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N. 42 - Giugno 2011 (LXXIII)

IL DIAVOLO È MORTO?
Riflessioni sulla morte del capo di Al Qaeda

di Laura Novak

 

Il diavolo, l’essenza del male, impersonato per l’occidente “moderato” in un unico individuo, è stata sconfitto.

 

Ora a distanza di qualche giorno, ripulendo la missione da mistificazioni che ci riportano una leggendaria azione contro un titano del terrore, l’operazione che ha condotto alla morte di Osama Bin Laden appare semplice, quasi gretta.

 

È il momento di analizzare il post.

 

Un uomo, qualche membro del suo staff, qualche familiare, e una decina di uomini di scorta all’interno di una villa al centro di un paese nemmeno troppo periferico del Pakistan, Abbotabad, situato nella provincia di Islamabad.

 

È la notte tra il primo ed il 2 maggio, poco dopo la mezzanotte.

 

Siamo a circa 190 km dal confine con l’Afghanistan; il complesso – rifugio, dove si nasconde Osama, è un palazzo di tre piani circondato da un muro di protezione (cosa usuale per i complessi di lusso nei paesi del Pakistan), con una terrazza all’ultimo piano, nascosta un cinta di protezione alta quasi 2 metri. La sua posizione, lontana dal centro cittadino e nel pieno della campagna desertica pakistana, assicura un buon livello di privacy al suo abitante, sconosciuto fino al 2010.

 

La casa, si saprà solo a seguito del blitz, non ha connessione internet né telefonica. Non moltissimi lussi. Stranezze per il più grande ricercato della storia.

 

Secondo la ricostruzione ufficiale fornita dalle autorità americane, l’operazione Geronimo, condotta da un gruppo di componenti del Navy Seal e supervisionata dalla Cia, compie il primo passo monitorando per mesi gli spostamenti di Al - Kuwaiti, un corriere, un terrorista al soldo di Al Qaeda, il cui nome era stato fornito durante un interrogatorio nel 2004 (è legittimo chiedersi come?) da un detenuto di Guantanamo, affiliato al terrorismo islamico sunnita.

 

Individuare la figura di Al – Kuwaiti, comprenderne il ruolo e la vicinanza con Bin Laden, rintracciarlo e riuscire ad agganciarlo porta via con se 6 anni di indagine.

 

I pedinamenti conducono nel 2010 ad una residenza oscura; i militari, ormai convinti che al suo interno possa nascondersi da occhi indiscreti qualcuno di loro interesse, setacciano la zona ed iniziano un constante picchetto alla villa. Probabilmente non pensano da subito proprio a lui, Bin Laden.

 

Si può immaginare che al suo interno ci siano familiari dai rapporti molto stretti con il capo del terrore; al massimo i suoi più stretti collaboratori, qualcuno dei suoi innumerevoli figli o mogli.

 

D’altronde le immagini di repertorio e la leggenda di inafferrabilità che si è creata intorno alla sua figura ce lo rappresenta in costante fuga, in un bunker sotto terra, in una grotta naturale, riparato dalla luce e dai radar degli elicotteri, o nel pieno del deserto, dove potersi nascondere tra i gruppi nomadi che lo vivono da secoli.

 

La sorveglianza riporta come l’ospite, celato da mura alte più di tre metri, non esca mai di casa, bruci i propri rifiuti e non usi nessun mezzo di comunicazione con l’esterno.

 

L’azione diventa imminente alla fine dell’aprile 2011.

 

Ed è qui che il destino vuole che sia Obama, il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, il pacifista, l’uomo del cambiamento dopo la politica aggressiva di Bush jr. nei confronti di Iraq ed Afghanistan, a dare il benestare definitivo all’aggressione.

 

Nessuno, nemmeno le autorità pakistane, ne devono essere informate.

 

Ma come? Gli Stati Uniti attuano un’operazione totalmente militarizzata, con il fine ultimo di un arresto, su un territorio estero, riconosciuto da tutto il Mondo, uno Stato autonomo, senza rendere partecipe il paese stesso?

 

il Pakistan è troppo ambiguo, lascivo per essere considerato affidabile.

 

Il blitz, veloce e repentino, conduce alla morte del leader per arma da fuoco.

 

Con lui muoiono altre 4 persone.

 

Il giorno seguente, nonostante la conferma della morte dai vertici della stessa organizzazione terroristica, si susseguono, come in ogni leggenda che si rispetti, le voci che Osama non sia morto, forse esiliato, forse allontanato dai suoi stessi alleati.

 

Forse è ancora vivo, forse è stato trovato già morto o forse, ancora, è morto da anni, ma solo ora conviene al mondo e agli Stati Uniti che si sappia.

 

Come Hitler, o forse Elvis e la Monroe.

 

Con la sua fine per molti terminerebbe anche un periodo davvero senza precedenti nella storia del mondo occidentale.

 

L’attacco alle Twin Towers, oltre al profonda perdita umana trascinata nell’abisso dopo il crollo degli edifici, aveva aperto nel 2001 una fase di alta tensione.

 

Il terrore, il panico e la paura accompagnavano le azioni quotidiane che la gente comune, in innumerevoli parti del mondo, compiva ogni giorno: prendere i mezzi pubblici, accompagnare i figli a scuola, affollare i centri commerciali con tutta la famiglia la domenica, atterrare e decollare con aerei di linea per voli brevi o lunghi che fossero, andare ad un concerto o presenziare ad una funzione religiosa.

 

Controllare la paura del popolo è controllare, di conseguenza, anche le loro menti e le loro coscienze.

 

Se vivi nella paura che ogni giorno possa essere tu nel mirino, appoggerai qualsiasi decisione che venga illustrata come un’azione preventiva per la tua incolumità.

 

Non ha importanza se violenza conduce alla violenza. Il futuro dei nostri figli è nella mani dei genitori che devono lottare per un mondo più sicuro.

 

Dal 2001 nessuno ha più condotto la propria esistenza, nello stesso modo, con la stessa vitalità di prima.

 

A volte credo che non ce ne siamo resi davvero conto. Inconsapevolmente, celatamente, vergognandoci anche un po’ della fobia che quella tragedia aveva innescato dentro di noi.

 

Ma è successo. Anche a me.

 

Chi non ha mai osservato intorno a sé, al momento di salire su un aereo, gli altri passeggeri, alla ricerca di un volto sospetto? Chi non ha viaggiato con l’animo più leggero constatando che sul suo stesso volo non erano presenti uomini e donne islamici?

 

Dopo l’attacco al treno a Madrid, chi non ha mai pensato, anche solo per un attimo, appena aperte le porte scorrevoli della metro, che quel passo verso l’interno per qualcuno era stato fatale? Quante delle persone che conosciamo, per un periodo, anche solo limitato, ha deciso di non andare all’estero? E chi invece ha deciso di non entrare più in un locale arabo, magari per un kebab, per non dover incrociare lo sguardo di coloro che per pelle, sembianze o abitudini di abbigliamento ci ricordavano volti di assassini?

 

Quanti di noi ha rinunciato ad un viaggio in uno dei meravigliosi paesi di religione islamica? E ad una visita alla Torre Eiffel?

 

Chi di noi non ha avuto una paura incondizionata di colui, che percorreva la nostra stessa strada?

 

Ecco, se qualcuno si riconosce anche solo in una di queste privazioni, allora sa di cosa sto parlando.

 

Moltissimi giornalisti, ricordando quel fatale 11 settembre, hanno affermato quanto il mondo non sarebbe stato più lo stesso. E avevano di certo ragione.

 

Due invasioni, Due guerre, decine di paesi coinvolti in un conflitto perpetuato contro un fantasma, due dittature crollate, migliaia di vittime sui luoghi di guerra ed infine l’elezione a sorpresa del primo presidente nero della storia degli Stati Uniti.

 

Obama e con lui i suoi elettori, avevano un sogno: ricostruire l’America dalle fondamenta, assemblare nuovamente, ed in maniera armoniosa, un paese confuso, lacerato ed spaventato.

 

L’uccisione di Osama Bin Laden è avvenuto in un momento in cui il presidente Obama era al suo minimo storico del gradimento tra la gente, il suo popolo votante. Altra stranezza, si potrebbe insinuare.

 

Le scelte, spesso obbligate, che ha dovuto compiere con lo sua politica di risanamento hanno investito trasversalmente ogni ambito della vita sociale del paese: dall’economia fino alla spinosa questione della disoccupazione giovanile, dal sistema bancario e assicurativo, corrotto ed inviso, alla riforma colossale della sanità pubblica,che aprirà le sue materne braccia a quasi 35 milioni di americani.

 

Alla notizia della decapitazione del Minotauro, l’America ha festeggiato, per giorni.

 

Ha invaso i luoghi simboli della tragedia delle Torri Gemelle, celebrandone le vittime, su i cui corpi sono trascorsi ormai 10 lunghi anni.

 

Nello stesso modo in cui è stata festeggiata l’esecuzione di Saddam Hussein, altro storico nemico degli Usa.

 

Eppure la missione contro Al Qaeda ed il suo leader non poteva essere considerata una guerra. Nessuna controparte degna di questo nome.

 

Il gruppo di guerrieri fondamentalisti erano un numero esiguo rispetto a quello di vera e potente nazione. Sparpagliati e connessi da una rete di comunicazioni, spesso farraginosa e ad ogni modo complessa. Nessun aereo militare a disposizione. Armi rudimentali, spesso di vecchia generazione, utilizzate ad onor del vero con l’accecante e deflagrante rabbia del fondamentalismo religioso.

 

Nonostante tutto gli Stati Uniti hanno attaccato come si attacca il nemico da abbattere in una guerra.

 

Il blitz ha suscitato reazioni opposte. Coloro che lo hanno giudicato liberatorio e necessario a “rendere il mondo un posto migliore”, contro coloro, come l’ex cancellerie tedesco Schmidt e il governo svizzero, che invece considerano l’operazione un abuso di potere su territorio estero, da condannare e sanzionare.

 

Ma ora che il mostro, il ricercato n. 1 è solo un ricordo, chi prenderà il suo posto ai vertici dell’organizzazione?

 

Mentre il mondo chiede la pubblicazione delle foto del cadavere di Osama, che sappiamo esserci, Barack Obama tergiversa. Dopo l’azione è il momento della riflessione e soprattutto di concedere alla democrazia del mondo occidentale, delle dovute spiegazioni.

 

La tensione nel frattempo cresce di nuovo. Indiscrezioni vogliono che la vendetta per questo assassinio, considerato vigliacco, e per la sua sepoltura, indecorosa secondo la religione islamica, non tarderà. I capi si stanno riorganizzando, velocemente.

 

87 reclute dell’esercito pakistano e circa 100 feriti uccisi in Pakistan nella prima azione attuata nella nuova Jihad, messa in atto per vendicare la morte del leader di Al Qaeda.

 

La gente nuovamente teme qualcuno, di cui però, ora, non conosce più nemmeno l’aspetto fisico. La nostra paura non ha più un volto; nessuno su cui riversare l’odio che scaturisce dal terrore. Le privazioni forse continueranno, la diffidenza manipolerà la nostra coscienza di cittadini del mondo.

 

La residenza che ha nascosto Osama è già meta di pellegrinaggio.

 

I dubbi sulla necessità di vedere il corpo esistono, anche e soprattutto per il doveroso rispetto che si deve ad una salma.

 

Nell’era della comunicazione istantanea, così come abbiamo visto in diretta tv il disastro di Cernobyl, così come abbiamo sopportato la visione degli sputi sul corpo appeso del Duce, così come ci siamo commossi all’istantanea della corsa disperata della bambina nuda nelle strade del Vietnam... e così come hanno reso pubblici il processo e l’esecuzione di Saddam, la democrazia richiede a gran voce la testa del diavolo.

 

Non credo che nessuno possa asserire se sia giusto o meno rendere pubbliche quelle foto. Sono punti di vista, che, nuovamente, vengono gestiti dalla nostra paura.

 

Potrebbero essere forse solo la dimostrazione che anche il diavolo è battibile; potrebbero essere un modo, uno stratagemma per quietare il nostro timore di vivere.

 

O forse servono solo a nascondere a noi stessi, che nonostante tutto, il mirino è sempre acceso.



 

 

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