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N. 35 - Novembre 2010 (LXVI)

New York City Marathon
Di corsa per la Grande Mela

di Simone Valtieri

 

Ci sono una serie di motivi per cui la Maratona di New York, nonostante gli appena quarant'anni di storia, è oggi la corsa podistica più conosciuta e frequentata al mondo. Alcuni di questi motivi risiedono nel fascino incontrastato che la grande città americana esercita sull'immaginario collettivo. Il percorso dei classici 42 chilometri e 195 metri che si snoda attraverso i cinque differenti distretti della “capitale della Terra” (Manhattan, Bronx, Queens, Brooklyn, Staten Island), rappresenta un attrattiva unica sia per i più resistenti campioni sparsi per il mondo sia, soprattutto, per i tantissimi amatori che desiderano cimentarsi con la prova più dura. Sono talmente tanti i podisti che sognano di attraversare correndo il ponte di Verrazzano che l'associazione organizzatrice, la New York Road Runner, è stata costretta negli ultimi anni a limitare le iscrizioni, a fronte delle oltre centomila richieste. L’ultimo anno sono stati in ogni caso ben 43.545 gli atleti giunti al traguardo, un record assoluto rispetto a tutte le altre grandi manifestazioni podistiche del panorama internazionale.

 

Non è tuttavia il solo fascino intrinseco di New York a trasformare una corsa cittadina nella maratona per antonomasia. L’ingrediente in più, quello che manca a tutte le altre gare del mondo, ce lo mettono i newyorchesi. Per loro la prima domenica di novembre si trasforma ogni anno in una grande festa, un rito collettivo da onorare per tutta la giornata, perché se è vero che per convenzione una maratona dura due ore e spiccioli, il tempo si dilata enormemente quando a correrla è una folla entusiasta di persone comuni, chiamate comunque a concludere la prova entro otto ore e mezzo per apparire nelle liste dei classificati. Su tutto il percorso, da Staten Island al Central Park, si srotolano orde festanti di abitanti, orchestrine strimpellanti (oltre un centinaio), cori gospel, scolaresche, turisti e figure folkloristiche. Quest’ultime, poi, affollano non solo i marciapiedi, ma anche le strade stesse, partecipando al rito collettivo da parte attiva e correndo per le americanissime “26 miglia e 385 iarde” acconciate in maniera improbabile. Una folla di maschere, statue della libertà viventi, zii Sam che metro dopo metro corrono, e talvolta passeggiano, fino al calare della sera tra i suoni e i frastuoni della gente, prima di mettersi al collo l’agognata medaglia riservata ai finisher e di rianimarsi grazie anche all’affetto dei presenti, prodighi di complimenti e pacche sulla spalla.

                                                                                   

Altro ingrediente vincente della ricetta newyorchese è la grande varietà di scenari che la più popolosa città d’America offre e la genuina competizione che vede sfidarsi i cittadini di ogni distretto per aggiudicarsi la palma dei tifosi più calorosi. La gara si sviluppa attraverso i cinque grandi boroughs della città. Si parte a metà mattinata dal distretto residenziale di Staten Island, non prima della tradizionale esecuzione dal vivo dell’inno nazionale, d’obbligo per ogni manifestazione, sportiva e non, che si svolge sul suolo americano. Dopo lo sparo dello starter, i podisti migliori scattano dalle prime posizioni verso la vicinissima salita sul ponte di Verrazzano che collega l’isolotto newyorchese con il distretto di Brooklyn. Sotto i loro piedi il ponte comincia a tremare a causa della marea umana avanzante. I primi a partire sono i disabili della categoria wheelchair, gara istituita solamente nel 2000; poi tocca alle professioniste femminili, ai maschi e subito dopo, divisi in tre grossi scaglioni ordinati per merito e che partono ogni venti minuti, comincia la fatica tutto il resto del gruppo. Brooklyn è teatro di circa metà della prova che corre parallela alla Brooklyn-Queens Expressway fino alla 4th Avenue per poi proseguire su grandi arterie come Lafayette Avenue, Bedford Avenue e McGuinnes Avenue attraverso sei quartieri: Bay Ridge, Sunset Park, Park Slope, Bedford-Stuyvesant, Williamsburg e Greenpoint.

                                                                                           

Attraversando il ponte di Pulaski i corridori escono dal più affollato borough cittadino ed entrano in quello più esteso, il Queens, raggiungendo l’Halfway point (metà corsa). Altre due miglia e si giunge scavalca l’East River sul Queensboro Bridge, uno dei punti più suggestivi specialmente per i primi atleti a transitarvi. “Sei sospeso sull’acqua e immerso nel silenzio, poi scendi verso Manhattan, svolti a destra sulla First Avenue ed esplode l’entusiasmo del milione di spettatori che comincia a incitare e ad applaudire”. Sono questi i pensieri di Stefano Baldini, campione olimpico di maratona nel 2004 ad Atene ma mai trionfatore a New York. Una volta nel centro nevralgico della Grande Mela gli atleti puntano dritti verso Harlem, il quartiere afro-americano a nord dell’isola, attraversato il quale si giunge, dal ponte della Willis Avenue, nel Bronx. L’unico distretto della città quasi interamente costruito sulla terraferma e abitato prevalentemente da immigrati, viene attraversato per neanche un miglio dagli atleti che superando il quinto e ultimo ponte previsto, il Madison Avenue Bridge, tornano a Manhattan per ritrovarsi dopo neanche un altro miglio, immersi nel verde del Central Park. È qui che si conclude la corsa, dopo altre estenuanti quattro miglia che portano alla Tavern on the Green, storico locale adiacente alla linea di arrivo, dove tra l’altro si svolgono incontri e cene ufficiali pre e post gara.

 

Il percorso descritto è quello storico su cui si sviluppa la corsa dal 1976. Per i primi sei anni però, dal 1970 al 1975, la gara si è svolta per intero all’interno del Central Park. L’idea venne a Fred Lebow, presidente del New York Road Runners Club, che scelse come scenario il Park Drive, la rete di percorsi interni al polmone verde cittadino, come sede della prova. Davanti ad un centinaio di persone incuriosite fu Gary Muhrcke a vincere la prova, con il discreto tempo di 2 ore, 31 minuti e 38 secondi. Su un totale di 127 partenti e paganti (un dollaro la tassa d’iscrizione) solo 55 giunsero alla fine della prova. Da quello sparuto gruppo di appassionati alle decine di migliaia di persone che oggi affollano le strade di New York si è arrivati per gradi, passando anche dai 2090 iscritti alla prova del 1976, bramosi di cimentarsi coi propri limiti e di scoprire se sarebbero stati in grado di arrivare correndo da Staten Island fino alla lontana Manhattan.

 

Già dal 1971 viene istituita la prova femminile che, col senno di poi, porterà fortuna alla storia della manifestazione. Un deciso passo avanti verso l’affermazione a livello internazionale arriva infatti con la corsa del 1978, quando la norvegese Grete Waitz conclude la prova con il nuovo record mondiale femminile in 2.32’30”. Fino ad allora la maratona cittadina era eclissata dalla presenza sul suolo americano di due delle più prestigiose e antiche maratone del mondo, quelle di Boston e di Chicago. Con la prima affermazione delle nove complessive della fuoriclasse scandinava, New York cominciò ad avere la sua visibilità. Tornando alla Waitz, le sue nove vittorie rappresentano un primato imbattuto e probabilmente imbattibile, sigillato nel 1988 con l’ultimo suo successo. Dietro di lei tra con tre affermazioni la britannica Paula Radcliffe e con due le kenyane Margaret Okayo e Tegla Loroupe e la lettone Jelena Prokopčuka. Due le vittorie anche per le statunitensi Nina Kuscsik e Miki Gorman ma ottenute prima del 1978, quando il livello delle iscritte alla maratona non era ancora di primo piano. Tra i maschi il passo verso l’eccellenza arriva un paio d’anni prima, già nel 1976 con la prima delle quattro affermazioni consecutive di Bill Rodgers, ottenuta con l’ottimo crono di 2 ore, 10 minuti e 10 secondi. Dopo di lui spiccano nell’albo d’oro le tre vittorie del compatriota Alberto Salazar e le doppiette dell’italiano Orlando Pizzolato, del messicano German Silva, dei kenyani John Kagwe e Martin Lel e del brasiliano Marilson Gomes dos Santos.

 

Un capitolo a parte meritano gli italiani. Il fascino che la Grande Mela esercita sui podisti del Belpaese si traduce in una presenza record nella storia della maratona, seconda solo a quella dei padroni di casa americani. Nel 2010 il contingente italiano è addirittura il più numeroso, con 3792 iscritti, tra i quali spiccano atleti che ancora oggi, dopo le affermazioni passate, non riescono a scrollarsi di dosso la voglia di correre nell’atmosfera magica che i five boroughs sanno regalare. Si parla del vicentino Orlando Pizzolato, già citato e vincitore delle edizioni ‘84 e ’85, e della romana Franca Fiacconi, unica italiana a trionfare davanti alla Tavern on the Green nel 1998. Altri tre italiani appaiono tra le liste dei vincitori e sono Gianni Poli da Lumezzane (Brescia), che succede nel 1986 ai due successi di Pizzolato, ed il pugliese Giacomo Leone che conquista la vittoria nel 1996. Nel 2001 arriva anche il successo di Francesca Porcellato che sulla sua sedia a rotelle vola tra le avenue newyorchesi ed i viali del Central Park in 2.08’51” stabilendo l’allora record della corsa.

 

Divenne celebre un episodio avvenuto nella maratona del 1979 quando in campo femminile ci fu la beffa, scoperta soltanto l’anno successivo, di Rosie Ruiz. L’atleta americana di origini caraibiche concluse la prova in poco meno di tre ore, tempo che la qualificava di diritto per la prestigiosa maratona di Boston dell’anno seguente. Nella città del Massachusetts la Ruiz vinse sorprendentemente in 2.31’56”. Un tempo record che rappresentava per lei un miglioramento del personale di oltre venti minuti, prestazione ai limiti dell’immaginabile. Apparve subito strano anche il fatto che l’atleta arrivò al traguardo fin troppo fresca dopo i massacranti 42 km e che candida rispondeva ai giornalisti che le chiedevano il perché di tanta vivacità: “Stamattina mi sono svegliata piena di energie!”. L’inghippo fu presto svelato: La Ruiz, a Boston come a New York l’anno prima, si era risparmiata un’abbondante porzione di maratona prendendo la metropolitana fino a pochi chilometri dall’arrivo. Naturalmente fu squalificata ed eliminata da entrambi gli ordini di arrivo.

 

L’anacronistica truffa della Ruiz oggi non potrebbe più aver luogo, visto che tutti i corridori iscritti sono dotati di un chip posto nelle scarpe con il compito di registrare il passaggio sotto lo striscione di partenza, di arrivo e ad ogni singolo intermedio della corsa. Questo dato fa riflettere su quanto sia cresciuta la maratona di New York, diventata oggi un evento mediatico seguito da oltre 300 milioni di persone in tutto il mondo. Alla corsa della Grande Mela si deve soprattutto il merito di aver trainato con la sua crescente popolarità tutte le altre maratone, sebbene più antiche e blasonate, relegate, prima del suo avvento, ad uno status di piccole e faticose corse per un ristretto numero di appassionati. Conseguenza di ciò è anche la nascita nel 2006 del World Marathon Major, un circuito professionistico che racchiude le cinque più prestigiose maratone del mondo: Berlino, Boston, Chicago, Londra e appunto New York, ormai giunta al discreto numero di 41 edizioni e con oltre 900.000 finisher complessivamente arrivati al traguardo: tutti atleti, podisti o persone comuni che per almeno una volta nella loro vita sono riusciti a sfidare e battere i propri limiti.


 

 

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