cui si è accennato poco sopra.

La sua morte, infatti, si accorda nell'anonimato con i due cadaveri intravisti, giacché è la morte di un soldato che, di fronte a Roget, un suo superiore, non ha mai proferito parola né mai è stato interpellato, e che, di conseguenza è già da sempre nell'anonimato. Qui Kubrick raggiunge una sensibilità nel ricostruire un'esperienza così profonda e radicale difficilmente veduta in altri film di guerra. Lejeun è un soldato già da sempre anonimo. Come la morte è anonima e di massa e indifferente, così anche il soldato è anonimo e di massa e indifferente. Come la guerra è un'officina, così il soldato è l'operaio dell'industria fordista e «Come l'operaio-massa, il soldato massa deve essere forgiato in modo tale da funzionare come elemento standardizzato di un meccanismo» (Antonio Gibelli, 1991, p. 91). Ma questo avverrà compiutamente solo in periodi più vicini a noi.

La morte di Lejeune è anche la morte che ben si colloca tra le rovine di un edificio, in una postura tanto più agghiacciante quanto più le braccia, l'una tesa e l'altra aperta, paiono aprirsi in un abbraccio, insieme contratto e fanciullesco, che ricorda le braccia lanciate verso il cavallo, o verso la luce che scende dall'altro, nella Conversione di S.Paolo del Caravaggio. La morte di questo fante ignoto è, ancora, la morte come rottame, resto fumante che si appaia con il rottame d'aereo, fumante anch'esso, che pare quasi ergersi sulla piana desolata come una croce e che, per questo, trasforma la Terra di nessuno nel Golgotha della crocifissione di Cristo.

La morte di quel soldato anonimo e indifferente, infine, è ancora una morte che lascia intravedere le sue cause fisiche, la granata, tra la rete delle cause psicologiche, la pavidità di Roget. Il dialogo tra i due soldati sui modi migliori di morire in guerra, sequenza che segue la spiegazione della tattica e che chiude questa prima parte del film, porta la morte nel campo della piena corporeità.

 «Arnaud: "Io non ho paura di morire domani... Ho paura che mi uccida...

 soldato: "è chiaro come la notte"

Arnaud: "Preferiresti essere ucciso da una baionetta o da una mitragliatrice?"

soldato: "Ma da una mitragliatrice"

Arnaud: "Anch'io la penso così: tra le due armi la mitragliatrice è più veloce, più pulita e meno dolorosa"

soldato: "Cosa vuoi dimostrare?"

Arnaud: "Che la maggior parte ha più paura del dolore che di morire [pausa] Guarda Bernard. Ha il panico se gli parli di gas. Invece a me non dà fastidio. Lui ha visto gente fregata dal gas e questo lo ha spaventato. Ti dico una cosa. Mi sentirei perduto senza elmetto in testa, mentre non mi importa di non avere un elmetto sul sedere, e sai perché"

soldato: "si, perché c'è il cervello..."

Arnaud: "perché so che una ferita in testa fa molto più male. Là c'è soltanto carne ma la testa è tutto un osso"

soldato: "già è il caso tuo"

Arnaud: "Dimmi un po': baionetta a parte, di che cosa hai più paura?"

soldato: "Ma di una grossa bomba!"

Arnaud: "Esatto! Proprio come me! Perché ti può dilaniare più di qualsiasi altra cosa; vedi, se hai paura di morire dovresti viver nel panico per tutta la vita perché sai che un giorno devi morire; e poi, se è la morte che veramente ti spaventa, perché ti preoccuperesti di cosa ti uccide?"

soldato: "Ah, sei troppo profondo per me (..). So solo che nessuno vuole morire"

La morte può essere causata dalla baionetta - una morte che, se ricorda il corpo a corpo delle battaglie con la spada, non è detto che arrivi subito, è potenzialmente agonizzante. La mitragliatrice è migliore della baionetta perché veloce, pulita e meno dolorosa, a meno che le sue pallottole non impattino le ossa del cranio. La morte è, ancora, quella data dal gas - una morte psichica e fisica insieme, che può distruggere la persona negandole anche il conforto della morte. Oppure la morte è quella provocata da una grossa bomba, una morte che dilania il corpo, che frantuma le ossa, che decapita il corpo, così come si vede in una delle inquadrature finali della sequenza dell'attacco. Quest'ultima è la morte, "l'essere uccisi", che fa più paura, che incute terrore perché dilania, spezza, manda in mille pezzi una corporeità ultimo baluardo dell'identità anche nella morte.

La corporeità della morte è qui finalmente totale, è vissuto quotidiano della morte come morte subita, come essere uccisi. Ed è un vissuto legato strettamente a quel dispiego di tecnologie che la prima guerra mondiale ha portato a livello di massa.

La sequenza del dialogo tra i due soldati, così avulsa dalla narrazione, così commentativa ed espressionista, di puro rafforzo emotivo della narrazione, dipinge una “natura morta”, verbale e salottiera, e proprio per questo molto più gelida e angosciosa, in cui la morte domina incontrastata e ha cause ben precise.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Stephan Audoin-Rouzeau, Annette Becker, 14-18, retrouver la Guerre, trad. it. di Silvio Vacca, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002.

Marcello Walter Bruno, Stanley Kubrick, Roma, Gremese, 2003.

Antonio Gibelli, L'officina della guerra. Le trasformazioni del mondo mentale, Bollatio Boringhieri, 1991

Gerge Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, trad. it. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Roma-Bari, Laterza, 2002



 

 

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