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N. 29 - Maggio 2010 (LX)

RADICAL OR CONSERVATIVE?
OBAMA FRA LUCI E OMBRE

di Cristiano Zepponi

 

Negli ultimi tempi, si registrava (e si registra) un riorientamento della politica statunitense nei confronti dell’America Latina tale, forse, da permetterci di parlare – al fianco di un “radical wind” diffuso nel Continente – di un parallelo e insistente “conservative wind”. Gli Stati Uniti – da cui molto ci si aspettava dopo l’unilateralismo indifferente della precedente amministrazione – sembrano infatti voler riaffermare la propria egemonia e i propri interessi sul “cortile di casa”, e paiono barcollare tra istanze di questo genere ed entusiasmi ispirati dalla nuova amministrazione.


Dunque, superato un periodo iniziale in cui la maggioranza degli osservatori ha temuto che l’America Latina scivolasse di nuovo in secondo piano nelle priorità governative, negli ultimi tempi si sono registrati segnali “radicalmente” diversi: gli U.S.A. sembrerebbero tornare nella regione con le stesse velleità di controllo e minaccia potenziale, di “hard power”, di “big stick” o ancora, per dirla con Gramsci, di “egemonia”, cui ci hanno lungamente abituato.

L’ “HOMO NOVUS” OBAMA?

Eppure, il nuovo corso dell’amministrazione Obama sembrava partito davvero, per una volta, con un atteggiamento diverso nell’area.


Nel discorso tenuto in campagna elettorale a Miami il 23 maggio 2008, davanti alla Fondazione nazionale cubano-americana, Obama - che per elaborare la sua strategia latino-americana si è avvalso dell’esperienza di Frank Sanchez, consulente d’impresa di Tampa di origini spagnole, nominato “consigliere per le relazioni con l’America del sud” - annunciò il “bisogno di un cambiamento nella politica verso l’America Latina”, precisò come fosse “ora di costruire una nuova alleanza per le Americhe”, come “dopo le ultime due amministrazioni fallimentari abbiamo bisogno di rafforzare la leadership per il futuro; dopo decenni di pressione dall’alto abbiamo bisogno di una agenda che promuova democrazia, sicurezza e pari opportunità” e come la sua politica per il continente sarebbe stata guidata “dal semplice principio secondo cui ciò che è buono per i popoli delle Americhe è buono per gli Stati Uniti”.


D’altra parte lo stesso Frank Sanchez assicurò che, con l’elezione di Obama, l’America Latina sarebbe diventata “una priorità nell’agenda degli Stati Uniti”; lo stesso Sanchez, in quella sede, attaccò violentemente le amministrazioni Bush, colpevoli d’essersi “occupate del subcontinente solo per coordinare azioni contro il narcotraffico e per l’implementazione di Trattati di libero commercio”: e per quanto riguarda specificamente questi ultimi, Obama si disse disposto a rivedere le condizioni del Nafta e di altri accordi commerciali bilaterali.


Sembrò che la nuova amministrazione, spronata anche dalla lettera di 400 accademici e intellettuali liberal che chiedevano un “cambio fondamentale” della politica U.S.A. verso l'America Latina, potesse davvero accogliere il grido di dolore che Edoardo Galeano aveva diffuso nel 2002, in un’intervista all’ “Unità”: Il meccanismo dei prestiti internazionali è come un cappio stretto intorno al collo di un condannato che si lascia deliberatamente in fin di vita. Il debito estero di fatto impedisce ai governi democraticamente eletti di decidere quale tipo di politica economica e sociale utilizzare per risolvere i problemi strutturali tipici dei paesi del cosiddetto terzo mondo. In America Latina non vola una mosca senza il permesso dell'alta finanza internazionale. I tecnici e gli economisti degli organismi finanziari decidono su tutto. I nostri paesi non sembrano capaci di governarsi da soli e ricorrono a governanti che sono teleguidati dall'esterno, come marionette. Ogni volta che un ministro dell'economia sudamericano vuole emettere un decreto, anche il più piccolo e insignificante, anche per decidere se dipingere una porta o cambiare un citofono, viaggia prima a Washington per chiedere il permesso. Questa è la regola d'oggi: i creditori possono decidere assolutamente tutto nella vita dei debitori. Arrivano i prestiti, ci strangolano con condizioni che bloccano il nostro futuro, ci fanno pagare quattro dollari per ogni dollaro che riceviamo e noi in coro diciamo "che bello", "che fortuna, siamo finalmente incorporati alla cosiddetta comunità internazionale". Abbiamo bisogno di recuperare la nostra ormai perduta dignità nazionale. Ma non è facile.

Non solo: con riferimento a Cuba, Obama annunciò la volontà di eliminare molte delle restrizioni sulle rimesse monetarie e sui viaggi verso l’isola, di chiudere al più presto e in via definitiva il carcere di massima sicurezza di Guantanamo ; e addirittura – seppur più vagamente – sembrò che Obama potesse riallacciare relazioni diplomatiche dirette con l’isola, espletando così la “precondizione” (com’ebbe a definirla la presidentessa argentina Kirchner) indispensabile per avviare un dialogo autentico non solo con Cuba, ma con tutti gli altri Paesi governati da forze progressiste e di sinistra con programmi antiliberisti che hanno come priorità la difesa delle risorse nazionali e la redistribuzione della ricchezza.


Nel corso delle elezioni, come sappiamo, il 65% degli ispanici americani ha votato per Obama: evidentemente, l’elezione di un presidente meticcio non ha potuto non rappresentare una grande speranza nel Continente meticcio per eccellenza.
Sulle ali di questo entusiasmo, al V vertice delle Americhe di Trinidad y Tobago, lo stesso Obama si impegnò a rilanciare la cooperazione interamericana su basi paritarie e solidali, e ripeté che “gli Stati Uniti sono cambiati; non è stato facile, ma sono cambiati. Ora è importante ricordare ai miei colleghi latinoamericani che non devono cambiare solo gli Stati Uniti. Tutti abbiamo la responsabilità di guardare al futuro”.
Pur rimanendo sul vago sul tema dell’embargo a Cuba, Obama riaffermò allora la sua disponibilità al dialogo: e addirittura gli fu rimproverata un’eccessiva cordialità nei confronti di Chàvez (!), tanto che il Presidente fu costretto a rispondere che ciò non “pone in pericolo gli interessi strategici degli Stati Uniti” e che il suo governo avrebbe badato “ai fatti, non alle parole”.

.. O NO?

I segnali che autorizzano le preoccupazioni, però, sono diversi. Nessuno si aspettava che Obama si rivelasse una sorta di “principe su un cavallo bianco”, come ha puntualizzato la presidentessa Kirchner lo scorso febbraio, ma (sempre per usare le sue parole) “per i paesi latinoamericani il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato una delusione”; sullo stesso tono il parere del Presidente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il nicaraguense Miguel D'Escoto: "Obama non è il cambio credibile che stavamo aspettando".


Tra gli argomenti fondamentali rinfacciati alla nuova presidenza, se ne possono individuare tre:

1. LA LOTTA AL NARCOTRAFFICO


Fin dall’inizio le posizioni più retrive della nuova amministrazione apparvero chiare soprattutto in relazione alle politiche di sicurezza e alla lotta al narcotraffico, che a loro volta si intrecciano con la volontà d’arginare da una parte il frenetico attivismo finanziario e commerciale cinese nell’area (commisurato all’entità di prestiti e finanziamenti, moltiplicatisi negli ultimi anni a beneficio di Venezuela, Ecuador, Argentina e Brasile) e dall’altra la crescita dell’influenza iraniana nei Paesi membri dell’ALBA.


Secondo il Washington Office on Latin America (Wola), organismo statunitense per i diritti umani che più volte ha criticato il crescente ruolo assunto nei rapporti con la regione dal Pentagono e del Comando Sud (a discapito di Congresso e Dipartimento di Stato), “il vuoto lasciato dai politici U.S.A., che sembrano trascurare sempre più l’America latina, viene occupato dai militari che ne danno un’immagine distorta fondata sulle minacce alla sicurezza”.


A controprova di quanto detto e sulla base di suggestioni di questo genere il neo-presidente ha accettato la continuazione del Plan Colombia e dell’Iniziativa Mérida (o Plan México) – programmi che si limitano, ambedue, al controllo militare delle zone 'a rischio' ed alla fumigazione (con diserbanti) di enormi estensioni e che costituiscono, in sintesi, strumenti più idonei a giustificare la presenza militare statunitense e a garantire l’apertura totale dei due Paesi agli investimenti a stelle e strisce che a combattere efficacemente il narcotraffico .
Per quanto riguarda il Plan Mèxico, inoltre, va sottolineata la decisione presidenziale di rimuovere la discriminante relativa ai diritti umani che precedentemente condizionava la concessione del 15% dei finanziamenti U.S.A., lasciando di fatto “campo libero” ai governanti messicani.

2. LA RI-MILITARIZZAZIONE DELL’AREA


Già nel corso del 2008 il Pentagono ha riattivato la IV Flotta della Marina, sciolta nel 1950 (dopo aver adempiuto alla sua missione difensiva originaria durante la seconda guerra mondiale) ma di nuovo incaricata di difendere gli interessi statunitensi nella regione latino-americana.


Tuttavia, è stata la decisione del presidente ecuadoreño Rafael Correa di non rinnovare la concessione della base U.S.A. di Manta ad agitare gli scenari geopolitici sudamericani, e a porre al centro dell’attenzione la rimilitarizzazione della regione: l’amministrazione statunitense ha infatti risposto allo scacco subìto avvalendosi dell’appoggio del presidente colombiano Uribe, che lo scorso 14 agosto ha concesso il libero utilizzo di sette basi militari colombiane e di altri impianti, se richiesto.


Obama, internazionalmente criticato per questo massiccio ritorno armato a sud dei Caraibi (tra gli altri, il Presidente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite Miguel D'Escoto ha parlato in proposito di “un passo indietro”), ha in quell’occasione affermato che “alcuni stanno cercando di utilizzare l’accordo come parte della tradizionale retorica antiyankee; noi non abbiamo intenzione di stabilire neppure una base militare in Colombia”, rifugiandosi dietro un cavillo giuridico (in effetti, nominalmente, le nuove basi non si trovano sotto la sovranità statunitense).


E’ chiaro a tutti, però, che la presenza militare U.S.A. sia cresciuta repentinamente nell’ultimo anno, e che la controffensiva del Dipartimento proceda senza sosta. Oltre alle basi colombiane, infatti, il governo U.S.A. ha ottenuto dalle autorità panamensi l’autorizzazione a reinstallare proprie unità militari in quattro stazioni navali di fondamentale importanza per il controllo del Canale di Panama e dei Carabi: oltre alle due basi navali di Bahía de Piña e Punta Coca, le forze armate statunitensi potranno contare sull’utilizzo di un’infrastruttura aeronavale che sorge nell’isola di Chapera, nell’arcipelago de Las Perlas, e della base di Rambala, nella provincia di Bocas del Toro. Parallelamente, i due governi hanno concluso un importante accordo di libero commercio.


Al tempo stesso, il Venezuela, nella persona del presidente Hugo Chavez, ha denunciato un aumento dell’aggressività dell’asse U.S.A. - Colombia nei confronti del suo Paese – dimostrato dalla classificazione del Venezuela come Stato “non cooperante nelle operazioni anti-droga” (2005) e “non pienamente collaborativo nella guerra contro il terrore” (2006), dalla creazione di basi militari colombiane alla frontiera e dall’utilizzo militare statunitense delle isole di Aruba, Curacao e Bonaire nelle Antille olandesi, al largo della costa caraibica del Venezuela, oltre che dai sempre più frequenti voli di ricognizione di droni UAV sul Paese.


Per non dimenticare, infine, che l’arrivo della IV flotta (e di una nutrita forza armata) a La Hispaniola dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 ha permesso un ulteriore aumento della presenza militare U.S.A. nella regione: ad Haiti, infatti, nonostante i chiarimenti del Segretario di Stato Hillary Clinton – che ha più volte ribadito l’intenzione di integrare e non soppiantare il governo locale nell’esercizio delle funzioni – è soprattutto l’esercito statunitense a mantenere l’ordine in luogo della polizia e dello Stato locale.
Si riaccendono in un colpo solo i timori per la rinascita di un “imperialismo su invito” (inaugurato da un protettorato light, che convinca la popolazione del benessere garantito dall’autorità straniera e della sua incapacità di autogovernarsi) e le proteste di Francia e Brasile, preoccupate dall’ingerenza statunitense nella gestione dell’emergenza.


Per quanto abbiamo appena detto il presidente venezuelano Hugo Chavez, come il ministro francese per la cooperazione Alain Joyandet, ha ribadito più volte che “bisogna aiutare Haiti e non occuparla militarmente”.

3. IL GOLPE IN HONDURAS


L’immagine dell’amministrazione Obama è uscita con le ossa rotte dall’affaire Honduras.
Attirandosi l’ostilità della comunità internazionale e di buona parte dei Paesi sudamericani, infatti, gli U.S.A. hanno riconosciuto le elezioni del 29 novembre 2009 nel Paese che pochi mesi prima – a giugno – aveva subìto un golpe militare in seguito al quale il presidente in carica Manuel Zelaya è stato deportato in Costa Rica e le violazioni ai diritti umani sono cresciute esponenzialmente.


Come ha raccontato Greg Grandin “Honduran president Manuel Zelaya [...] was rousted out of his bed on Sunday morning by a detachment of armed soldiers and forced into exile still in his pajamas”; e non si trattava certo di un uomo d’estrema sinistra, eletto com’era tra le file del partito Liberale e solo successivamente sostenuto da altre forze sociali inizialmente avverse – secondo Grandin “unionists, peasant activists and reformers expected little of the center-right politician, a rancher and member of the establishment Liberal Party. Neither did the handful of elite Honduran families who, bankrolled by foreign finance, control their country's media, banking, agricultural, manufacturing and narcotics industries”.


La proposta di legalizzare alcune droghe, per ovviare alle conseguenze delle “Guerre contro la droga”, “which has turned Central America into a well-traversed trans-shipment corridor for narcotraficantes”; il discorso al Vertice delle Americhe nel quale Zelaya ha insistito affinché gli U.S.A. normalizzassero i rapporti con Cuba; il sostegno economico venezuelano; e, soprattutto, l'intenzione di indire un referendum in merito alla convocazione di un’Assemblea Costituente: questi, i motivi che hanno scatenato la crisi culminata con l’arresto, la deportazione del presidente e la sua sostituzione con un capo di stato ad interim, “el italiano” Roberto Micheletti (opportunamente soprannominato “Pinochetti” e sostenuto, tra gli altri, dal cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, presidente della Conferenza episcopale dell’Honduras), che garantisse una parvenza di legittimità costituzionale al coup d’etat.


Il mondo dell’informazione, a sua volta, ha contribuito a confondere le acque all’interno del Paese: secondo il quotidiano “El Tiempo” “il golpe è stato messo in atto con l’appoggio del nucleo dominante dell’imprenditoria honduregna, che controlla quasi tutti i principali mezzi d’informazione del paese. È normale, quindi, che dal 28 giugno in poi la maggior parte dei quotidiani, delle radio e delle tv siano diventati strumenti di propaganda nelle mani del governo de facto”.


Tuttavia, nonostante la quasi unanime condanna dei Paesi sudamericani (tranne Colombia, Costa Rica, Panama, Repubblica Dominicana, Perù e Messico) e il parallelo, mancato riconoscimento del nuovo governo, nonostante le iniziali parole di condanna di Obama ("We don't want to go back to a dark past. We always want to stand with democracy ") e la lunga battaglia diplomatica con il Brasile (Zelaya si era rifugiato proprio nell'ambasciata brasiliana a Tegucigalpa), come detto, gli U.S.A. hanno riconosciuto la legittimità delle elezioni tenutesi in Honduras lo scorso 29 novembre e la vittoria del candidato Porfirio Lobo.


E’ stato Obama a spiegare come il colpo di stato in Honduras non fosse “legale", e come il presidente Manuel Zelaya restasse il leader legittimo; ma ha prevalso la linea del Dipartimento di Stato, che non ha condannato ufficialmente il colpo di stato militare del giugno precedente e si è mostrato riluttante perfino “to use the word ‘coup’ to describe Zelaya's overthrow, since to do so would trigger automatic sanctions, including the suspension of foreign aid and the withdrawal of US troops”, applicando solo una parte delle sanzioni economiche previste dalla legge.


Una posizione quantomeno ambigua nei confronti della crisi hondurena, dunque, per la nuova amministrazione: secondo alcuni (e la rivista “Proceso” in primis) sollecitata dalla vecchia guardia, tra cui il Segretario di Stato Hillary Clinton.
Comunque sia, un’ombra per Obama.

CONCLUSIONI


“Basta con i Trattati di Libero Commercio con i Paesi dell’America Latina”; “Il Trattato di Libero Commercio con l’America Latina è un modello”.


Il presidente Obama ha pronunciato entrambe le frasi nel corso della stessa campagna elettorale, addirittura dello stesso dibattito televisivo, quasi a certificare le incertezze e le ambiguità che la sua amministrazione avrebbe rivelato una volta giunta al potere.
Le opinioni degli analisti restano comunque discordi: se Ignazio Ramonet di “Le Monde Diplomatique” enfatizza i cambiamenti rispetto al passato, e parla di “bilancio positivo”, James Petras (tra gli altri) parla di un “cambiamento di stile” piuttosto che di sostanza nei confronti del Sudamerica, e ridimensiona di molto la portata del cambiamento nelle relazioni inter-americane.


Ad ogni modo, i più ritengono che, rispetto alle aspettative, l’amministrazione Obama abbia cambiato poco, troppo poco a dire il vero: scarsi i passi avanti sull’embargo di Cuba, la lotta alla droga, la militarizzazione dell’area, i trattati di libero commercio, i rapporti con i Paesi tradizionalmente meno graditi alle amministrazioni americane (Ecuador, Bolivia, Venezuela).


Anche per questo i 32 paesi latino-americani riuniti nel summit di Cancun del 22/23 febbraio hanno deciso di creare un organismo sovranazionale americano capace di comporre le controversie latinoamericane attraverso la negoziazione politica e diplomatica, escludendone a tutti gli effetti il Nord-america (Canada compreso).


Si è così creato per la prima volta un blocco alternativo all'ormai logora O.S.A., l’Organizzazione degli stati americani, da 50 anni forum principale per le questioni regionali, capeggiato e soggiogato in tutto a Washington.


“Yes we can”, a dire il vero, rischia di restare uno slogan come tanti, nel continente delle vene aperte.


 

 

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