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N. 44 - Agosto 2011 (LXXV)

Orizzonti di gloria

Memoria della Grande Guerra - Parte II
di Gianluca Seramondi

 

Al di fuori del lavoro di Alonge, la letteratura critica su Paths of Glory non sembra aver posto la dovuta attenzione alla Grande Guerra come evento ripreso nella narrazione non solo ai fini di una ambientazione storica, ma come obiettivo primario del film. Il primo conflitto mondiale è rimasto sullo sfondo, se non è stato del tutto accantonato come orizzonte di significazione. E anche in quei casi in cui ci si è accorti di una concreta corrispondenza con la storia del 14-18, si è fatto leva di questi riscontri per portare il significato altrove.

 

Si potrebbero suddividere le interpretazioni principali in tre grandi filoni: quelle che trovano nel film un'analisi della guerra in generale, le letture che ne evidenziano l'indagine sociale e, infine, le posizioni che ne sottolineano la portata riguardo alla questione della condizione umana e del male. 

 

Alcuni critici hanno inteso Paths of Glory come un film sulla guerra in generale e sui suoi meccanismi. In questa ottica, il riferimento preciso ad un evento storico ben determinato è puramente esemplificativo e non ha altro scopo, al limite, di accentuare la portata dell'analisi della guerra in generale.

 

In questo filone, trova agile collocazione Umberto Mosca, il quale, in un interessante articolo che legge l'opera di Kubrick nella prospettiva di fondo della critica ad una progressiva "decorporizzazione" dell'uomo avvenuta nella società, afferma che: «In Orizzonti di gloria Kubrick omette volontariamente i corpi dei nemici (non li mostra mai) rivelando l'assurdità della guerra, fa muovere i soldati dentro delle trincee che sono latrine a cielo aperto, relega le poche scene di combattimento in alcuni avvallamenti ricolmi di acqua putrida in cui i soldati sono costretti a rotolarsi, e quando il colonnello Dax tenta di guidare un nuovo attacco, la sua uscita dal fossato viene subitamente respinta dal corpo di un cadavere che gli ricade addosso. Qui la sorte cui non si può sfuggire è quella di venire schiacciati» (Umberto Mosca, 1998, p. 85).

 

La guerra di Umberto Mosca, si potrebbe dire, è una guerra la quale, seppure recante indicatori di un avvenimento storico ben determinato, palesa dinamiche generalizzabili a tutti i conflitti, dinamiche che trovano nell' "essere sopraffatti" il loro meccanismo principale.

 

Il lavoro di Giacomo Manzoli, che illustra i meccanismi attraverso cui Kubrick opera la trasposizione cinematografica dei romanzi di riferimento e insiste sulla centralità del fatto giudiziario rispetto alla vita in trincea, costruisce una interpretazione in cui la guerra storicamente determinata cede il passo ad una guerra astratta, ad una guerra in sé, intesa come esempio lampante o delle perversioni della logica o del funzionamento di una logica perversa.

 

Rispetto al romanzo di Cobb «...la logica della trasposizione tende a comprimere tutta la parte della vita in trincea (dominante nel libro) privilegiando il lato giudiziario. Quello che nel libro è solo l'episodio culminante, l'epilogo inevitabile di quell'idiozia globale che fu la guerra di trincea, nel film diventa l'evento attorno al quale far ruotare l'intero film. Sia l'opera letteraria che quella cinematografica sono a tesi. Per il libro la tesi è...la guerra è il sonno della ragione e come tale genera mostri. Kubrick inizia la sua indagine sui meccanismi delle logiche perverse o delle perversioni della logica» (Giacomo Manzoli, 1998, p. 33).

 

Il processo di generalizzazione, e, quindi, di astrazione, trova in Enrico Ghezzi il suo più dichiarato sostenitore. L'autore, infatti, scrive che: «Orizzonti di gloria è la costruzione della guerra e del suo funzionare. Lo è proprio perché ne ripete i riti glaciali, non perché mostri il nascere e lo svilupparsi del fenomeno. Esso è infatti già dato nella scritta iniziale ... e nella voce fuori campo che brevemente puntualizza la situazione del conflitto [...] In seguito la voce tace, e resta solo la situazione di guerra, una guerra storicamente determinata e con tutti i particolari al posto giusto, eppure guerra che pare astratta, guerra in cui non si vede un nemico, in cui non è mai questione di un nemico «aggressore» o ideologicamente «diverso».

 

Il tutto non sembra meno astratto della «selva» di Fear and Desire, e il riferimento storico preciso crea solo l'incubo. In fondo K[ubrick] stesso lo dice: sceglie la Prima Guerra Mondiale perché è l'esempio immane di un conflitto gratuito ... il cui senso non è comunque maggiore di quello della guerra dei Sette anni» (Enrico Ghezzi, 1977, pp. 47-48).

 

Il secondo grande paradigma interpretativo è rappresentato da quelle letture che hanno inteso Paths of Glory come una "metafora" del funzionamento della società, dei conflitti che la attraversano e delle ingiustizie che ne alimentano lo sviluppo. In questa prospettiva, la Grande Guerra funziona solo da lente per analizzare in primo luogo le dinamiche che animano gli eserciti in conflitto - nel film, dunque, assumerebbe una centralità esclusiva il processo - e, attraverso queste, le leggi non scritte che regolano la vita delle società contemporanee.

 

Guido Fink afferma che Paths of Glory condanna «...un sistema diffuso ... presso tutti gli eserciti di tutte le nazioni», così che i suoi personaggi «sono francesi per definizione, ma non hanno vere caratteristiche nazionali: lo spirito che il film combatte è quello del nazionalismo retorico, sanguinario e guerrafondaio di stile fascista e nazista» (Guido Fink, 1969, p. 13), e ricorda le simili ingiustizie perpetrate alle truppe italiane in seguito alla sconfitta di Caporetto (Ivi, p. 25). Fink, in conclusione, ritiene che «Per Kubrick... la guerra del '15-'18 è un "dato", un elemento di sfondo: sui campi di battaglia del fronte occidentale ... è cresciuta tanta erba che ha ricoperto tutto [Ma] Il cinema di Kubrick è sempre un cinema al presente» (ivi, p. 47-48).

 

La lettura in chiave psicoanalitica del film effettuata da Roberto Lasagna e Saverio Zumbo può essere ricondotta a questa prospettiva di ricognizione sul funzionamento delle strutture militari in generale. I due autori ritengono, infatti, che l'obiettivo del film sia l'autolesionismo dell'esercito (Roberto Lasagna, Saverio Zumbo, 1997, p. 88), dovuto ad una costituzione interna nevrotico-rituale-ossessiva portata all'eccesso, e il cui fulcro è la morte dell'altro. Così, Broulard e Mireau possono essere interpretati psicoanaliticamente come nevrotici la cui causa è una«... fissazione alla fase sadico-anale propria della nevrosi ossessiva» (Ivi, p. 84), mentre la contrapposizione tra la giustizia e la logica militare vede la sconfitta della prima: Dax, infatti, è «...al crocevia di due diversi riti, e di due diverse logiche: quella legale e quella militare [che] col suo astratto rigore di morte, stritolerà la prima coi suoi ideali di giustizia e di verità» (Ivi, p. 86). Nulla rimane della Grande Guerra in questa posizione.

 

Davide D'Altro, allora, ha buon gioco quando, scrivendo l'introduzione al testo di Lasagna e Zumbo, dichiara recisamente che in Paths of Glory «La Grande Guerra resta una scena dipinta e un pretesto: a campeggiare in rilievo è il cameo di un anonimo generale, che tutto azzarda pur di conquistare l'immortalità» (Davide D'Altro, Tra l'opaco e la luccicanza, introduzione a Roberto Lasagna e Saverio Zumbo, 1997, p. 12).

 

Stabilite così le coordinate di fondo che definiscono il campo militare, diventa legittimo effettuare l'inversione e indicare nelle società contemporanee il vero obiettivo del film. Così, Fernaldo Di Giammatteo indica nella situazione politica e culturale degli Stati Uniti degli anni Cinquanta il vero obiettivo di Paths of Glory. Scrive Di Giammatteo : «L'antimilitarismo di Orizzonti di gloria equivale alla condanna del denaro in Rapina a mano armata. Nascono da un certo tipo di rapporti sociali, che il regista respinge.

 

Nell'America che lo circonda vede la stratificazione dei pregiudizi borghesi, che si sono gradualmente trasformati in istituzioni dannose per lo sviluppo della persona umana. I rapporti di dominio-sudditanza, che l'attuale fase dell'economia capitalistica impone alla società, accrescono la ferocia di quella guerra senza quartiere che gli uomini combattono tra loro da tempo immemorabile. E' un classico schema marxiano che Kubrick, pur non essendo un marxista, implicitamente adotta. Singolare è, tuttavia, il modo in cui l'adotta. Critico della società della quale è figlio, il regista rivela (e soffre) la sua condizione di sudditanza nel momento stesso in cui mette in dubbio del sistema» (Fernaldo Di Giammatteo, 1965, 817-818).

 

Secondo Marcello Walter Bruno nulla vieta di porre al centro del film proprio il primo conflitto mondiale ma perché in tal modo Kubrick «...prosegue il suo studio sulle cause della violenza moderna andando al cuore della prima guerra di massa...moderna [e] imperialista ([in cui] l'opposizione fra gli ufficiali che ballano nella reggia e i soldati che attendono la morte nella trincea è già la messinscena di un'opposizione fra classi sociali)... e, in un certo qual modo, all'origine tanto di movimenti rivoluzionari come la tedesca Lega di Spartaco quanto di movimenti reazionari come il Fascismo italiano» (Marcello Walter Bruno, 2003, p. 33).

 

Questa attenzione, tuttavia, ne nasconderebbe un'altra, molto più attuale nel 1956. Il processo contro i tre militari accusati di vigliaccheria di fronte al nemico è infatti «...truccato ... come quelli imbastiti dall'HUAC, la commissione per le attività antiamericane, negli anni 50 [e, quindi,] segnala un riferimento alla "caccia alle streghe" ancora in atto nel 1956» (Ivi, p. 34). Di conseguenza, «...basta spostare l'attenzione dalle scene di trincea a quelle del processo per vedere che la polemica antimilitarista ne contiene un'altra che non si riferisce alla Francia del 1914/18 bensì agli Stati Uniti degli anni 50. Insomma, Orizzonti è anche un film sul maccartismo e la "caccia alle streghe" esattamente come tante altre opere, occultata sotto precise ma ingannevoli etichette di genere» (ivi, p. 94).

 

L'interpretazione di Bruno e, prima, quella di Giammatteo leggono il film come la critica della società americana e non nascondono che in esso possa  risuonare un'analisi delle dinamiche sociali, in particolar modo afferenti alla realtà statunitense, secondo un punto di vista marxista o ad esso avvicinabile. Da una impostazione siffatta ad una impostazione che legge nella guerra il modello per studiare in vitro i meccanismi e i rapporti sociali indipendentemente da situazioni storiche ben precise, se non forse quelle della società occidentale in senso lato, il passo è piuttosto breve.

 

La strada era già stata battuta, per esempio, da Guido Aristarco (Guido Arsitarco, 1965, p. 229-239) nella sua opera Il dissolvimento della ragione, e poi ribadita dallo stesso autore in un articolo apparso su Cinema Nuovo nell'anno di uscita del film: «...Kubrick, presentandoci una storia del passato, coniuga anche il presente [...] il fenomeno che denuncia non è dato come eccezionale, ne tantomeno come patologico e cinico ... ma come tipico a una classe, a una casta la cui condanna viene fatta attraverso un personaggio che a essa dovrebbe appartenere e invece si oppone» (Guido Aristarco, 1958, p. 152 e sgg.).

 

Anche Vicent LoBrutto, autore di una biografia del regista americano preziosa e ricca di dettagli, riferendosi alla diversa sistemazione di ufficiali e soldati, afferma che: «Gli uomini che combattevano vivevano nel sottosuolo...gli ufficiali nello splendore [...] Orizzonti di gloria trattava della distinzione di classe» (Vincent Lo Brutto, 1999, p.149). Nello stesso modo, la monografia su Kubrick di Michel Ciment, non cita mai il primo conflitto mondiale nei luoghi in cui disanima Paths of Glory, ma accennando alla  Marsigliese dei titoli di testa afferma che è un «...canto rivoluzionario [che]accompagna ironicamente i titoli di testa...ricoprendo con il suo alibi repubblicano le fucilazioni dimostrative di una società di classi» (Michel Ciment, 1999, p.122).

 

Ruggero Eugeni è anche più deciso in questa conversione della guerra in paradigma della società. «...il problema centrale del film sembra essere quello del rapporto tra individuo e società. La microstruttura sociale dell'esercito diviene in questo modo paradigma dell'intera macrostruttura sociale, che in un momento particolare e in un ambito ristretto può manifestarsi con particolare emergenza [...] Da una parte è presente l'isomorfismo tra struttura militare e struttura sociale, con una rigida divisione in gradi che corrispondono alle divisioni sociali in classi. Dall'altro, sono poste in primo piano le interazioni tra gli individui, in particolare all'interno della classe alta dei generali, relazioni improntate secondo regole di etichetta e di rappresentazione che possiedono la stessa rigidità delle norme di comportamento che agiscono negli strati bassi dell'esercito» (Ruggero Eugeni, 1995, p. 46).

 

Il saggio di Eugeni prosegue poi la direzione del sociale verso l'universalità della condizione umana. «...il quadro kubrickiano allude in senso più ampio alla condizione umana in generale, una condizione in cui impera l'assurdità. Il soggetto, in particolare il colonnello Dax, si trova a far riferimento a quadri di comportamento logici e normali all'interno di situazioni surreali; esemplare in questo senso la sequenza del processo» (Ivi, p. 50). Anche Andrea Martini suggerisce una interpretazione del film virata in vista della condizione umana : «La guerra assume la funzione aurea di luogo deputato, perimetro sacro per un rito universale dove meglio si distillano i comportamenti umani e si sedimentano le emozioni» (Andrea Martini, ©1999, p. 149). Con la guerra, dunque, si possono «...mettere in scena caratteri archetipici e atteggiamenti primordiali. Primo fra tutti la violenza, che Kubrick concepisce più come modo di essere di un intero gruppo che come inclinazione del singolo, in perfetta sintonia con l'immagine junghiana dell'inconscio collettivo» (Ivi, p. 149-150).

 

Lo stesso Ghezzi rileva che la rappresentazione della guerra risponde in ultima analisi alla volontà di rendere visibili con particolare evidenza le logiche proprie della vita. Nonostante che l'autore avverta la precisione dei riferimenti storici e la notevole ricostruzione dell'esperienza che milioni di uomini fecero di quell'evento, Ghezzi ritiene innanzitutto, come si è visto, che la Grande Guerra è un pretesto per evidenziare e rafforzare il tema proprio della assurdità della guerra in generale, ma, soprattutto per portare la guerra, in generale, a porsi come «...metafora della vita, condensato e concentrazione di essa [In guerra] si muore nelle spire del caso ( come in qualsiasi «vita»)» (Enrico Ghezzi, 1977, passim).

 

In questo terzo filone interpretativo può essere inserita anche la lettura di Glamber Rocha, per il quale il tema profondo di Paths of Glory è «...la disumanità che non ha storia, tutto il male innato nell'uomo fin dalle sue origini, che si rivela attraverso una guerra e l'anima dei suoi ufficiali» (Glamber Rocha, 1986, p. 134).

 

E Rondolino può scrivere al riguardo dell'intera opera di Kubrick, che i suoi personaggi, tra i quali anche il colonnello Dax, «...paiono continuamente e contemporaneamente esposti ai colpi del destino e ai conflitti sociali, all'affermazione di una propria individualità e allo scacco esistenziale...come frammenti o brandelli di un'umanità sofferente [...] Come se i personaggi di Kubrick, nella loro vita di relazione, nel loro confrontarsi con la realtà esterna, anche nella loro lotta per la sopravvivenza o per l'affermazione di una legalità sociale, di una moralità pubblica, di una ragione da contrapporre al caos, si scontrassero poi, alla fine, con l'ineluttabilità del male» (Gianni Rondolino, Qualche idea sull'opera di Kubrick, in Stanley Kubrick, Garage, n° 12, p. 150).

 

Se le interpretazioni sopra riportate fossero lette quasi componessero un unico testo, si potrebbe scorgere che al fondo di esse scorre un filo rosso che muovendo da una guerra concreta passa alla guerra in generale, da qui alla guerra come metafora della società e infine alla guerra come laboratorio privilegiato per mettere a nudo le articolazioni della condizione umana. Non è d'altronde difficile individuare che il corrimano di questi passaggi è dato dal racconto del processo, il quale diventa l'accesso principale al film, la sua chiave di volta, che subordina a sé l'intero racconto e l'intero impianto visivo.

 

Queste letture, affatto motivate nella loro costruzione e quindi pertinenti e rilevanti, paiono agire nel solco di una rimozione originaria che ha portato la Grande Guerra a dileguarsi a poco a poco o nello sfondo ininfluente di un'ambientazione, a questo punto, superflua, o nella posizione di un modello per parlare d'altro, oppure nell'inconscio senz'altro. Sorge, infatti, il sospetto che la censura che colpì Paths of Glory alla sua uscita in Francia, la quale, come è noto, non ha tollerato il sentimento antifrancese che ancora oggi si avverte nel film, e contro cui la critica si levò in un coro unisono per affermare che il film era tutt'altro che una polemica contro l'esercito francese, abbia alla fine agito come una difesa patologica la quale, colpendo le rappresentazioni inaccettabili, abbia relegato nell'inconscio anche quelle rappresentazioni che avrebbero potuto essere perfettamente e fruttuosamente ammesse.

 

Insomma, è come se la censura francese avesse condizionato le letture successive di Paths of Glory, "costringendole" a sminuire l'orizzonte della Grande Guerra per suffragare la tesi che il film non fosse affatto antifrancese. È chiaro, tuttavia, che pur accettando la tesi di una non "antifrancesità" del film, non ne consegue che la Grande Guerra non sia importante o, addirittura, centrale ai fini di una valutazione e di una comprensione del film.

Del resto, la stessa letteratura critica – Alonge a parte di cui si è già parlato nell’introduzione - ha rilevato in più occasione che la Storia è per Kubrick un "interlocutore" privilegiato, e non un semplice sfondo o un pretesto. Per Barnaba Maj, Kubrick è «…uno dei più profondi analisti […] delle forme moderne e  contemporanee »( Barnaba Maj, 2003, p. 110) della guerra.

 

Lo stesso Guido Fink, per esempio, in un saggio su Lolita ebbe modo di rilevare che il discorso kubrickiano «...sembra animato, fin dalle scatole cinesi del flashback nel flash back di Killer's Kiss (1955), dall'esigenza di tornare indietro, di raggiungere, procedendo controcorrente, il momento in cui tutto è cominciato: la prima guerra mondiale, la prima rivolta di classe della storia, il primo - e ultimo - conflitto nucleare, l'ormai lontana festa di capodanno che ha segnato il culmine dell'attività mondana all'Hotel Overlook» (Guido Fink, Senso antiorario, ovvero le due immortalità di Lolita, in Gian Piero Brunetta (a cura di),  Stanley Kubrick, op. cit., p. 160). Nello stesso modo, Alberto Crespi, a proposito di Barry Lyndon, afferma che « ... lo scrupolo con cui sono stati ricostruiti i vestiti, gli ambienti e le suppellettili dell'epoca ... è funzionale alla messinscena di un modello storico ... in cui individuare (ed esaminare all'opera, nel vivo della ricostruzione), le origini, storiche e culturali della nostra civiltà. Questo e non altro è il '700 per Kubrick» (Alberto Crespi, Spazio e tempo in «Barry Lyndon» : la quadratura del cerchio», in Gian Piero Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, op. cit., p. 206).

 

Vi è, insomma, in Kubrick l'esigenza di trovare l'inizio o, per meglio dire, gli inizi. I periodi storici o gli accadimenti storici affrontati nei suoi film sono, nella prospettiva indicata dagli autori sopra citati, i luoghi in cui per Kubrick sorge qualcosa che prima non c'era, i luoghi in cui emerge qualcosa di nuovo che "interrompe" il continuum storico. A questo punto, sarebbe facile, e profondamente errato, adagiarsi sulla consequenzialità che connette un qualcosa di nuovo e il suo inizio, inteso vuoi come causa efficiente vuoi come causa formale.

 

Ma il movimento kubrickiano all'interno dei periodi storici caratterizzati dall'essere "inizio", è più sottile e realmente nichilistico giacché il «rovesciamento delle apparenze» (Sandro Bernardi, 1990, pp. 77-78) che opera è a tutti gli effetti uno smascheramento e una individuazione dei meccanismi che hanno costruito ed affermato la "maschera". Oppure, per dirla con Barnaba Maj, Kubrick ha sciolto i nodi della modernità per comprenderne l'intreccio. Il discorso kubrickiano, in altri termini, assume a tutti gli effetti  di una genealogia. E Paths of Glory non si sottrae affatto a questo compito.

 

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Umberto Mosca, Finché c'è corpo c'è speranza, in Stanley Kubrick, Garage. Cinema Autori Visioni, n°12, 1998

Giacomo Manzoli, Overlook (overbook), in Stanley kubrick, Garage, n°12, 1998

Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Firenze, La nuova Italia, collana "Il castoro cinema", n° 38, 1977

Guido Fink, Orizzonti di gloria: un film di Stanley Kubrick, Padova, Radar, 1969

Roberto Lasagna, Saverio Zumbo, I film di Stanley Kubrick, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 1997, p. 88.

Davide D'Altro, Tra l'opaco e la luccicanza, introduzione a Roberto Lasagna e Saverio Zumbo, I film di Stanley Kubrick, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 1997, , p. 12

Fernaldo Di Giammatteo, Stanley Kubrick: il sadismo come ideologia, "Il Ponte", vol. XXI, n. 6, giugno 1965, 817-818 Marcello Walter Bruno, Stanley Kubrick, Roma, Gremese, 2003, p. 33.

Guido Arsitarco, Il dissolvimento della ragione, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 229-239.

Guido Aristarco, Orizzonti di gloria, "Cinema nuovo", n. 126, mar. 1958, p. 152 e sgg.

Vincent Lo Brutto, Stanley Kubrick, trad. it. di Manuela Bizzarri e Alberto Farina, Stanley Kubrick. L'uomo dietro la leggenda, Milano, Il Castoro, 1999, p.149.

Michel Ciment, Kubrick, Paris, 1980, trad. it. di Lorenzo Codelli, Kubrick, Milano, Rizzoli, 1999

Ruggero Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Milano, Mursia, 1995, p. 46.

Andrea Martini, Logica e sacrificio, in Gian Piero Brunetta (a cura di ), Stanley Kubrick., Venezia, Marsilio, ©1999, p. 149

Glamber Rocha, Analisi di una sequenza di Orizzonti di Gloria, in Scritti sul cinema, Biennale di Venezia, 1986, p. 134

Gianni Rondolino, Qualche idea sull'opera di Kubrick, in Stanley Kubrick, Garage, n° 12, p. 150

Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle "fratture" del Moderno, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 110.

Guido Fink, Senso antiorario, ovvero le due immortalità di Lolita, in Gian Piero Brunetta (a cura di),  Stanley Kubrick, Venezia, Marsilio, ©1999, p. 160

Alberto Crespi, Spazio e tempo in «Barry Lyndon» : la quadratura del cerchio», in Gian Piero Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, Venezia, Marsilio, ©1999

Sandro Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Parma, Pratiche, 1990, pp. 77-78.



 

 

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