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N. 62 - Febbraio 2013 (XCIII)

Il pio Nicia
promotore della pace e protagonista della guerra

di Paola Scollo

 

Proveniente da una ricca famiglia aristocratica proprietaria di numerose miniere d’argento nel Laurion, Nicia è uno dei protagonisti della scena politica ateniese del V secolo. Collega di Pericle, riuscì a conseguire importanti vittorie durante la Guerra Archidamica.

 

Fu il principale artefice delle trattative di pace che conclusero la prima parte della guerra del Peloponneso. Plutarco gli ha dedicato una biografia in cui, nel solco dei giudizi tucididei, Nicia viene ritratto come un personaggio timoroso e superstizioso vittima di una sorte tragica e impietosa. Osserviamola puntualmente.

 

Per introdurre il personaggio Plutarco si serve delle parole che su Nicia espresse Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi (XXVIII): «Tre furono i migliori cittadini che ebbero benevolenza paterna e amicizia nei confronti del popolo, Nicia, figlio di Nicerato, Tucidide, figlio di Melesia, e Teramene, figlio di Agnone; […] Nicia, più giovane, ebbe una certa rinomanza già quando Pericle era vivo, tanto che gli fu collega come stratego e spesso ebbe il comando da solo. Dopo la morte di Pericle fu promosso a posti di potere soprattutto da ricchi e notabili, che se ne facevano un baluardo contro la disgustosa audacia di Cleone e, ciononostante, ebbe la simpatia e il pieno appoggio del popolo». A partire da tale testimonianza emerge chiaramente il favore di cui Nicia godeva presso gli Ateniesi.

 

Stando a Plutarco, le ragioni del successo di Nicia andavano ricercate nella dignità né austera né opprimente che, congiunta a timidezza, incuteva timore e soprattutto nella natura, physis, timorosa e pessimista che nell’attività politica appariva un atteggiamento democratico: «Per la massa infatti -spiega il biografo- è onore grandissimo non essere disprezzata dai potenti» (Plut., Nic. II 6).

 

A differenza di Pericle, che si serviva delle notevoli capacità oratorie per acquistare il favore popolare, Nicia sfruttava la ricchezza economica, allestendo spettacoli teatrali e ginnici in modo tale da superare «per sfarzo e buon gusto i predecessori e tutti i contemporanei» (Nic. III 2). Dietro tale atteggiamento Plutarco individua una forma di vanità finalizzata al conseguimento della gloria personale, anche se non esclude la prospettiva che tale liberalità fosse pure una conseguenza del sentimento religioso, «giacché era davvero uno di quelli che si spaventano di fronte al divino e incline alla superstizione» (Nic. IV 1). Una conferma in tal senso giungerebbe poi dalle pagine delle Storie di Tucidide (VII 50).

 

Riferisce a tal proposito Plutarco che in un dialogo di Pasifonte, seguace di Socrate, si trovava scritto che Nicia sacrificava quotidianamente agli dèi e consultava un indovino, che risiedeva nella sua stessa casa, sui suoi affari economici. Nicia possedeva numerose miniere d’argento nella zona del Laurion, presso Capo Sunio in Attica, e la ricchezza doveva costituire per lui perenne fonte di preoccupazione. In molti avanzavano richieste di elargizioni. E le ottenevano. Spiega infatti Plutarco che Nicia offriva denaro sia a chi era in grado di nuocergli sia a quanti erano meritevoli dei suoi benefici poiché «la sua pusillanimità, deilía, era fonte di guadagno per i disonesti, come la sua generosità lo era per gli uomini dabbene» (Nic. IV 3).

 

Nicia non pranzava mai con i suoi concittadini e non si intratteneva in conversazioni o svaghi. Inoltre, quando era in carica, era solito sostare all’interno della sede degli strateghi fino a tarda notte, essendo sempre il primo a giungere e l’ultimo ad andare via. Quando non si trovava ad assolvere incarichi pubblici, preferiva rimanere nella propria abitazione. Ma c’è di più. Era solito evitare i comandi militari particolarmente difficili e di lunga durata e, qualora gli venissero affidati, non attribuiva mai gli eventuali successi alla propria saggezza, sophía, capacità, dynamis, o valore, areté, ma alla sorte, tyche. In altre parole ricorreva alla componente divina, to theíon, per sottrarsi alle invidie generate dal prestigio. A conferma di ciò la totale estraneità ai principali disastri militari che si verificarono durante la prima fase della guerra del Peloponneso. Ricorda infine Plutarco che nella realizzazione di tale modus vivendi Nicia era sostenuto da Gerone, che «trattava segretamente con gli indovini per conto di Nicia e diffondeva fra la gente la voce della vita faticosa e travagliata che Nicia conduceva a causa degli affari cittadini; diceva perfino che anche quando faceva il bagno o mentre pranzava, gli capitava sempre qualche questione pubblica» (Nic. V 4).

 

Nell’attività politica scopo precipuo di Nicia era quello di garantire alla polis di Atene pace e tranquillità. A conferma di ciò il suo modus agendi in seguito alla morte ad Anfipoli dei comandanti Cleone e Brasida, i più ostili alla stipulazione della pace in Grecia. Nicia si adoperò infatti per riconciliare Sparta e Atene, quindi per consolidare la propria fama. Risultato delle trattative fu la pace che gli valse grande fama in antitesi a Pericle. Scrive a tal proposito Plutarco: «La maggioranza giunse a ritenere di essersi liberata sicuramente dai mali e non si parlava che di Nicia come di un uomo amato dagli dèi, a cui la divinità aveva concesso, per la sua pietà, eusebeia, di dare il proprio nome al più grande e più bello dei beni. Perché davvero tutti ritenevano la pace opera di Nicia, come la guerra opera di Pericle: erano infatti convinti che questi avesse gettato i Greci in mezzo a gravi sciagure per futili motivi e che quello invece li avesse persuasi a dimenticare grandi dolori per divenire amici. Ecco la ragione per cui anche oggi quella pace è detta di Nicia» (Nic. IX 8-9).

 

La politica di distensione promossa da Nicia fu seriamente messa in difficoltà dall’ingresso sulla scena politica ateniese di Alcibiade, «che si oppose immediatamente alla pace e cercò di ostacolarla» (Nic. X 3). Quando l’antagonismo tra i due raggiunse il culmine si venne all’ostracismo, «procedura che il popolo ateniese era solito istruire saltuariamente per condannare a dieci anni d’esilio -con un voto scritto su dei cocci- una persona che fosse sospettata in generale per la sua fama o invidiata per la sua ricchezza» (Nic. XI 1).

 

Molteplici erano i motivi di invidia nei confronti dell’uno e dell’altro. Come spiega Plutarco, Alcibiade era disprezzato per il tenore di vita ed era temuto per la tracotanza; di contro Nicia era invidiato per le ricchezze, per il contegno riservato e aristocratico e per essersi opposto in svariate occasioni ai desideri del popolo. Tuttavia, a dispetto di ogni previsione, entrambi riuscirono a sottrarsi al provvedimento punitivo, coalizzandosi affinché venisse piuttosto ostracizzato Iperbolo del demo di Peritede, «uomo non audace perché detenesse qualche potere, ma arrivato al potere perché audace e divenuto, per il credito di cui godeva in città, motivo di discredito per la città stessa» (Nic. XI 3).

 

«La fortuna è davvero qualcosa che sfugge al giudizio ed è inafferrabile dalla ragione»: è questo il giudizio conclusivo di Plutarco. Nell’immagine del biografo di Cheronea, sia che fosse risultato vincente sia che fosse risultato perdente dalla contrapposizione con Alcibiade Nicia avrebbe comunque ottenuto di vivere in tranquillità, conservando la fama di eccellente generale, áristos strategós. Altre vicende avrebbe predisposto la tyche per lui.

 

Nonostante la tenace opposizione, chiara manifestazione di onestà e saggezza, Nicia non riuscì a impedire la partenza della spedizione in Sicilia promossa da Alcibiade. Anzi venne eletto primo generale insieme ad Alcibiade e a Namaco, in quanto considerato il più adatto all’impresa sia per l’esperienza, empeiría, sia per la prudenza, asfaleia, dote fondamentale per contenere l’audacia di Alcibiade e la focosità di Lamaco.

 

A capo della spedizione, Nicia con il proprio modus operandi all’insegna dell’indecisione e della prudenza indebolì il morale degli uomini, facendo sin da subito sprecare occasioni propizie per l’azione. Scrive a tal proposito Plutarco: «E quando poco dopo gli Ateniesi richiamarono in patria Alcibiade per il processo, Nicia, rimasto al comando, in teoria insieme con Lamaco, di fatto da solo, non cessò di indugiare, di incrociare le navi intorno all’isola o di discutere, finché l’entusiasmo dei soldati si affievolì e si placarono la costernazione e la paura che avevano invaso i nemici al primo apparire delle forze ateniesi» (Nic. XIV 4).

 

L’esclusiva eccellente azione strategica venne compiuta da Nicia nel corso dell’estate, quando riuscì a far uscire i nemici dalla città di Siracusa e a svuotarla di difensori mentre salpava da Catania e occupava i due porti, assicurandosi una posizione da cui sperava di combattere senza ostacoli. In tal modo generò timori tra i Siracusani, che per questa ragione elessero altri tre generali con pieni poteri da sostegno ai quindici già in carica.

 

Ma anche in questa circostanza Nicia non fu in grado di sfruttare a suo vantaggio la vittoria conseguita. Si ritirò infatti a Nasso, dove trascorse l’inverno con ingenti spese per un esercito così numeroso e con pochi risultati sul fronte di qualche città sicula che passava dalla sua parte. I Siracusani, riacquistato coraggio, si spinsero fino a Catania, devastarono la regione e incendiarono il campo ateniese. Scrive a tal proposito Plutarco che «di ciò tutti diedero la colpa a Nicia, che con il suo disquisire e indugiare e cautelarsi si era lasciato sfuggire il momento adatto per l’azione». D’altra parte però -prosegue Plutarco- nessuno avrebbe potuto biasimare il suo modus agendi perché «una volta mossosi era energico ed efficiente, ma era esitante e irresoluto a muoversi» (Nic. XV 8).

 

Morto Lamaco, Nicia fu l’unico generale a guidare la spedizione. Stremato dagli eventi, dovette ora contrastare Gilippo, che fece deporre le armi e inviò un ambasciatore agli Ateniesi annunciando che se avessero lasciato la Sicilia sarebbero rimasti immuni. Assediato sia per terra sia per mare, Nicia pregò gli Ateniesi di inviargli un altro esercito oppure di richiamare quello dalla Sicilia. In ogni caso chiedeva per sé l’esonero dal comando della spedizione a causa della sua malattia, la nefrosi, che da tempo lo tormentava.

 

Nel frattempo Gilippo, con un’incursione improvvisa, occupò il Plemmirio, il promontorio che chiudeva il Porto Grande di Siracusa, precludendo a Nicia ogni possibile rifornimento. Gli Ateniesi subirono in questa circostanza una pesante sconfitta e non è difficile immaginare quale dovesse essere lo stato d’animo del comandante: «Un profondo scoramento dominava Nicia, che aveva avuto grossi insuccessi quando era solo al comando e ancora una volta falliva a causa dei suoi colleghi» (Nic. XX 8).

 

Nell’ottobre del 414 Nicia dovette chiedere rinforzi. Consapevole della situazione, voleva evitare a tutti i costi una battaglia navale. Tuttavia, utilizzando come pretesto il prestigio di Atene, Menandro ed Eutidemo, al comando della spedizione, imposero la decisione della battaglia navale.

 

Lo scontro navale, narrato da Tucidide (Storie VII 39-41), si rivelò una vera e propria disfatta per gli Ateniesi. I Siracusani riuscirono a prevalere grazie allo stratagemma di Aristone. Riunirono sulla spiaggia numerosi venditori di cibarie e vettovaglie in modo tale che i marinai potessero mangiare vicino alle navi. In seguito indietreggiarono, facendo intendere agli Ateniesi di aver rinviato il conflitto. Infine tornarono improvvisamente indietro cogliendo gli Ateniesi di sorpresa e costringendoli ad accettare lo scontro.

 

Nel luglio del 413 giunsero in Sicilia i rinforzi guidati da Demostene: settantatré navi da guerra con cinquemila opliti e almeno tremila lanciatori di giavellotto, arcieri e frombolieri. I Siracusani furono nuovamente in preda alla paura perché «i loro travagli non accennavano a finire e nemmeno ad allontanarsi e invano spendevano fatiche e vite umane» (Nic. XXI 2). Nel campo ateniese il sollievo per le nuove forze non durò a lungo. Nicia infatti si opponeva alla proposta di Demostene di attaccare il nemico e di affrontare il rischio di una battaglia decisiva in modo tale da espugnare Siracusa o da ritornare in patria. Era convinto che i nemici ben presto sarebbero stati logorati dal bisogno per cui avrebbero scelto di avviare delle trattative.

 

Ma tale invito alla prudenza venne interpretato dai colleghi come mancanza di audacia: «E così dissero che ritornava il suo atteggiamento -le incertezze, i ritardi, le analisi pedantesche per cui aveva sprecato l’occasione favorevole non attaccando subito i nemici, ma si era mostrato lento e disprezzabile- e si schierarono con Demostene: Nicia, seppur riluttante, fu costretto a cedere» (Nic. XXI 6).

 

Demostene guidò le forze di terra in un attacco notturno dell’Epipole. In questa circostanza la scarsità di luce condusse gli Ateniesi al disastro. Vi furono duemila morti. Nicia, che attribuiva la responsabilità della disfatta alla dissennatezza di Demostene, non volle rientrare in patria perché nutriva profondi timori nei confronti dei suoi concittadini, a cui avrebbe dovuto rendere conto del proprio operato. Quando però sopraggiunse un’altra armata in soccorso dei Siracusani e si diffuse tra gli Ateniesi la malattia, fu costretto a ordinare ai soldati di tenersi pronti a salpare.

 

La situazione degenerò a causa di un’eclissi di luna che, stando al racconto di Tucidide (Storie VII 50), si verificò il 27 agosto del 413 e che suscitò grande terrore sia in Nicia sia in quanti altri per ignoranza o per superstizione si lasciavano impressionare da tali fenomeni. In tale circostanza il comandante ateniese si trovava da solo e non poteva disporre dell’aiuto del suo indovino personale Stilbide, morto qualche tempo prima. Filocoro, uno dei più noti attidografi del IV secolo a.C., ha mostrato che per i fuggitivi tale presagio è in realtà propizio «poiché le azioni che si compiono con paura hanno bisogno di essere celate e la luce è loro nemica» (Nic. XXIII 8).

 

Come ricorda Plutarco, lo scrittore ateniese Autoclide negli Esegetici consigliava di osservare tre giorni di cautela per i presagi relativi al sole e alla luna, ma Nicia invitò ad attendere un’intera lunazione «come se non avesse visto la luna riprendere subito il suo splendore appena uscita dalla zona d’ombra determinata dalla terra» (Nic. XXIII 9).

Mentre Nicia era intento a compiere sacrifici e a consultare indovini, i Siracusani passarono all’attacco: con la fanteria assediarono l’accampamento e il muro ateniese mentre con le navi accerchiarono il porto. Risultarono ancora una volta vincitori nello scontro navale. Di fronte alla drammatica situazione, i soldati ateniesi iniziarono a chiedere agli strateghi di avviare la ritirata via terra, dato che il porto era stato bloccato. Ma Nicia non si lasciò persuadere e di contro fece imbarcare i fanti migliori e i più robusti lanciatori di giavellotti su centodieci triremi, dispose i restanti soldati lungo il mare, abbandonando l’accampamento principale e la zona di muro che toccava il tempio di Eracle.

 

Nell’immagine di Plutarco quella che ne scaturì fu la battaglia navale «più grande e violenta mai combattuta» (Nic. XXV 2). Uno scontro che recò vittime in entrambi gli schieramenti. «Al momento della rotta e della rovina totale agli Ateniesi era ormai preclusa la fuga per mare e vedendo, d’altra parte, che anche mettersi in salvo via terra era arduo, non opposero più resistenza ai nemici che si accostavano alle loro navi per rimorchiarle e non chiesero neppure di raccogliere i loro morti […]» (Nic. XXV 5).

 

Nei paragrafi successivi la narrazione di Plutarco si focalizza sulla situazione del campo ateniese e sulla sorte ingiusta spettata a Nicia, uomo pio e devoto agli dèi. Una narrazione intensa volta a esaltare il dramma interiore di un comandante che assiste alla disfatta del proprio esercito, ma soprattutto di un uomo ammalato e abbandonato da tutti: «Fra gli spettacoli terribili che offriva il campo ateniese nessuno era più penoso di quello di Nicia, distrutto dalla malattia, ridotto, nonostante il suo grado, alla pura sussistenza e al minimo delle risorse di cui il suo corpo malato aveva tanto bisogno, e tuttavia attivo malgrado la debolezza e resistente alle fatiche a cui molti soldati sani a stento reggevano, mentre era chiaro a tutti che sopportava le sofferenze non per se stesso né per attaccamento alla vita, ma piuttosto a causa delle truppe non abbandonava le speranze» (Nic. XXVI 4).

 

Un dramma interiore che traeva origine dall’odioso confronto tra la vergogna e il disonore della spedizione con la grandezza e la gloria dei successi prospettati. I soldati d’altra parte si convincevano che tali sofferenze fossero ingiuste e disperavano dell’aiuto divino, «constatando che un uomo così pio, theophiles, e così spesso magnificamente liberale nel culto degli dèi non subiva una sorte migliore di quella dei peggiori vigliacchi del suo esercito» (Nic. XXVI 6).

 

Malgrado la situazione, Nicia si sforzava di infondere coraggio e di mostrare attraverso l’espressione del volto e la gentilezza dei modi di essere superiore alle sventure. Durante gli otto giorni di marcia riuscì a mantenere inalterate le forze fino a quando però Demostene non venne catturato dai nemici (Nic. XXVII). Decise allora di chiedere una tregua. Lo spartano Gilippo si oppose.

 

Nicia riuscì ad avanzare sotto i colpi dei nemici fino al fiume Asinaro: «Là gli Ateniesi in parte furono scaraventati nella corrente dall’aggressione congiunta del nemico, in parte, prevenendola, si gettarono nel fiume per la sete. E qui ebbe luogo un’enorme e selvaggia strage di soldati, che venivano massacrati mentre bevevano» (Nic. XXVII 5). Pare che Nicia, rivolgendosi a Gilippo, abbia detto: «Dal momento che avete vinto, abbiate pietà non certo di me, che a tanti successi devo un nome famoso, ma degli altri Ateniesi, ricordandovi che la sorte della guerra è comune e di essa gli Ateniesi hanno usato con moderazione e mitezza, quando era in vantaggio nei vostri confronti» (Nic. XXVII 5).

 

A queste parole Gilippo rialzò Nicia, lo confortò e diede ordine di catturare vivi gli altri. Successivamente, nel corso di un’assemblea generale, il capo democratico siracusano Euricle propose di consacrare la data dell’anniversario della cattura di Nicia e di chiamare Asinaria, dal nome del fiume, tale celebrazione. Ricorreva il ventiseiesimo giorno del mese Carneo, chiamato dagli Ateniesi Metagitnione, corrispondente a luglio-agosto. Infine propose di vendere come schiavi i servi e tutti gli alleati degli Ateniesi, di gettare gli Ateniesi e gli alleati siciliani nelle Latomie, cave trasformate in prigione, fatta eccezione per i generali che dovevano essere condannati a morte.

 

Infine Plutarco riporta la notizia di Timeo secondo cui Demostene e Nicia non caddero per mano dei Siracusani: prima ancora che l’assemblea indetta da Euricle venisse sciolta, entrambi si uccisero con la connivenza di una delle guardie. I loro cadaveri furono gettati alle porte della città, dove giacquero alla vista di coloro che godevano di quel macabro spettacolo. Ad Atene «a stento si credette che Nicia avesse subito quelle sventure che aveva tante volte predetto agli Ateniesi» (Nic. XXX 3).

 

Si trattava di una morte disonorevole nell’immagine di Plutarco, perché Nicia per una vergognosa e ingloriosa speranza di salvezza si era gettato ai piedi del nemico. Differente è la valutazione di Tucidide che scrive: «Egli, fra i Greci del mio tempo, fu meno di ogni altro degno di tale sciagura: tutta la vita di lui fu un virtuoso esercizio di giustizia». Questo commento ben sintetizza la parabola discendente di un politico giusto e onesto, prudente e accorto, di un personaggio ispiratore e sostenitore della pace, protagonista suo malgrado della Guerra del Peloponneso, di un uomo pio e devoto degli dèi vittima di una avversa tyche e dell’invidia dei suoi concittadini.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

H. Bengtson, Einführung in die alte Geschichte, München 1977, trad. it. Bologna 1990.

H. Bengtson, Griechische Geschichte: von den Anfängen bis in die römische Kaiserzeit, München 1977, trad. it. Bologna 1989.

T. E. Duff, Plutarch’s Lives, Exploring Virtue and Vice, Oxford 1999.

D. Manetti (ed.), Plutarco, Vita di Nicia e di Crasso, Milano 1987.

C.B.R. Pelling, Plutarch’s Methods of work in the Roman Lives, «The Journal of Hellenic Studies» XCIX (1979), pp. 74-96.



 

 

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