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N. 89 - Maggio 2015 (CXX)

Neutralisti e interventisti
l’Italia in guerra tra illusioni e complotti

di Gaetano Cellura

 

Tutti sapevano, dopo l’attentato di Sarajevo, che per l’Europa finiva un periodo di pace durato 43 anni. Dalla guerra franco-prussiana del 1870-71 al 1914, giustamente sui cannoni, scolpita nel bronzo, poteva comparire la frase “ultima ratio ragum”. Significava che le armi erano l’ultimo, decisivo argomento di cui i re si sarebbero serviti per far valere le proprie ragioni.

 

Ma non tutti sapevano nel 1914 che, con la pace, anche un mondo finiva – la Belle Epoque – e un altro, denso di pericoli, ne incominciava.

 

Lo scrittore francese Leon Bloy era uno dei pochi a saperlo. Moriva nel 1917, in piena guerra, per l’Italia ci sarebbe stata la tragica ritirata di Caporetto, e profeticamente scriveva in quello stesso anno nel suo Diario che il peggio doveva ancora venire. Tradotto significa che l’ecatombe della Prima guerra mondiale niente era di fronte a quella che per il mondo sarebbe stata la sua eredità. Un’eredità di rivendicazioni e turbolenze, di disoccupazione e reducismo armato.

 

Si preparava al comunismo quel nuovo brutto mondo; e ai fascismi, alle persecuzioni e allo sterminio razziale. Tra le macerie della guerra e le proprie frustrazioni, i giovani usciti dai licei per imbracciare le mitragliatrici Maxim capiscono di essere stati ingannati. Partiti con la promessa di un mondo migliore, finita la guerra ne ritrovavano uno peggiore. E in rovina.

 

In realtà l’attentato di Sarajevo, in cui vengono uccisi (dal nazionalista serbo Gavrilo Princip) l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono d’Austria, e la moglie Sofia, non fu il casus belli, ma solo il pretesto per scatenare un conflitto la cui posta in gioco era il dominio nei Balcani, tra l’Austria e la Russia, e il dominio dell’Europa cui aspirava la potente Germania.

 

L’Italia entrò in guerra un anno dopo, il 24 maggio del 1915. Fu un anno di attesa, di conveniente neutralità. E di intense trattative del suo governo. Con l’Austria di cui era alleata e con la Francia e il Regno Unito che avevano stretto la Triplice Intesa con la Russia. Un anno di acceso dibattito e di scontri tra neutralisti e interventisti. Il conflitto divise sia i socialisti che i liberali. Molti neutralisti sposarono in un secondo tempo la causa e le ragioni dell’interventismo. Gramsci e Togliatti erano interventisti, fino a rompere con il partito: un interventismo “particolare, non nazionalista, non imperialista”. Togliatti riteneva necessaria la vittoria dell’Intesa per imporre all’Europa la “pax britannica”. Croce e Giolitti erano contrari alla guerra. Mussolini era prima contrario e poi favorevole. La ragione per cui lasciò l’Avanti e fondò Il Popolo d’Italia, finanziato (si dice) dai francesi per spingere l’Italia verso la Triplice Intesa. D’Annunzio, tornato dalla Francia dove s’era rifugiato per sfuggire ai creditori che l’assediavano, mise in moto un’incendiaria campagna interventista.

 

Molti soldati meridionali, contadini strappati alla terra, partirono senza alcuna coscienza della guerra cui venivano chiamati, senza alcuna passione per la causa di Trento e di Trieste, delle regioni italiane ancora irredente. Venivano chiusi come animali nei vagoni ferroviari e spediti al fronte. E molti sopravvissuti raccontarono poi di aver avuto, durante il conflitto, gli austriaci, cioè il nemico, di fronte; e i reali carabinieri dietro, con le baionette puntate contro di loro per scoraggiare fughe e diserzioni. C’è chi sostiene che vi fu un forte connotato razzista in questa guerra: nel senso che era meglio, – qualcuno questo voleva – era meglio morissero i meridionali sul Piave o sull’Isonzo piuttosto che gli italiani del nord.

 

L’entrata in guerra dell’Italia, cent’anni fa, raccontataci (soprattutto dai testi scolastici) come il coronamento naturale del nostro Risorgimento, ebbe invece una scarsa spinta ideale e fu dettata da interessi economici e territoriali, come ogni guerra. Fu il “complotto” di Salandra, che trattava contemporaneamente con gli inglesi e con gli austriaci, che si accordò con gli inglesi senza informarne né il Parlamento né lo Stato Maggiore e che compromise il Re in questo suo accordo segreto. Oltre alle terre irredente, molto di più si poteva ottenere – magari un allargamento orientale dei confini italiani – schierandosi con la Francia e con il Regno Unito, e quindi stracciando la Triplice Alleanza firmata trent’anni prima con l’Austria e la Germania.

 

Per l’Italia i morti in combattimento furono seicentomila, con un onere finanziario enorme: 148 miliardi di lire. Senza contare i feriti, i mutilati e i pazzi. I soldati impazziti nelle trincee.

 

Nell’agosto del 1914 il socialista Gaetano Salvemini aveva scritto: “Bisogna che questa guerra uccida la guerra”. Cosa voleva dire?

 

Che fosse l’ultima e stabilisse equilibri di pace e di giustizia tra le nazioni. La Grande Guerra uccise invece non la guerra ma la pace. Anche per le generazioni future.



 

 

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