.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

ARTE


N. 92 - Agosto 2015 (CXXIII)

Luciano Pavarotti

il Finale
di Claudia Antonella Pastorino

 

Ora che per l’Expo è stata aperta per la prima volta al pubblico la sua ultima casa alle porte di Modena – dove è anche morto il 6 settembre del 2007 – visitabile tutti i giorni dalle 10 alle 19 fino al 31 ottobre prossimo, spero si possa parlare finalmente di Luciano Pavarotti come artista lirico e basta. Non è facile, per chi lo ha conosciuto soltanto o soprattutto come il Big Luciano avvezzo alle lusinghe dello star system, del pop, dei bagni di folla, delle masse dei grandi parchi e degli stadi, vederlo sotto un’altra luce, quella per cui era nato e destinato: un cantante lirico, ovvero l’artista al quale è concesso d’ufficio accedere, a latere, al mondo della romanza da salotto e della canzone classica italiana e internazionale. Oltre, è meglio di no. Che fosse nato tenore e avesse onorato una carriera trentennale di tutto rispetto, vale a dire una veste in cui giustamente voleva essere ricordato prima della fine - forse memore di una storica nostalgia o di un tardivo rimorso - basterebbero a testimoniarlo la vasta discografia e i teatri dove si era esibito in ogni angolo del mondo con un repertorio piuttosto versatile (da Mozart a Bellini, Donizetti, Rossini, da Verdi a Puccini fino ai Veristi).

 

Negli Anni Settanta (di cui conservo gli LP delle “origini”, ’71-’79), era uno dei tenori più apprezzati e ammirati, cioè tra le voci emerse di recente in quel periodo, perché quasi tutti erano ancora in carriera e strafamosi, da Del Monaco a Corelli, a Bergonzi, a Di Stefano, e con una popolarità di certo superiore, più vicina al pubblico dei settimanali e della televisione da intrattenimento oltre che dei teatri. Lui invece, che aveva debuttato nel ’61 a Reggio Emilia in Bohème, era noto soltanto agli ambienti dell’opera e ai suoi frequentatori, piaceva non soltanto per la bellezza del timbro, per la voce fresca e naturale, non costruita come a volte accade, ma soprattutto per l’aderenza a un repertorio protoromantico e romantico piuttosto complesso, quello di Bellini, Donizetti, un certo Rossini, più alcuni titoli di Verdi e Puccini. Di Mozart l’Idomeneo, di Richard Strauss Il Cavaliere della Rosa. Tutto non poteva permettersi, nonostante l’estensione vocale e gli acuti alle stelle.

 

Non sempre una voce così luminosa, lunga, purissima da tenore lirico poteva garantire miracoli d’interpretazione, giochi di colore e intriganti pastosità, però la capacità di eseguire, di lanciare e tenere gli acuti anche estremi, di porgere la frase con una dizione scandita e perfetta, di rendere i personaggi con spontanea disinvoltura a volte un po’ sempliciotta e tuttavia riuscita nella loro natura più giocosa o malinconica (il Duca di Mantova in Rigoletto, Nemorino ne L’Elisir d’amore, Ernesto nel Don Pasquale, Rodolfo di Bohème e della Luisa Miller, Arturo de I Puritani o Elvino de La Sonnambula), restavano dei preziosismi, delle miniature che sapevano prendere, emozionare. Non bisogna dimenticare quanto si sia distinto, in quegli stessi anni in cui incideva per la Decca con il binomio fisso Sutherland-Bonynge, in titoli come Lucia di Lammermoor, La Favorita, La figlia del reggimento, L’Elisir d’amore, Don Pasquale, La Sonnambula, I Puritani, Guglielmo Tell, Luisa Miller, Rigoletto, Un ballo in maschera, Tosca, Bohème, Turandot, tanto per citarne alcune, ma bisogna giocoforza fermarsi a quell’epoca. Dopo, si sa, è iniziata un’altra carriera che onestamente non ci riguarda, come non ci riguardano le incursioni nel mondo del gossip in cui andò a cacciarsi prima e in seguito al secondo matrimonio fino al triste epilogo del 6 settembre 2007, con tutti gli avvicendamenti legati a testamenti, a polemiche, a salotti televisivi, a fiumi d’inchiostro, all’ennesima girandola di gossip e volgarità: vale a dire tutto ciò che sta e dovrebbe stare lontano milioni di anni luce dalla carriera di un artista.

 

Personalmente preferisco rimanere a quegli anni, gli anni da cantante lirico che sono poi quelli che mi sono sempre portata dentro, insieme a tanti ritagli di giornali, alle lettere della moglie-manager Adua Veroni che gli curava la carriera dopo avergliela costruita ben salda a forza di sacrifici (il marito lavorava prima come maestro elementare e assicuratore), due foto autografate e una busta col timbro di Modena scritta sul retro di suo pugno, con la semplicità che lo accompagnava, più un ricordo telefonico di quand’ero ragazza e neo-redattrice di una rivista culturale di Napoli. Gli avevo chiesto una chiacchierata, ma naturalmente, trattandosi già di un tenore molto famoso in Italia e nel mondo, non me ne diedi pensiero anche in considerazione del fatto che cantava tantissimo all’estero e tutti lo richiedevano per stipulare contratti già con diversi anni d’anticipo, per cui non ritenni realistico sperare di ottenere risposta. Una mattina di dicembre, intorno alle 11 del mattino, due settimane prima di Natale, squillò il telefono di casa (quando c’era solo il fisso), andò a rispondere un familiare che mi venne subito a chiamare paonazzo: “C’è Luciano Pavarotti”. E io, ancora attonita: “Chi?”, e corsi a rispondere un po’ titubante. Era proprio lui, chiamava da Modena, per l’esattezza dalla casa di Saliceta San Giuliano.

 

Fu una conversazione piacevole e perfino lunghetta, si meravigliò de’ verd’anni miei osservando che avevo la stessa età della primogenita Lorenza, si parlò d’impegni presenti e futuri, mi disse che non gli piaceva troppo il personaggio di Alfredo Germont in Traviata perché lo sentiva “troppo borghese”, si accennò all’ultimo libro fresco di uscita “io, Luciano Pavarotti” (“io” in minuscolo) curato per la Mondadori dal suo manager di allora, William Wright, per finire con un inno alla gioia di vivere rivolto ai giovani, convinto, mi disse, che le bellezze del creato – e specificò “la luna, il sole, le stelle” – andavano osservati con più attenzione ed emotiva partecipazione perché aiutavano a lenire le umane preoccupazioni della quotidianità. Alla notizia della sua morte, a distanza di tanti anni da quei ricordi, ho avuto la certezza che quella filosofia spicciola di vita, tipica del carattere e della persona, non lo abbia mai abbandonato.

 

Sulla scena lo ascoltai in poche opere, Tosca, Un ballo in maschera, L’Elisir d’amore, perché anche andare a teatro è scelta e casualità insieme, a seconda dei periodi, delle distanze e delle date che capitano; bei ricordi ma poco di coinvolgente, di entusiasmante: voce bellissima e nel contempo un po’ asettica per sua stessa natura, troppo uniforme e dunque anche, non di rado, piuttosto frigida, di limitata espressione e di scarsa capacità di abbandoni. Pavarotti poteva e sapeva solo cantare senza problemi perché gli riusciva la cosa più facile e naturale del mondo, la voce gli sgorgava diretta come quando si apre un rubinetto e si lascia scorrere l’acqua, ma l’unicità personalissima dell’interpretazione gli era sconosciuta e non solo quella, se si vogliono dire le cose per come stanno (e stavano) sulla linea dell’onesta e sia pur ardita analisi fatta da Paolo Isotta sul Corriere della Sera proprio nei giorni del lutto e, dunque, oggetto di qualche inevitabile polemica. Era il momento giusto? Probabilmente no, non lo era. Ha scritto Isotta falsità o farneticazioni? Di certo no, e chi s’intende almeno un poco di lirica e di voci non può non ammetterlo, come non si può non ammettere che anzi abbia scritto verità note e sacrosante.

 

Il tenore che è stato rimarrà nella storia, ma con molti limiti mai risolti. Questo poco o nulla toglierà al ricordo della carriera teatrale svolta, alla bellezza smeraldina della voce, alla sua fresca longevità, alla fortunata caratterizzazione dei personaggi più consoni al suo repertorio, alle testimonianze che ha lasciato in disco e in palcoscenico, al capitolo di storia che ha firmato a pieno titolo nella vita e nella memoria della gente comune in ogni angolo del mondo, non solo cioè nell’ambiente musicale di addetti e operatori. La gente lo ha amato per essersi saputo rendere popolare nell’approccio e nella scelta disinvolta di brani famosi, non solo melodie ma una schiera di pezzi pop e rock spesso eseguiti in duetto con i protagonisti di quell’altro mondo musicale, anche se a quel punto l’artista lirico non c’era più e gli estimatori competenti si sentivano ormai in evidente imbarazzo. Era palese a tutti che quella seconda carriera, dagli anni Novanta in poi o giù di lì, risultava obiettivamente più facile e molto più redditizia.

 

Il dopo, lo ripetiamo, ci riguarda talmente di sbieco che non sapremmo di cosa e su cosa parlare, ma vorremmo concludere con una considerazione – sia pure a distanza di otto anni – su un dettaglio di quei funerali disertati dalla lirica più rappresentativa che non ha saputo rendergli omaggio come meritava e come gli era dovuto. Luciano Pavarotti, prima di buttarsi anima e corpo nel divismo milionario del pop, del rock e dei friends, è stato un tenore di razza con una carriera artistica fatta in teatro, in disco, in tournée: far finta di non ricordarsene è stato e rimane il colpo più basso che gli si potesse infliggere.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.