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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

MARCO AURELIO
IL MIRACOLO DELLA PIOGGIA

di Valentina Riccio

 

Marco Aurelio Antonino, noto come l’“imperatore-filosofo”, fu uno dei personaggi più controversi della storia di Roma. Ancora oggi, infatti, gli studiosi non sono concordi nel definire un’immagine univoca di quell’eclettico personaggio, che nel corso dei secoli venne richiamato alla memoria attraverso numerosi canali interpretativi.

 

Le ragioni per cui la figura di Marco Aurelio sia stata analizzata attraverso punti di vista sempre distinti sono molteplici, e non sono da inquadrarsi soltanto all’interno della storiografia, ma anche in ambito artistico, letterario, cinematografico. Tuttavia, l’origine della varietà di letture della sua figura (nonché di alcune strumentalizzazioni), è da vedersi fin dal mondo antico, e precisamente nei decenni successivi alla sua morte.

 

Un esempio, in tal senso, è costituito dall’immagine presentata dalle fonti cristiane, le quali propongono l’imperatore come un protettore dei cristiani a seguito del cosiddetto episodio del “miracolo della pioggia”. È noto che Marco trascorse diciotto dei suoi diciannove anni di regno al fronte (fatto che, peraltro, lo costrinse a scontrarsi con la moralità stoica in cui si riconosceva) e ciò venne ricordato soprattutto in quell’area di Roma dedicata alla sua memoria, la quale doveva essere collocata ad ovest della via Flaminia.

 

Tra gli edifici si ergeva imponente la colonna aureliana, sulla cui sommità svettava la statua bronzea dell’imperatore. Il monumento presenta un significato simbolico che è stato oggetto di ampio dibattito sin dall’antichità: la colonna, infatti, racconta le vicende vissute da Marco e dai suoi soldati in occasione delle guerre sarmatiche del 171-173 e del 174-175. Essa venne eretta durante l’impero di Commodo, tra il 180 ed il 192, in memoria di Marco e della moglie Faustina. La narrazione delle campagne danubiane è completa, e riprende gli stessi concetti propagandistici già esposti attraverso i pannelli dell’arco trionfale, come ad esempio la liberalitas (generosità o magnanimità) che è stata raffigurata in maniera molto simile. Nelle rappresentazioni le azioni vengono immobilizzate in icone diverse per gestualità ed espressività patetica, caratterizzando in modo univoco immagini di sottomissione, afflizione, agonia, tutte richiamate secondo una scansione ritmica delle scene di violenza. Le sculture della colonna, dunque, si collocano tutte quante in un sistema di riconoscenza iconografica, basato su di un lessico culturale per cui la costruzione delle immagini esclude l’invenzione. Tra le figure plastiche e distaccate dal fondo neutro vi è quella dell’imperatore, a sua volta molto standardizzata, posta frontalmente e spesso caratterizzata da un volto severo.

 

Nonostante i rilievi siano stati concepiti per la glorificazione di Marco, il vero protagonista della narrazione è, in realtà, l’esercito: esso domina tutta la composizione e l’imperatore non può che essere visto come colui che ne assume la direzione sino alla fine della guerra. Tutto ciò riconduce ad una problematica relativa alla concezione dell’immagine dell’imperatore dopo la sua morte: Marco era stato un imperatore «per necessità», che coltivava in sé il disprezzo per la guerra e, certamente, una viva tolleranza, perciò si concepisce che quel monumento (eretto a scopo propagandistico) ne distorce la reale immagine, non presentandolo in maniera esclusiva come capo dell’esercito, ma come un imperatore austero. Marco, dal canto suo, non avrebbe mai concesso a se stesso di governare sotto l’egida del disprezzo per i vinti: in primo luogo perché – da conservatore rispettoso delle tradizioni quale era – non avrebbe certamente preso le distanze da uno dei criteri fondamentali dell’imperialismo romano, che si basava anche sul rispetto del nemico sottomesso; in secondo luogo, perché tra tanti sacrifici morali che il suo ruolo aveva richiesto, non avrebbe mai osato spingersi fino all’intolleranza e al dispregio.

 

Al di là di tutte le probabili ipotesi, l’unico elemento certo è che la personalità di Marco è stata totalmente svuotata per lasciare il posto a caratteristiche che non gli erano assolutamente proprie, ma che si spiegavano con la crescente percezione di una minaccia all’identità romana, resa attraverso l’espressionismo patetico, congiunto con il disprezzo per il barbaro.

Quella corrente artistica patetica, inoltre, non manifestava soltanto l’idea di un pericolo imminente che proveniva dall’esterno, ma anche le tensioni intestine all’impero, minacciato nella sua identità costitutiva anche – e soprattutto – dalla diffusione della religione cristiana. È noto che il cristianesimo aveva posto un notevole problema di salute pubblica, poiché il suo carattere universalistico ed esclusivo non si conciliava con l’ordine pubblico e religioso di Roma, tant’è vero che i cristiani non si assimilavano, né erano assimilabili ad altri. L’esercizio di tutti i ruoli pubblici prevedeva, secondo le tradizioni secolari di Roma, la pratica di tutta una serie di riti religiosi, ma i cristiani si estraniarono da tutto questo e continuarono ad essere intransigenti. Nelle ricorrenze pubbliche, ad esempio, costoro erano proprio rifiutavano panem et circenses, prendendo le distanze da un potentissimo strumento di cattura del consenso politico.

 

Dalla colonna aureliana emerge un dibattito astruso in merito all’interpretazione di due scene in chiave cristiana: si tratta, appunto, del “miracolo del fulmine” e del “miracolo della pioggia”. L’episodio viene narrato da diverse fonti e pone in discussione il ruolo pubblico di Marco, soprattutto il suo rapporto con la cristianità.

 

Le scene della colonna che raccontano questi aneddoti sono la decima e la sedicesima, e presentano entrambe una dimensione sovrannaturale: il miracolo della pioggia, in particolare, costituisce un’assoluta novità dal punto di vista iconografico, poiché la rappresentazione della pioggia è ispirata direttamente a divinità marine ed è posta frontalmente allo spettatore.

 

La lettura di quelle scene comunica un momento di seria difficoltà per i soldati romani, pressati continuamente dai nemici e indeboliti dalla stanchezza e dalla sete. Sempre alla loro testa, l’imperatore suggerì loro di pregare gli dèi affinché li sollevassero da quella condizione e, dopo poco, giunse un temporale improvviso, un fulmine cadde al suolo allontanando i nemici, e la pioggia ristorò i soldati romani. Di per sé il racconto non presenta nodi problematici, anzi, esalta un fenomeno naturale di cui i soldati romani devono essersi giovati. In realtà, tutto il dibattito che nei secoli si è costruito attorno a questo episodio verte su quel suggerimento dell’imperatore di pregare la divinità, atto che ha circondato la scena di un’aura religiosa, interpretata diversamente sia in senso pagano, sia – soprattutto – in senso cristiano. L’episodio, dunque, divenne immediatamente uno dei potenti mezzi a supporto del proselitismo dei cristiani, e venne ricordato per secoli.

 

La prima fonte che riporta il racconto in chiave cristiana è Tertulliano, scrittore cartaginese convertito al cristianesimo, vissuto tra il 155 ed il 230; egli non riferisce particolari notizie inerenti a Marco, ma giustifica il soddisfacimento della sua richiesta attraverso le preghiere dei soldati cristiani: questi ultimi, infatti, avrebbero rivolto le preghiere all’unico Dio potente, chiamandolo Giove, ma - scrive Tertulliano - riferendosi al Dio cristiano.

Tertulliano presenta quell’avvenimento come se fosse un fatto consueto: a parere dello scrittore, infatti, nel mondo romano vi erano degli imperatori buoni, pronti a prendere le difese dei cristiani e, tra quei principi, era da annoverarsi anche Marco Aurelio.

 

Il miracolo della pioggia, dunque, sarebbe stato invocato dall’imperatore per proteggere proprio i cristiani. Tuttavia, anche se Tertulliano presentava Marco come tale, era ben consapevole che il nostro non doveva essere affatto un protettore dei cristiani: la storiografia moderna, infatti, è concorde nel riconoscere l’opportunismo del parere politico di Tertulliano sull’imperatore, il quale aveva dato un giudizio sprezzante sui cristiani e sul loro dispregio della morte. Per di più, Marco aveva emanato dei provvedimenti che sono stati interpretati dagli studiosi come interventi che permettevano la ricerca d’ufficio dei cristiani, vietata, invece, da Traiano; soltanto secondo Marta Sordi, le istruzioni inviate al legato delle tres Galliae nel 177 dimostrano che l’imperatore non si discostò dall’atteggiamento dei predecessori, e di certo non permise che i cristiani venissero processati senza regolari denunce. Nella primavera del 176, però, l’imperatore aveva dato istruzioni ai governatori provinciali affinché provvedessero alla ricerca d’ufficio di sacrilegi, latrones, plagiarii e fures: in questo modo, egli autorizzava indirettamente la punizione contro i cristiani, annoverati tra i sacrilegi e dunque oggetto di ricerca e arresto senza la necessaria iniziativa di qualche accusatore; da ciò scaturì il cosiddetto “martirio di Lione” del 177, dove le operazioni di polizia dei magistrati locali si risolsero in una vera e propria strage di cristiani durante lo svolgimento dei saturnalia. Tuttavia, secondo P. A. Gramaglia, Tertulliano non volle parlare della persecuzione di Marco Aurelio perché non poteva adattarla alla sua teoria apologetica secondo la quale solo i cattivi imperatori avrebbero perseguitato il cristianesimo; di fronte all’opinione pubblica romana, dunque, la tesi di un Marco Aurelio iniquo e corrotto avrebbe suscitato proteste e pericolose reazioni e questo, da cittadino romano e da figlio di pagani, Tertulliano non poteva dimenticarlo.

 

Perciò, l’imperatore doveva diventare protettore dei cristiani, e per dimostrarlo Tertulliano accennò anche a una lettera inviata da Marco al senato di Roma per riferire del prodigio. Il testo di quella’epistola, redatta in greco, è senza dubbio un falso costruito dalla propaganda cristiana del IV secolo prendendo spunto da un documento autentico. Sembra sia stato proprio Tertulliano, con i suoi intenti ideologici e propagandistici, a dare origine all’idea di costruire quel documento. Secondo P. Kovács, il testo dovrebbe essere posteriore al 311, dunque successivo all’editto di tolleranza verso i cristiani emesso dall’imperatore Galerio: dal contenuto, infatti, si deduce che l’autore doveva essere a conoscenza da quanto stabilito nell’editto, soprattutto per gli ordini che sono fatti impartire da parte di Marco. Nonostante il documento originale non sia conosciuto, la prova che tale falso sia stato redatto dopo il 311 e che non sia posteriore al V secolo è fornita dal testo stesso: la lettera è sicuramente tardo-antica; in più la titolatura imperiale di Marco è errata, e ciò, insieme al linguaggio non elevato, denota che non può essere stata scritta da lui; infine, il testo greco prova che dev’essere stata redatta in ambito bizantino.

 

Il contenuto della lettera snatura completamente Marco Aurelio, tanto da renderlo irriconoscibile, fino a presentarlo come un uomo intimorito dal potere della fede cristiana, ma non come un possibile seguace e ciò costituisce un’ulteriore prova della falsità del documento, poiché chi lo ha redatto sapeva di avere a che fare con un imperatore notoriamente pagano. Per di più, la religiosità di Marco toccava una dimensione spirituale che andava oltre lo stesso paganesimo, e che era quella contemplata dalla sua filosofia: essa, infatti, andava a soddisfare le necessità dello spirito di cui non si occupavano i culti pagani, né pubblici, né privati, e che, invece, il cristianesimo si era proposto di osservare. Marco conservava in sé la fede stoica in dio, che corrisponde alla ragione universale, al logos composto di fuoco e aria, alla provvidenza, al creatore del mondo che rende tutto ordinato e perfetto. Gli stoici ritenevano che solo rimettendo la propria vita a questo dio, e dunque diventando sapienti, ci si poteva avvicinare alla sua stessa condizione e raggiungere la pace dell’anima. La vita divina e quella del sapiente sono equiparate per uno stoico, al punto da poterlo rendere in grado di comunicare con la divinità, la quale ha un posto nell’anima di ogni uomo e, attraverso la dottrina, lo aiuta ad orientarsi nella vita quotidiana e lo rende libero.

 

Nonostante l’evidenza della spiritualità di Marco, espressa con costanza nei Pensieri, vi sono alcuni studiosi che vedono nella sua religiosità degli elementi affini a quella cristiana. Secondo S. Mammana, anche per gli stoici non si può servire dio senza servire i propri simili, non si può mancare ai propri doveri verso gli uomini senza mancare ai doveri verso dio; ciò corrisponderebbe ai massimi comandamenti del cristianesimo. In realtà, dev’essere effettuata una lettura contraria di tali similitudini, considerando che piuttosto è il cristianesimo ad aver elaborato una dottrina basata su principi similari - ma non identici – a quelli della spiritualità stoica, la quale vantava comunque antiche radici dottrinarie che l’avevano resa autonoma da qualunque tipo di religiosità. L’adesione allo stoicismo, inoltre, presupponeva il rifiuto di qualsiasi altro tipo di sentimento religioso, poiché il principio divino era uno soltanto. Naturalmente, ciò non impediva a Marco di svolgere i riti pubblici pagani, lontani dal coinvolgimento dello spirito e utili soltanto a livello politico e propagandistico, caratteristica che, invece, mancava alla religione cristiana e che, perciò, doveva essere condannata. Anche sotto il profilo religioso, dunque, Marco resta fedele alle istituzioni romane, conservando i gusti e le abitudini degli antichi. Per questi motivi, unitamente all’incapacità morale di comprendere la dottrina cristiana, ogni sforzo compiuto per avvicinare le immagini pubblica e privata di Marco al cristianesimo non trova alcun fondamento, tant’è vero che si è ricorso alla redazione di un documento artificioso, conciliabile con la rappresentazione che Tertulliano aveva contribuito a diffondere.

 

Altri studiosi, invece, interpretano l’episodio del miracolo in chiave strumentale, pensando che l’imperatore possa essersene servito per giustificare, agli occhi dei cristiani, le sue strategie politiche che essi non approvavano; tuttavia, è evidente che anche questa ipotesi non può essere suffragata nemmeno dall’uso, da parte di Marco, di simili strategie, poiché è noto il mantenimento della politica anticristiana già espressa dal padre adottivo.

In questo contesto, è lecito chiedersi perché il Marco filosofo, coerentemente con la sua dottrina, non sia stato tollerante verso i cristiani: la tolleranza dell’imperatore è ben nota su ogni frangente, ma anche nel contesto del rapporto con il cristianesimo entra in gioco la sua difficoltà di conciliazione della moralità stoica con il suo ruolo di imperatore. Ancora una volta, Marco è costretto a mettere da parte la morale per il dovere, che in questo caso doveva consistere nella difesa della salute pubblica dell’impero. Tuttavia, il rapporto con i cristiani è una questione complessa e, probabilmente, Marco, da uomo, non avrebbe potuto concepire né comprendere la religione cristiana.

 

Col tempo, l’episodio del “miracolo della pioggia” è divenuto sempre più carico di significato cristiano, ponendo la figura dell’imperatore ai margini dell’evento e presentandolo come un incredulo spettatore della potenza di Dio. La prima fonte che presenta l’episodio fornendo un presunto fondamento storico è la Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Il testo mostra che Eusebio, scrittore dell’età costantiniana, non era soltanto a conoscenza delle versioni (pagane e cristiane) del secolo precedente, ma aveva evidentemente letto anche quella lettera falsa attribuita a Marco. A proposito dell’imperatore, Eusebio non accenna ad altro che la sua saggezza: in questo modo, lo scrittore dimostra implicitamente di accogliere l’immagine già proposta da Tertulliano, quella di un Marco Aurelio tanto leale e corretto da non poter essere considerato né dai cristiani, né dal popolo intero come un imperatore cattivo e un persecutore. Quell’idea, una volta redatto il falso, si era cristallizzata nell’immaginario comune, restando comunque in secondo piano rispetto agli avvenimenti dell’episodio miracoloso, che verrà conservato nell’immaginazione popolare della cristianità e in un numero elevatissimo di cronache e apologie cristiane, sia nell’occidente che nell’oriente europeo. Per di più, si è verificato anche un caso di interpolazione del testo antico: si tratta dell’intervento di Xifilino, noto epitomatore della Storia Romana di Cassio Dione e storico niceno vissuto tra il 155 ed il 230. Intorno all’anno 1070, Xifilino, da cristiano, si propose di completare le informazioni del testo di Dione nella sua narrazione sul miracolo della pioggia, allora ancora potente strumento di propaganda cristiana.

 

Il racconto delle guerre sarmatiche di Cassio Dione accenna brevemente al miracolo, presentando la situazione di difficoltà in cui versavano i soldati allo stesso modo degli altri scrittori. Tuttavia, lo storico menziona un fatto diverso rispetto alla versione cristiana: l’imperatore si sarebbe rivolto ad un mago egiziano, Arnufis, a cui avrebbe dato l’incarico di invocare le divinità, in particolare Mercurio, dio dell’aria, ed in seguito a ciò venne la pioggia. Di questo Arnufis non si trova alcuna traccia nel rilievo della colonna e, a mio parere, potrebbe trattarsi di una versione pagana di contrasto a quella già più diffusa dei cristiani, che lo storico non aveva accolto.

 

A quel punto il racconto di Dione si interrompe e Xifilino interviene in prima persona, dichiarando apertamente che le affermazioni di Dione sono errate e riportando il racconto in chiave cristiana con simili particolari già esposti da Eusebio. L’imperatore, però, non è più qualificato in alcun modo, non vi è alcun accenno alle sue qualità, né di uomo, né di comandante, ma è ormai ridotto ad uno spettatore attonito che non presenta iniziative nei confronti dei cristiani. In effetti, secondo Xifilino non è Marco a dar loro fiducia e a chiedere, di sua spontanea volontà, che i cristiani preghino il loro Dio, ma è un prefetto ad avvicinarsi a lui per suggerirgli di affidarsi all’invocazione dei soldati cristiani. Costoro, dunque, diventano a tutti gli effetti i protagonisti dell’episodio, mentre l’imperatore ormai è ridotto ad un personaggio secondario, non più protettore dei cristiani, ma passivo spettatore della loro potenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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