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N. 53 - Maggio 2012 (LXXXIV)

MANI PULITE
RIFLESSIONI SULLA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA

di Massimo Manzo

 

Nel febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa, esponente milanese del Partito Socialista italiano, dava l’avvio all’inchiesta “mani pulite”, che segnerà il crollo della cosiddetta prima repubblica.


Condotta da un pool di magistrati della procura di Milano, mani pulite fu un evento giudiziario di proporzioni gigantesche, per quasi due anni al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. L’intero sistema politico italiano ne uscì con le ossa rotte, tra scandali finanziari, tangenti milionarie e malaffare diffuso.


I partiti che dal dopoguerra avevano guidato la repubblica entrarono in una crisi irreversibile e alcuni di essi, fino ad allora protagonisti della scena politica, sparirono letteralmente dalla storia italiana.


A vent’anni di distanza è lecito porsi delle domande su quel periodo e su ciò che ha prodotto, tentando di analizzarlo in una prospettiva storica e il più possibile oggettiva. Se infatti sono note le incongruenze e i gravissimi difetti di quel sistema politico, è altrettanto chiaro che la corruzione e il malcostume sono ancora oggi fenomeni endemici della vita pubblica italiana. Anzi, i recenti scandali scoppiati all’interno delle tesorerie dei partiti dimostrano come in molti casi la situazione sia addirittura peggiorata.


Il quadro internazionale e il contesto italiano


A differenza di quanto comunemente si pensi, tangentopoli non fu un fenomeno esclusivamente “domestico”, ma fu al contrario figlio di una serie di cambiamenti radicali nel quadro internazionale.


Con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda l’Italia perse irreversibilmente la sua centralità geopolitica nel contesto internazionale. Posta al confine tra blocco occidentale democratico e blocco orientale comunista, lo stivale era stato infatti una pedina strategicamente importantissima per il mantenimento dell’”equilibrio di potenza” che caratterizzò il confronto tra USA e URSS.


La presenza nel nostro paese del più grande partito comunista dopo quello russo, per giunta finanziato direttamente da Mosca, aveva fortemente impensierito gli Stati Uniti.
Per molto tempo si era temuta l’ascesa del PCI al governo, che avrebbe inevitabilmente portato alla fine della democrazia italiana e a una deriva anti-atlantista del paese. Questo quadro aveva condizionato fortemente la conformazione dei due maggiori partiti politici italiani (la DC e appunto il PCI, che per più di quarant’anni avevano beneficiato dei generosi contributi economici ricevuti sottobanco da Washington e Mosca), eliminando la possibilità di alternanza democratica e creando dannose incrostazioni di potere.


Per contro partiti come quello socialista, subendo la “concorrenza sleale” dei due storici avversari, aveva dovuto barattare la sua influenza politica con la creazione di un meccanismo di finanziamento di dubbia legalità, alimentando una pericolosa spirale di corruttele, soprattutto tra gli anni ’70 e ‘80. Anche per questa ragione si il PSI, all’inizio degli anni ’90, si troverà più esposto agli scandali giudiziari, che ne segneranno il definitivo tramonto.


Svanito il pericolo di un allargamento del blocco comunista nell’Europa occidentale, gli Stati Uniti, ormai unica superpotenza, avevano perso l’interesse a “controllare” la politica interna dell’alleato.


La logica conseguenza del nuovo scenario internazionale fu il crollo dell’intera impalcatura sulla quale si era retto fino ad allora lo scenario partitico, fatto di taciti appoggi esterni, lottizzazioni dell’enorme apparato economico pubblico e rendite di posizione sul piano nazionale e locale.


L’incapacità di autoriforma dei partiti


Già vent’anni prima di mani pulite tutte queste anomalie erano evidenti. Il fenomeno della “partitocrazia”, ovvero dell’indiscriminata occupazione dello Stato attuata dai partiti, fu denunciato sia da Berlinguer, che per descriverla coniò l’espressione “questione morale”, sia, più coerentemente, dai radicali di Marco Pannella.


Conscio della crisi di rappresentanza dei partiti, anche il corpo sociale alla fine degli anni ottanta aveva manifestato (ad esempio con lo strumento del referendum) la volontà di cambiamento complessivo.


Nonostante le analisi e le discussioni che ne nacquero, nessun partito, tantomeno quello comunista di Berlinguer, ebbe la forza di iniziare una efficace opera di riforma interna. Non si andò oltre la retorica della moralizzazione, lasciando inalterati i meccanismi di fondo che regolavano la vita pubblica.


Fu un errore fatale, che condannò a morte i partiti di massa. In particolare il PSI, il quale di recente aveva assunto il ruolo di ago della bilancia nella politica italiana, fu insensibile alle istanze di autoriforma, perdendo l’occasione di “ripulirsi” prima che fosse troppo tardi.


Come schiacciati dalla storia, i socialisti italiani non sopravvissero né al cambiamento degli equilibri mondiali né tantomeno all’ondata di inchieste giudiziarie, nonostante sul piano ideologico e programmatico fossero gli unici in grado di contribuire al nuovo contesto storico post-guerra fredda della “seconda repubblica”.


Clima e risultati dell’inchiesta


Se sono innegabili le responsabilità della politica, colpevole di miopia, immobilismo e di aver perduto il rapporto diretto con la società, dall’altro lato sulla scia delle inchieste il potere giudiziario agì in modo discutibile, assecondando un clima da caccia alle streghe da parte dell’opinione pubblica.


I media e l’intellighenzia soffiarono sul fuoco, lanciando i magistrati in mezzo a una guerra faziosa e brutale. Questi ultimi poi, non resistettero alla tentazione di farsi incoronare padri della patria, moralizzatori figli del popolo, riformatori del sistema politico. Insomma cedettero al populismo dilagante perdendo sobrietà e freddezza, da sempre corollari di autonomia e imparzialità dell’apparato giudiziario.


Di fronte ai numerosi episodi di suicidi degli inquisiti o all’abuso spesso inutile della carcerazione preventiva, era forte la sensazione di trovarsi di fronte a una forma di giustizia sommaria.


Fatto ancora più grave, passò l’idea che i partiti nel loro insieme (e non tanto i loro componenti), fossero di per sé da eliminare per rifondare uno Stato meno corrotto. In questa maniera il loro intero patrimonio ideale veniva cancellato con un colpo di spugna.


Il risultato è stato una “seconda repubblica” dominata da partiti personali o con piattaforme programmatiche nebbiose, diversi nel nome ma di fatto accomunati dal qualunquismo. Se nel passato ai giochi di potere si affiancavano spesso forti spinte ideali (anche eccessive), nel corso dell’ultimo ventennio il potere è divenuto autoreferenziale e fine a se stesso.


Il legame malato con alcuni potentati economici, il permanente conflitto tra istituzioni e poteri dello Stato, il marciume hanno continuato ad esistere e anzi ad aggravarsi, tanto da relegare l’Italia a posizioni vergognosamente basse nelle classifiche internazionali sulla corruzione.


L’illusione che una inchiesta eclatante potesse sanare queste piaghe si è rivelata ingenua e fuorviante. Si è continuato a bivaccare sulle macerie della prima repubblica.
Ora che, dicono, anche la seconda è al capolinea, fare i conti schiettamente con quel passato è l’unico modo di costruire qualcosa di meglio.



 

 

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