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N. 18 - Giugno 2009 (XLIX)

storia di un’Italia perduta
Intervista a Lorenzo De Antiquis, l’ultimo cantastorie di Romagna

di Nunzia Manicardi

 

Io cantastorie lo sono diventato perché sono nato; dal momento che sono nato, dovevo diventare cantastorie. Se la mia mamma, poveretta, era già in piazza a fare quel lavoro, cosa dovevo fare? Anzi, cosa mi consentivano di fare?

 

Sono nato a Savignano sul Rubicone, in provincia di Forlì il 22 luglio 1909. La mia figlia più grande ha 53 anni; la più piccolina è nata nel ’38. Con mia moglie, la signora Emma Cresti, condivido queste giornate serene… o anche nuvolose. Io e lei viviamo a Forlì, in Piazza del Lavoro n. 8 dove, in una stanza dello stesso caseggiato, che non è mio, c’è anche una bella stanzina, che è la sede dell’Associazione Cantastorie, con molta polvere, perché non ho molto tempo di stare a fare la commessa: io sono un presidente che non dispone di una segretaria.

 

Nell’Associazione abbiamo iscritto tutti i cantastorie che ancora esistevano in Italia, salvo qualche assenteista… Fondammo questa Associazione il 14 settembre 1947: avevamo fatto la fiera di Foligno, io e un’altra persona che mi faceva da partner e che era di sesso diverso; c’era un’altra comitiva di cantastorie di Bologna con Piazza Marino e poi ce n’era un’altra: tre gruppi di cantastorie, quindi, in questa fiera di San Feliciano di Foligno, una fiera che casca in settembre.

 

La fiera è grossa e perciò tutti, più o meno, si son fatti la giornata. Alla fine della fiera i cantastorie, da bravi colleghi, sono andati a mangiare tutti nella stessa trattoria, contenti perché era anche una bella giornata e ognuno aveva preso i suoi soldi.

 

Il giorno dopo, segreto professionale, ognuno di noi aveva un itinerario: una buona parte di noi aveva l’abbonamento ferroviario. Le FF.SS. concedevano infatti a quell’epoca degli abbonamenti a serie, che si pagavano mensilmente. La nostra serie, la tredicesima, valida per quelli che erano nell’Italia Centrale, comprendeva Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Abruzzi e Lazio. Questo tipo di tessera, in vigore fino allo scoppio della guerra, era poi stata ripristinata dalle FF.SS. ed è andata avanti così ancora per alcuni anni, poi hanno incominciato a stringere, a stringere… Adesso però c’è l’abbonamento a chilometraggio che è simile, perché costa poco.

 

Io sapevo che, il giorno dopo la riunione di Foligno, c’era la fiera a Crocette di Castelfidardo e, da buon collega, non ho mica detto dove andavo perché volevo andarci da solo: una fieretta piccola piccola, vado là e me la faccio. Oh, non c’era ancora l’Associazione!

 

Agli altri io non ho chiesto dove andavano; quella sera tornai a dormire ad Ancona e la mattina dopo presi un treno per Castelfidardo. Scendo alla stazione e aspetto la corriera che portava a Crocette e che passava una volta al giorno: a perder quella si restava bloccati.

 

Quando scendo dal treno a Castelfidardo per aspettare questa corriera, mi vedo… circondato da cantastorie: c’erano tutti quelli che il giorno prima stavano a Foligno! Era inutile domandare dove andavano… Eravamo tutti lì; non c’era altro che prendere la corriera e andare a queste Crocette. Be’, la fiera… era una fierina, non una fiera, e quel giorno c’era anche poca gente, si vedevano poche bestie, anzi, le uniche bestie… eravamo noi!

 

Noi si andava a lavorare alle fiere del bestiame; ci mettevamo proprio vicino allo staggio, tra un somarino e una mucca, e i garzoni, non sapendo cosa fare, venivano lì. Per loro era un passatempo. Se poi avevano qualche soldo, compravano. Poi c’erano anche gli altri, i compratori, i venditori.

 

Allora io quel giorno dissi: “Siamo tutti qui… Lavoriamo assieme!”.

 

Qualcuno, non mi ricordo chi fu, ma forse fui proprio io, disse: “Qui ci siamo tutti, si potrebbe fare il sindacato”.. Nacque così l’Associazione.

 

Questa Associazione era stata precededuta da due esperienze simili, nel ’27 e nel ’30.

Quella del ’27 nacque a Bologna; si chiamava “Sindacato Cantori”. “Suonatori ambulanti” mi sembrava disonorevole; “Cantori” andava bene perché all’inizio, per fare numero per costituire questo primo nucleo, prendevamo tutti quelli che suonavano e cantavano e andavano in giro nelle piazze o nelle osterie. A quei tempi io avevo 18 o 19 anni.

 

La cosa interessò quelli della zona e, tra quelli di Modena, anche la Curadèina (la Corradina, n.d.C.), che era una campionessa. Questa Curadèina era una donna proprio di aspetto campagnolo, con un bel fazzoletto in testa: ballava, cantava, diceva anche delle parolette che a quell’epoca erano un pochino spinte. Lui, il marito, si chiamava Ferdinando Corradini e lei la chiamavano Curadèina proprio per questo; lei era la comica, la parlante, l’imbonitora; faceva tutto lei. E vendeva. Lei imboniva e il marito era formidabile a suonare la fisarmonica; metteva un piede su una sedia, era uno di quei suonatori… “Suona, gnurànt!”, e quando faceva una di quelle suonate, la “Migliavacca” per esempio, la gente andava in visibilio. E lei dopo, appena finito: “Eh, adesso fa il gallo, ma la mattina, quando arriva in piazza, non… mica, eh!”. La gente rideva. Ma nel ’47, per fortuna, la Corradina non c’era a Castelfidardo…

 

L’altro sindacato l’avevo fatto nel ’30, a Cremona. Si erano associati quelli della zona ma poi, proprio per ragioni di lavoro e di necessità, lasciai per un po’ di tempo l’Alta Italia: navigavo male.

 

Intrapresi un viaggio che durò alcuni anni, feci degli spettacoli ginnastici e da cantastorie, ma venendo verso la Toscana dove sapevo di trovare meno concorrenza. E dalla Toscana arrivammo fino a Grosseto, in Maremma; impiegammo due o tre anni: rientrai in Romagna, da un paese all’altro, con questo spettacolo che presupponeva una sosta di otto, dieci giorni.

 

Per fare quel lavoro avevamo comprato una carovana, anzi due: una per mia moglie, me e i ragazòli e una per il mio patrigno e per mia mamma. Era una di quelle piccole compagnie che giravano da un paese all’altro, quindi, per fare il percorso dalla Romagna in giù ci avevo impiegato un anno; tra venir giù e tornare indietro, giunse il 1939. C’era un odor di polvere… Dissi: “Torno in Romagna”. E infatti, in Romagna, accadde: era il 1940 e De Antiquis ha fatto anche l’esperienza guerresca, andando a sbarcare nel paese di Scanderbeg: l’Albania. Sono sbarcato in Albania e ho imparato a conoscere questo signore, questo eroe, che è il Garibaldi degli Albanesi. Io, Garibaldi che lo onoro, l’ho onorato anche nel ’31; nel ’31 era il Cinquantenario e c’erano in vendita i distintivi di Garibaldi. Mi ricordo che comprai un bel distintivo di Garibaldi, anche se allora c’era… Ma a me questo Garibaldi piaceva!

 

Quando noi italiani siamo andati in Albania non credo che tutti lo volessero, però noi credevamo che questi albanesi potessero essere dei nostri fratelli e di poter convivere molto fraternamente tra Italiani e Albanesi; almeno, in un primo tempo. Va bene che sono arrivati prima i granatieri, e certamente in casa degli altri certe presenze non sono gradite. C’era stata presentata la cosa come una bella iniziativa: “Torniamo ai tempi di Roma, rifacciamo l’Impero!”. E invece dell’Impero abbiamo fatto… l’“imparo”! Perché abbiamo imparato che gli altri non hanno piacere di avere degli estranei in casa propria. E così è avvenuto questo fatto.

 

La guerra è finita e io mi sono rimesso a fare il cantastorie. Ed ecco che si torna al 14 settembre 1947 e mi danno l’incarico di formare questa Associazione; io l’accetto con riserva, proprio per il fatto che ero stato da Scanderbeg, che c’ero andato con un reparto di romagnoli, e volontari. La mia posizione politica era tutt’altro che indicata per andare a prendere una posizione a nome di tutti. Allora, però, tra noi c’era un carissimo collega, che era di Rimini e aveva un “DOC”, una “denominazione d’origine controllata” molto diversa da quella di De Antiquis. Io e lui però – si chiamava Silvagni – eravamo amici fin da quando ci eravamo trovati in anni antecedenti la guerra, con gli abbonamenti ferroviari in tasca, in un treno; lui aveva formato un terzetto romagnolo per motivi politici, perché era perseguitato quale socialista. Ci eravamo trovati in treno: due cantastorie, uno perseguitato perché era socialista, l’altro invece era… sulla cresta dell’onda… Noi credevamo; credevamo nella nostra vita.

 

Lui mi spinse ad accettare. Fu per questo che, nonostante i dubbi iniziali, accettai di formare l’Associazione. Chi è nato nel 1909 come me, quando nel ’22 va su un certo tipo di organizzazione politica, la Marcia su Roma, è appena un ragazzino; quando c’è stata la guerra del ’15-’18, per noi era una cosa proprio col cuore, tant’è vero che dove sono andato io, in Albania, avevo dietro la fisarmonica; e non ero tutte le sere a suonare in qua e in là, anche con gli albanesi?

 

Ho fatto spettacoli misti persino dopo, quando eravamo nel Montenegro dove c’era tanta guerriglia: spettacoli di varietà, oltre a fare il mio servizio. Quindi, io non odiavo quella gente, anzi, le volevo bene. Un giorno, in una cittadina, mi trovavo disponibile, in libera uscita; tutti mi conoscevano: De Antiquis faceva le canzonette, le storielle, anche là. Entrai in un localetto: due o tre tavolini; vendevano soprattutto la rakìa. Là dentro c’erano quattro o cinque albanesi, in costume nazionale. Portano uno zucchetto bianco.

 

Entrano una decina di soldati italiani; io non ero nell’Esercito, ero della Milizia, però la fraternità… “Oh, De Antiquis!” Io ero in piedi, vicino al banco. Questi ragazzi, chi lo sa, erano un po’… Io ero con un reparto di romagnoli, perché noi eravamo tutti romagnoli; gli altri invece erano di diverse origini. Quegli albanesi erano seduti ai tavoli.

 

I soldati italiani pretendono di farli alzare per mettersi a sedere loro. Gli italiani parlano in italiano, ma gli altri non sono mica obbligati a capire l’italiano. Gli fanno cenno che si devono alzare, e loro non si alzano. Allora un italiano prende gli zucchetti agli albanesi e li sbatte per terra. Questo voleva dire seminare anche un’esplosione di rivolta. E io, per sedare questa brutta cosa, io, De Antiquis, sono andato a raccogliere i quattro o cinque berretti; non glieli ho messi in testa, ma li ho riconsegnati ai cinque infortunati e poi ho ordinato da bere per tutti, italiani e anche albanesi, che hanno accettato.

 

Gli italiani, che hanno capito di essersi comportati male, ed erano molto più giovani di noi (noi avevamo tutti più di trent’anni), se la sono squagliata e io sono rimasto solo, nel bar, con gli albanesi. Come sono usciti quelli là, mi hanno circondato, non volevano più farmi andar via perché ero diventato il loro capitano.

 

Questi sono gli albanesi, come li vedevo io. E questa è stata la mia parentesi bellica; dove sono andato, pur facendo il soldato, ho cercato di tenere l’allegria.

 

E poi è venuto appunto il fatto di riprendere a fare il cantastorie, dopo la guerra; venni ad Avezzano a fare il primo mercato con la storiella delle elezioni, perché il Fronte Popolare aveva vinto in Romagna, ma in tutta Italia comandava la Democrazia Cristiana e quindi andai subito a cantare contro la D.C., ma alla D.C. non gli andava bene. Mi sequestrarono la canzone, poi me la restituirono perché non c’era il nome della tipografia; nella fretta di andare alla vendita ero partito con le bozze.

 

Non butto mica tutto via di quello che ho vissuto io, nel Ventennio, sia ben chiaro; ma mi è sempre piaciuto raccontar quel che succede.

 

Quando ero sotto le armi, arrivato a Bari per venire a casa in licenza, scrissi una canzone che non era poi tanto conformista, perché diceva (sull’aria della “Cucaracha”, n.d.C.):

 

Dopo avere tanto atteso

i ventun dì di licenza

giunto a Bari mi hanno preso

e mi han detto in confidenza:

‘Contumacia devi fare

ché puoi essere ammalato,

ma se devi andar a sposare

ammalato non sei tu’.”.

 

Spiegazione: quando arrivavano i soldati, le truppe, dall’oltre Adriatico, siccome c’era il tifo petecchiale causato dai pidocchi, c’era un blocco, a Bari, che si chiamava “contumacia”, con una parola così, generica. Quindici giorni bisognava stare a Bari; non so quali accertamenti avrebbero fatto per evitare che si portasse l’infezione. Questo, tutto bene; ma c’era una deroga. Siccome uno, quando si trova al fronte, ceca tutte le strade per potersela squagliare, una grande quantità di combattenti, per venire via dal fronte, si sposava perfino, per avere la licenza di matrimonio. Quelli lì, per una direttiva dall’alto, non dovevano fare la contumacia, era garantito che erano sani, così quando andavano a casa infettavano la moglie. E quindi questo mi sembrava un paradosso. Noi stiamo qui quindici giorni e quello che deve andare subito a fare un contatto… quello invece no. Dopo la canzone diceva:

 

La contumacia, la contumacia,

rompimento di coglion,

la contumacia, la contumacia,

sempre brodo e minestron (perché bevevamo sempre brodo).

La contumacia, la contumacia,

è una cura original,

la contumacia, la contumacia,

per andare all’ospedal”.

 

La prima sera dopo averla scritta, avendo con me la fisarmonica, la canto in un gruppetto di soldati e uno mi dice: “Dài, fammela scrivere!”. Il giorno dopo, tutti i soldati (erano diecimila!) cantavano:

 

La contumacia, la contumacia,

rompimento di coglion…”.

Sòrbole, è andata a finire al Comando del Policlinico da un ufficiale, un colonnello, che va alla ricerca: “Chi l’ha scritta?”. Era sediziosa:

Se vuoi andare alle latrine,

ci vuol la prenotazione”.

 

C’erano, come ho detto, diecimila uomini; per andar là alle latrine era un lavoro, una coda, e io lo avevo descritto in questa seconda strofa. Il bello è che per fare il servizio, cioè per impedire di fare la piscia, ci avevano messo la Guardia di Finanza! Conclusione: ci feci la canzone.

 

Allora venne un sergente che chiese: “C’è qualcuno, qui, che sa suonare? C’è nessuno che ha la fisarmonica?”.

Be’, la fisarmonica ce l’avevo io…

“È tua?”

“Eh, perbacco, come no? È mia, ci mancherebbe altro che non sia mia!”

“Ah, è tua… Vieni al Comando!”

Io ho capito subito la faccenda. Vado al Comando. Il colonnello, severo:

“Come ti chiami? Di che reparto sei?” ecc.

Non so chi l’aveva rifatta a macchina, perché era un po’ storpiata, ma su un foglio c’era la canzone.

“Cos’è questa roba qua?”

“La guardi, sembra una poesia.”

“Ah, lo sai bene, te, che cos’è! La voglio sentir cantare.”

E io ho preso la palla al balzo: “La canto perché l’ho sentita cantare anch’io”.

Allora la cantavano tutti…

“Lasciamo stare. Tu ti chiami Lorenzo De Antiquis. Hai scritto… So tutto, quindi questa l’hai scritta tu.”

“Riconosco che l’ho scritta io.”

“E io la voglio sentir cantare.”

“Eh, no, signor colonnello, se Lei vuole sentirla cantare Lei fa come hanno fatto tutti gli altri. Lei questa sera mi invita alla mensa. Come autore della canzone io partecipo alla mensa e, alla fine, faccio tutto il mio programma” (perché poi avevo anche delle altre canzoni, c’erano anche quelle che andavano col “vento”. “Eh, eh, allora dico, ce la metto in mezzo e faccio un bel cocktail che può bere anche il colonnello.”)

 

Mi ha preso in parola, ma mentre ero là alla mensa (o l’hanno avvertito o che) è arrivato un ufficiale dei miei, che era un mio collaboratore; si pubblicava infatti anche un giornaletto che si intitolava “Il segone” perché dovevamo segare il bosco per il Corpo d’Armata, noi che eravamo là con intenzioni non segalignee, non certo per fare il segone, noi volontari… Questo avveniva là in Albania. Anche lì nel “Segone” c’erano alcune “boiate” che andavano mica tanto bene…

 

L’ufficiale era il tenente Pacchioni di Cesena, figlio di quel famoso giurista Giovanni Pacchioni che andò a patrocinare l’Italia quando l’Italia entrò in Etiopia e bisognava invece far apparire che erano gli Etiopi che volevano venir qua… le solite cose.

 

Questo Giovanni Pacchioni, a cui è dedicata una via anche a Cesena, era un grandissimo amico del Presidente Luigi Einaudi, era uno del vecchio Partito Liberale; e il figlio invece no, era nella parte emergente: scavezzacollo, era ufficiale nella Milizia e lì, quando ha visto che mi trovavo a discutere col colonnello ed ero un po’ inguaiato, ha detto: “Oh, allora, se stasera De Antiquis lo invitiamo alla mensa ci fa un programma coi fiocchi, ve lo garantisco: anzi, canto anch’io!”. Eh, sì, perché cantava anche lui… Ce n’era un’altra:

 

Oh, dolce Albania, maliarda sei tu;

 se posso andar via, non torno mai più”.

 

Allora è andata bene; sono andato alla mensa, ho mangiato con loro e poi abbiamo cantato. Non so se questa “Contumacia” l’hanno cantata anche alcuni degli ufficiali più giovani.

 

Eh, sì, anche dopo quel famoso 14 settembre in cui è stata fondata l’A.I.C.A., bene o male De Antiquis ha passato un’altra buona parte della sua vita a guadagnar da mangiare assieme ai colleghi, giorno per giorno. Io non avevo nessuna speranza di diventare milionario o miliardario; mi accontentavo quando vedevo che i soldi erano abbastanza per poter bilanciare, pagare l’abbonamento ferroviario, far vivere la famiglia.

 

A un certo momento è venuta un po’ di crisi per i cantastorie, quando si è cambiata la situazione; la gente veniva via dalle montagne e dalle campagne e i cantastorie che andavano a fare questo lavoro proprio in quelle zone, come me, cominciavano a trovare sempre meno gente, sempre meno gente… Dopo sono venute le musicassette, la radiolina, il cosiddetto mangianastri, il grammofono alla portata di tutti. Tutti potevano sentire suonare, cantare, molto meglio di quello che cantava un cantastorie. Andavo in piazza, non mi guardavano più…

 

È venuta l’eclissi. Io, che avevo sposato una ragazza del circo, che aveva sempre tenuto alta la sua bandiera assieme alla mia, saltimbanchi e cantastorie, dico: “Qua è molto meglio che mi metta al servizio di mia moglie”. E così siamo andati fuori per la seconda volta a fare questo spettacolo, anche nel dopoguerra. L’abbiamo fatto nella Romagna, senza più andare tanto lontano, con le figlie che facevano gli esercizi, e così siamo arrivati fino al ’54. Nel ’54, proprio a Piazza Montefeltro, a Forlì, ultimo spettacolo: mia moglie ha chiuso la sua attività. Mia moglie lavorava bene, era molto brava, lavorava agli anelli, al trapezio.

 

Per lo spettacolo, se andavamo in un locale o in piazza, ci voleva il biglietto. La rivendicazione del cantastorie fatta da De Antiquis è stata soprattutto per differenziare il suonatore ambulante, il suonatore girovago, dall’altro sistema, cioè dal cantastorie che andava in piazza a vendere; questa era una forma dignitosa. Lo scopo della nascita dell’A.I.C.A. era valorizzare il cantastorie e difenderlo in piazza contro il nemico pubblico n. 1, che erano i vigili urbani, che oggi invece sono i nostri alleati perché quando oggi facciamo gli spettacoli in piazza, finanziati dai Comuni, abbiamo a nostra disposizione i vigili. Dico: “Guarda com’è cambiato il mondo!”.

 

Gli spettacoli, io e mia moglie, abbiamo cominciato a farli non appena ci siamo messi assieme, perché uno spettacolo ginnastico e comico rendeva molto di più (lo faceva Ridolini, e infatti molte delle mie storielle scritte allora parlano di Ridolini); questo spettacolo si chiamava “postone”. Una serata poteva dare molto di più di uno spettacolo di un cantastorie isolato. C’era tutto: alla gente piaceva e tornavano anche le altre sere, perché sennò non tornavano più.

 

Il bello e il brutto… Quando nel 1928-’29 c’era la miseria più spaventevole che abbia mai attraversato l’Italia da quando sono vivo io, alla fiera di Santa Caterina, il 25 novembre, a Rubiera di Reggio Emilia, c’erano consociati tre circhi: il Circo Caroli, il Circo Pellegrini e il Circo Maggi.

 

Il Circo Maggi, poveretti, i poverini del circo romagnolo, erano padre, figlio e la mamma. I due uomini erano due grandi artistoni: facevano i salti mortali sui trampoli. Roba incredibile. Alla sera, quando andavamo a fare lo spettacolo, non si riconoscevano più, né il padre col figlio, né il figlio col padre; non si riconoscevano più perché erano ubriachi. A un certo momento scoppiavano delle risse furibonde, degli insulti, delle parolacce; insomma, era una miseria…

 

I a quel tempo facevo i “postoni” all’aperto con mia madre, il mio patrigno e mia moglie; eravamo dei signori. Noi non avevamo un circo, ma avevamo una fila di panche. Girando in bicicletta da un paese all’altro per cercar piazza, vedo quest’orribile ammasso di rottami e dico: “’orco d’un mondo, poveretti!” e questi, che avevano saputo che io avevo un “circoletto”, mi dicono: “Facciamo assieme, facciamo assieme!”.

“Guardate, per un giorno o due, magari anche tre, facciamo anche, ma…”

Alla fine trovai delle scuse.

 

Io facevo sempre anche il cantastorie; se lo spettacolo andava male, io la mattina scrivevo quello che era successo, perché la risorsa del cantastorie è sempre stata quella di scrivere i fatti che succedevano se “per fortuna” succedeva una disgrazia.

Io cantastorie lo sono diventato perché sono nato; dal momento che sono nato, dovevo diventare cantastorie. Se la mia mamma, poveretta, era già in piazza a fare quel lavoro, cosa dovevo fare? Anzi, cosa mi consentivano di fare?

 

Io sono nato da una mamma che, poveretta, per sua disgrazie, ha avuto la ventura, forse anche con la “esse” davanti, di diventare una cantastorie. Ma mia mamma era figlia di un veterinario, e lo zio di mia mamma era sindaco di Picinisco, vicino a Frosinone; l’altro zio di mia mamma era prete, parroco di Picinisco. L’altro fratello era perito agrario e le due zie, siccome a quei tempi le donne non dovevano né studiare né niente, erano monache laiche. Neanche il marito: in casa, a fare le casalinghe. Queste erano le famiglie patriarcali: i fratelli tutti diplomati o laureati, e loro due… lì.

 

Il veterinario, che doveva avere uno spirito garibaldino, era violinista e aveva insegnato ai figli a suonare, perché allora non c’era né radio né televisione, è chiaro, e si vede che il veterinario faceva dei concertini casalinghi. Da Picinisco c’era una corrente di emigrazione in Inghilterra: molti piciniscani andavano a Londra e qualcuno disse al veterinario: “Invece di star lì a curare i ciucciarelli, va’ in Inghilterra, dove ci sono i cavalli, le corse… farai i soldi”.

 

Lui ci ha creduto ed è partito da Picinisco con lo “sciarrabà”. Lo sciarrabà è un carrettone con due ruote altissime, senza balestre (almeno, così era quello su cui sono salito io quando sono andato a Picinisco), c’era da sbudellarsi. È partito con lo sciarrabà coperto da un telo, tirato dal cavallo, proprio tipo Far West, con tutta la famiglia: da un paese all’altro.

 

La devozione di Picinisco era la Madonna di Loreto, oltre alla Madonna del Canneto che festeggiano ogni anno. Sono passati da Loreto e mio nonno, molto devoto, ha fatto quella ginocchiata lì e, siccome a forza di strofinare e strofinare, da questi mattoni ne uscivano dei frammenti, delle piccole particelle, delle reliquie che i devoti raccoglievano e si portavano via, il veterinario ne ha raccolti alcuni e se li è portati via per devozione. Da un paese all’altro, fino in Francia: non ho informazioni esatte, queste cose me le raccontava la mia mamma.

 

Quando sono arrivati in Francia, i soldi cominciavano a calare e questo veterinario ha pensato di cominciare a fare qualche suonata; a Picinisco, infatti, gli avevano detto: “Guarda un po’, veterinario, che all’estero, sapendo suonare il violino, si sta bene!”. Mia mamma suonava già la chitarra, perché gliel’aveva insegnata il suo babbo, ad uso interno. Pensava, quindi, che facendo delle suonate avrebbe guadagnato tanti soldi e invece in Francia, ogni volta che si mettevano a suonare, arrivavano i gendarmi che li minacciavano di arresto e gli facevano delle multe.

 

E allora, un giorno che pioveva e c’era maltempo, dopo una lite con la Rosa (la moglie si chiamava Rosa Tempesta, e forse quel giorno c’era proprio una gran “tempesta”…) al veterinario è venuta una rabbia incontrollata: ha preso quei sassolini e li ha scaraventati ai quattro venti. I frammenti della Madonna di Loreto… È arrivato in Inghilterra; naturalmente ha venduto lo sciarrabà e i figli erano già grandi, poi è venuta evidentemente una lite tra marito e moglie. Non so neanche se nell’animo di mio nonno ci fosse qualche altro sentimento…

 

La vita era dura; dopo qualche anno, quando mia mamma che, poverina, era molto scarsa di studio, aveva già incominciato a parlare un po’ d’inglese, il veterinario è tornato in Italia con due figlie. Gli altri figli maschi sono voluti restare in Inghilterra, perché intanto si erano messi a commerciare, ma in piccolo, proprio in piccolo: addirittura si erano messi a fare il mestiere che dopo è venuto di moda qui, nel dopoguerra: i raccoglitori di rifiuti. Oggi c’è una grossissima ditta, a Londra, che si chiama “Lawrence De Antiquis”: un grossissimo tessile, roba grossa, con cui naturalmente non abbiamo relazioni. È solo il mio omonimo.

 

Il veterinario allora è tornato in Italia. La figliola più grande, dopo un po’, ha trovato il moroso, un figlio di capostazione di un paesetto del Lazio e si è sposata: si chiamava Loreta. Era tanta la devozione alla Madonna…

 

La ragazzona più giovane, che forse non era poi tanto “giovane” (avrà avuto ventuno, ventidue anni…), te la appioppa là, in casa, con il prete e le due monache, e lei doveva vivere lì. Voi capite: una donna di venutno, ventidue anni può essere felice in una situazione simile? Era in gabbia.

 

E avvengono i festeggiamenti della Madonna del Canneto, sulle pendici del Monte Meta, di là di Picinisco: un festone che non finisce mai, con musica, canti, fuochi artificiali… dura otto o ciocie giorni. A questo grande festeggiamento va a fare gli onori musicali la musica del corpo della Pubblica Sicurezza di allora.

 

In occasione dei festeggiamenti, allora e anche adesso, è in uso di alloggiare gli ospiti, i suonatori, nelle famiglie patrizie. Per combinazione, nella famiglia De Antiquis è andata una tromba, una prima tromba. Cosa succede? Adesso siamo in tempi di maggiore scorrevolezza, ma allora la scorrevolezza di legge non c’era, ma c’era la scorrevolezza… naturale. Detto in romagnolo: “J è scapé”, sono scappati via, il trombettiere e la ragazòla del veterinario. Scandalo!!

Conclusione: la ragazza è andata a finire a Savignano sul Rubicone, dov’era nato il trombettiere; il trombettiere è stato scacciato dalla forza di Pubblica Sicurezza; la ragazola è stata diseredata dalla famiglia e da tutto questo trambusto è nato De Antiquis, che porta il cognome della madre.

 

Mia mamma mi ha messo al mondo, ne sono riconoscente, e mi ha dato anche un bel cognome per quello che è la vita. Ho imparato a leggere e a scrivere guardando le insegne dei negozi dove andavamo a cantare e a suonare. Mia mamma, poveretta, ha dovuto cominciare a lavorare con mio babbo sulle piazze. Sapeva suonare la chitarra, mio babbo suonava la tromba ed è morto quando io avevo cinque anni.

 

A scuola non ci sono mai andato, però ho dato gli esami da adulto: ho la quinta elementare. Quell’anno lì, ero direttore di una compagnia di saltimbanchi; vedo un manifesto, a Siena: “Esame per adulti”.

 

Dico: “Ohi, qui è ora che vada a vedere di avere un pzzo di carta in mano”.

Ero un analfabeta, in via giuridica… Mi sono iscritto.

Non so se quell’insegnante fosse venuto a vedere qualche spettacolo, io facevo il Ridolini, facevo tutto, chiacchieravo più o meno come adesso. Credo però che quel professore sia venuto. Certo, se mi faceva fare le operazioni di matematica è chiaro che io, così come ero entrato, così uscivo fuori.

 

Mi ha fatto fare un’addizione, una sottrazione, cose semplici e poi… un po’ di teatro! “Va bene – mi dice – mi parli un po’ di Petrolini.” Eh, io ne cantavo anche, di alcune sue storielle un po’ licenziose, come “Se fossi più simpatico, sarei meno antipatico... ”.

È andato tutto bene. Mi hanno dato il diploma di quinta elementare. Fui molto contento. Poi, con quel diploma lì, strada facendo, è andato a finire che abbiamo passato l’inverno suonando da ballo e facendo qualche spettacolo; c’era ancora il mio patrigno: io con la fisarmonica, lui con il violino, mia mamma con la chitarra… Poveretta, si addormentava; ero solo io che dovevo tener su coi bassi, una fatica da cani.

 

Abbiamo fatto tutto l’inverno; si andava a fare qualche mercato, sempre da cantastorie, lei aveva ormai abbandonato il mestiere, io l’ho sempre continuato. Poi da lì ci siamo mossi e siamo rientrati, appunto, in Romagna, prima che scoppiasse la guerra. Tutta la vita passata così: da un giorno all’altro siamo arrivati qua, che a me sembra ancora di essere… Non mi sono neanche accorto di essere vecchio. Una vita ricca di sorprese… Ma, dico la verità, ho avuto momenti di grande difficoltà, pur avendo attraversato anche dei momenti di forte guadagno. Non dimentichiamo che io e mia moglie pensavamo anche ai nostri genitori. Molte volte, insieme a noi., c’erano anche i miei genitori o anche quelli di mia moglie. Lo spettacolo, in definitiva, lo facevamo io e mia mogli, e mangiavano anche tutti gli altri: non solo mangiavano, ma avevano la parte. Quando andavamo a fare uno spettacolo da soli ed era un incasso grosso, ci riempivamo delle foderette di soldi ma quando dopo, per aiutarli, li prendevamo dentro con noi, questi soldi non c’erano più.

 

Nel dopoguerra sono tornato lì, a Mugnano, vicino a Perugia, dove avevamo passato quell’inverno, a rivedere come stavano le cose. Quando ci sono andato la prima volta tutti quei giovani, naturalmente, erano nella Milizia come me e insieme eravamo andati a fare qualche servizio quando passava il Duce (c’era la ferrovia poco lontano…).

 

Dopo, quando sono ritornato nel dopoguerra, di quegli stessi giovani uno era segretario della Coop., uno era segretario del P.C.I… Ma non ci sono state mica delle discussioni! Sono stato accolto fraternamente come prima. Eravamo sempre dei viventi, ieri e anche dopo, senza rancori. E così.


 

 

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