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N. 72 - Dicembre 2013 (CIII)

LA VEROSIMIGLIANZA DEL MITO ARTURIANO
ARTù NELLA MEMORIA STORICA INGLESE

di Gabriele Passabì

 

La leggenda di Re Artù non appartiene soltanto al passato inglese ma al mondo occidentale. Eppure, la sua figura storica resta un mistero tanto elusivo quanto intangibile. Numerosi studi hanno cercato di penetrare la storicità di Artù cercando di chiarificare i punti più oscuri. Si tratta però di un compito assai arduo per il fatto che la figura di Artù non può essere semplificata ad una “appendice leggendaria” della memoria inglese.

 

Egli infatti appartiene alla Gran Bretagna e ai suoi abitanti, è l’incarnazione dell’ideale britannico. Ovviamente, l’individuazione di Artù come simbolo di un intero popolo è il risultato di un lungo processo che non si è determinato esclusivamente in termini politici o letterari. Artù infatti è il protagonista, in senso ampio, di un pervasivo sviluppo sociale e culturale che l’ha portato a essere considerato un membro fondativo del passato collettivo inglese.

 

Ma cosa significa veramente ciò? Come scrivere lo storico inglese Cubitt, il costruire un passato collettivo implica necessariamente la necessità di elaborare un preciso momento del passato che sia tanto importante da costituire una sorta di connessione privilegiata che lo metta in relazione con il presente e, soprattutto, con il futuro (Cubitt, 2007, p. 200). E’ esattamente per mezzo di questa connessione che Artù è divenuto una parte fondamentale del passato non solo letterario e “narrativo” della Gran Bretagna ma anche di quello sociale. Ha lasciato un segno talmente profondo nell’identità britannica da modellare anche la memoria storica di questo popolo.

 

L’importanza letteraria del fenomeno arturiano e il suo uso per fini politici non sono abbastanza probanti da spiegare efficacemente il suo complesso significato culturale e il suo ruolo cruciale nel costituire una memoria sociale condivisa e riconosciuta. Infatti, i passati collettivi sono costruzioni immaginative fluide, si tratta di esperienze spesso vaghe e “impressioniste”, più allusive che precisamente costruite nel loro impianto. Per questo motivo, rispondere alla domanda sul perché Artù è divenuto parte della memoria storica inglese è una questione che per trovare risposta ci spinge a scavare in profondità nel passato collettivo fino a toccare proprio le sue fondamenta e richiede di guardare al sovrano mitico come una chiave di interpretazione.

 

Per questo motivo Artù deve essere considerato un “eroe verosimile” nel senso semiotico del termine. Il “verosimile” è infatti un concetto semiotico intra-culturale che descrive l’atteggiamento adottato da una cultura verso i segni e i simboli appartenenti alla sua struttura. Si tratta di un concetto che serve da criterio di riferimento per analizzare i significati figurativi che si nascondono dietro le narrazioni.

 

Di conseguenza un resoconto verosimile , contestualizzato in una società, non implica solamente una corretta interpretazione della sua realtà socio-culturale, ma si tratta anche di un simulacro costruito con il preciso scopo di far apparire un determinato elemento come autentico ( Gremas, Courtès, 2007, p.380). Come direbbe Platone quindi, è proprio attraverso un “mito verosilime” (eikos muthos) che un ideale riconosciuto come credenza, diviene comprensibile per i membri di quella stessa società e li persuade della sua autenticità. Perciò, la figura di Artù non dovrebbe essere interpretata meramente come una figura letteraria, usata nel corso del tempo per scopi politici ma deve essere compresa soprattutto nel suo ruolo sociale, cioè come simbolo ultimo della costruzione della memoria e del passato dell’Inghilterra.

 

L’obiettivo di questo saggio è infatti quello di analizzare la figura di Artù, identificare le ragioni per le quali è divenuto fondamentale nel processo di costruzione della memoria storica inglese tra il XII e il XV secolo. Dal mitico eroe protagonista di una produzione letteraria quasi infinita, al ruolo politicizzato del sovrano giusto e saggio o del sacro re guardiano della reliquia più sacra della Cristianità, tutti questi aspetti sono infatti tratti dello stesso dipinto: anche se osservati separatamente, sono comunque parti un unico complesso che si palesa solo se percepito da una prospettiva culturale.

 

In questo modo è possibile quindi comprendere l’effettiva portata dell’influenza arturiana nella costruzione del passato collettivo e della memoria sociale del popolo inglese.

 

Artù ha sempre costituito una parte importante del folklore britannico ma è soprattutto attraverso la sua trasposizione letteraria che ha ottenuto la più ampia diffusione. La storia di re Artù fu narrata esattamente come i sovrani inglesi volevano sentirla, creando un legame nella successione dinastica tra il potere regio e la mitica civiltà di Troia. Nel corso del tempo anche la figura letteraria di Artù subì profondi cambiamenti dimostrando di essere sempre capace di adattarsi alle nuove richieste del contesto sociale.

 

Il racconto tradizionale della storia di Artù è stato scritto da Goffredo di Monmouth: la Historia Regum Britanniae. L’anno di pubblicazione di quest’opera (1136) ha rappresentato un vero e proprio spartiacque per gli studi arturiani. Si tratta infatti del primo compendio sistematizzato di tutte le storie che avevano come protagonista Artù, comprese quelle che provenivano dalla tradizione orale risalente ai bardi gallesi (Blake, Lloyd, 2005, p. 31). Ma chi era in realtà l’Artù della Historia? Le sue origini sono molto remote.

 

Il suo antenato più antico era Bruto, un veterano della guerra di Troia che aveva fondato, come un novello Enea, una colonia sul Tamigi che aveva chiamato Nova Troia, nome in seguito corrotto in Trinovantum. Questo insediamento costituì il nucleo primario del regno britannico che in seguito passò al figlio di Bruto Uther Pendragon il quale lasciò infine il titolo a suo figlio Artù. Quest’ultimo fu un re saggio e illuminato, pronto a proteggere la libertà del suo popolo fino alla morte.

 

Infatti, egli combatté numerose battaglie contro gli invasori Sassoni che vennero definitivamente sconfitti dopo la battaglia di Monte Badon. Artù realizzò inoltre una sorta di “vendetta culturale”. Egli infatti combattè anche contro i romani che erano stati sempre i governatori tirannici di Britannia sconfiggendo a Suassy l’armata di Massimiano. Sull’onda del successo dopo la battaglia propose anche una marcia contro Roma stessa, impresa che fu costretto ad interrompere a causa dell’usurpazione di Mordred.

 

Goffredo di Monmouth con il suo lavoro installò un ponte con un mondo antico e meraviglioso, impregnato dei valori eroici e imprese straordinarie ma che strutturalmente rifuggiva la precisione storica. Infatti, nel corso della Historia sono menzionate solo tre date che, come sostiene Barron, sembrano essere il risultato di una scelta intenzionale di inesattezza cronologica da parte dell’autore (Barron, 2001, p. 15).

 

L’obiettivo dell’opera infatti non è l’accuratezza storica. Goffredo voleva piuttosto scrivere un’opera che potesse incontrare i gusti e i favori della nobiltà del tempo. Egli infatti, pur non essendo direttamente associato in nessun modo con la corte, ne cercava il consenso e le grazie. Non è una coincidenza infatti la scelta di dedicare il suo lavoro a re Stefano e Roberto di Gloucester. Infatti l’opera di Goffredo provvedeva ai patroni normanni la legittimazione della conquista ponendola in una prospettiva di prefigurazione storica; Bruto viene dipinto come l’invasore portatore di una cultura superiore mentre i sassoni vengono presentati come nemici perfidi e brutali incapaci di governare.

 

Allo stesso tempo la Historia offriva alla componente autoctona del regno un riscatto della loro recente umiliazione (proprio la conquista). Per mezzo di una identificazione immaginata della loro identità con una tradizione più antica e più autorevole rispetto a quella tradizionale, gli anglosassoni hanno di fatto spostato l’asse della percezione identitaria dall’autocoscienza di popolo all’appartenenza alla terra britannica. E’ in quest’ultimo aspetto che si rende evidente il ruolo sociale assunto da re Artù per la società inglese del XII secolo. In questo modo infatti il Re divenne simbolo della redenzione degli inglesi che poterono smettere di pensare se stessi come prosecutori dei sassoni sconfitti e cominciarono a considerarsi gli eredi di un popolo fiero che trovava un punto di riferimento e una prova della loro identità nella figura di re Artù.

 

Con il Roman de Brut di Robert Wace si è osservata una riappropriazione letteraria della Historia (Barron, 2001, p. 18). Si trattava infatti di una più ricca traduzione dell’opera di Goffredo di Monmouth che ottenne un grande successo su entrambi i lati del Canale. Tuttavia, diversamente dalla Historia, l’opera di Robert Wace aveva un dichiarato intento encomiastico. L’autore infatti era molto vicino al mondo dell’aristocrazia: era un chierico normanno legato a Eleonora d’Aquitania e ad Enrico II.

 

Il poema, composto nel 1155, appena un anno dopo l’incoronazione di Enrico, era dedicato ad Eleonora che da poco era divenuta regina d’Inghilterra. Alla luce di ciò Artù divenne un prezioso anello della catena che legava i monarchi inglesi con la stirpe di Enea (nel poema infatti Bruto viene addirittura presentato come il nipote del mitico fondatore di Roma). Paradossalmente Wace stesso era scettico nei confronti delle leggende intorno ad Artù; egli non metteva tanto in dubbio l’esistenza del mitico sovrano, piuttosto suggeriva la possibilità di una esagerazione dei suoi successi da parte delle successive generazioni di bardi e cantastorie, soprattutto da parte di quelli che appartenevano alla tradizione francese (Barron, 2001, p. 20).

 

Eppure, contrariamente ai trovatori francesi, Wace dipinse Artù con i medesimi tratti che emergono nella Historia, cioè quelli di un re-guerriero dalle spiccate doti militari. Per questo motivo l’opera di Wace risulta essere una sorta di “trade union” tra due universi letterari, quello inglese e quello francese, ma soprattutto è una significativa testimonianza di come la figura di Artù, indipendentemente dagli intenti puramente encomiastici, fosse parte integrante del panorama culturale contemporaneo. In Artù dunque si rifletteva la figura dell’ “eroe verosimile” al quale il popolo inglese faceva risalire la sua memoria e la sua identità.

 

Un cambiamento nel pubblico fruitore della letteratura, è sempre specchio dei cambiamenti culturali che una società va attraversando. Artù può essere considerato in un certo senso una cartina al tornasole del clima culturale della società inglese, per questo motivo un cambiamento nella sua rappresentazione letteraria implica al tempo stesso un cambiamento significativo tra i lettori. Nel poema di Layamon (1190 circa) si è osservata infatti una maggiore enfatizzazione degli aspetti fantastici che circondavano il mito arturiano, come per esempio i numerosi riferimenti a incantesimi e armi magiche come la mitica spada Excalibur.

 

L’elemento magico è una caratteristica tipica delle leggende arturiane e, quindi, delle loro riproposizioni letterarie. Mentre però nelle opere di Goffredo e Wace questo aspetto era limitato a determinate circostanze delle quali Artù era protagonista, nel poema di Layamon l’atmosfera soprannaturale risulta prevalente. Artù stesso appare “fantastico”, possessore di poteri magici; inoltre viene attribuita maggiore importanza agli aspetti leggendari legati al mito arturiano come l’immortalità del sovrano leggendario e la profezia del suo ritorno per governare in pace tutta l’Inghilterra (Barron, 2001, p. 32).

 

In seguito l’uso politico del mito arturiano si è incrementato sempre di più soprattutto grazie alla connessione, già stabilita dalla Historia, tra Artù e il mondo classico. Si può notare infatti come si sia intensificato l’impulso che spingeva la società inglese a produrre opere di finzione e storie mitiche che connettevano la sua origine, con l’antichità classica, generando un’affiliazione tra l’Inghilterra e Troia. Da questo punto di vista Artù non viene enfatizzato nel suo ruolo di re-guerriero ma in quello di sovrano illuminato che incarna le virtù cavalleresche, il leader della Tavola Rotonda. Questa tendenza si era già cominciata a manifestare con il Brut di Wace ma raggiunse il suo culmine con i testi arturiani successive.

 

È il caso ad esempio di un altro Brut, opera in prosa composta intorno al XIII secolo, o dell’opera di Roberto di Gloucester (XVI secolo). Questi tardi racconti delle storie di re Artù non sono caratterizzati, come i precedenti, da una autentica sospensione dell’incredulità. Infatti si può evincere soltanto l’uso politico e, soprattutto, psicologico della figura di Artù come elemento di adesione e legittimazione: il Re infatti era divenuto la figura esemplare per la promozione della Corona. Queste opere si limitarono quindi a politicizzare ancora più marcatamente Artù, mancarono però di una partecipazione di credibilità autentica a differenza delle versioni precedenti; sembravano piuttosto il risultato di una adesione manieristica a tecniche rappresentative ormai svuotate del loro significato sociale ma che comunque raggiungevano il consenso politico.

 

Artù divenne decisivo nella formazione della memoria storica inglese soprattutto per l’uso politico che ne hanno fatto i sovrani inglesi. La convinzione dei re di trovare legittimazione per la loro sovranità ha reso Artù un costante strumento di propaganda politica. L’arturianismo infatti, se così si può dire, era divenuta una caratteristica importante della rete di legami feudali e dinastici non soltanto in Inghilterra, ma si stendeva sull’Europa nord-occidentale coprendo tutta la Cristianità (Vale, 2001, p. 84). L’impiego della figura di Artù da parte della Corona ne arricchì marcatamente il mito di significati identitari poiché perfettamente si adattava alle necessità di legittimazione dell’autorità regia. Per questo motivo il mito arturiano deve essere interpretato come uno strumento di legittimazione “creduto” sia dai re che dai loro sudditi.

 

Uno dei sovrani inglesi che mostrò grande ammirazione verso il mito arturiano fu Enrico II. Egli era molto sensibile alla figura di Artù, fu infatti tra i principali promotori della ricerca della tomba del sovrano identificata infine a Glastonbury nel Somerset. Il momento principale della storicizzazione e, soprattutto, della anglicizzazione del mito arturiano fu l’esumazione dei resti presunti dei corpi di Artù e Ginevra presso l’abbazia di Glastonbury nel 1191. Questa strabiliante scoperta ebbe un forte significato sociale oltre che politico; significava infatti assegnare un’identità inglese ad Artù il quale era sempre stato reclamato dai gallesi con riferimento ai poemi dei loro bardi. La prova che legava Glastonbury ad Artù era la Vita Gildae di Caradog di Llancarvan. Secondo quest’opera infatti la città di Glastonbury può essere associata nelle sue radici etimologiche sia alla sovrannaturale Isola di Vetro, sia all’Isola delle Mele dove, anche secondo la Goffredo di Monmouth, Artù si era recato per guarire le sue ferite (Carley, 2001, p. 48).

 

Questa notorietà però è il risultato di una precisa operazione di costruzione d’immagine. L’abbazia era stata quasi distrutta da un incendio nel 1181 e in seguito a quel drammatico evento aveva attraversato un periodo di crisi finanziaria, perciò i monaci cercarono di ricostruire il prestigio del loro capitolo associandolo alle leggende arturiane viste le assonanze etimologiche tra Glastonbury e alcuni siti narrati nei testi. E’ proprio in conseguenza di tale precisa operazione che Enrico II concesse i fondi necessari alla costruzione di una nuova abbazia e promosse gli scavi della tomba.

 

Al tempo stesso c’era anche un’altra ragione che destava l’interesse del sovrano inglese. Enrico II per lungo tempo era stato impegnato nel sedare le rivolte gallesi che terminarono definitivamente nel 1165 quando finalmente gli indomiti gallesi lo riconobbero come legittimo sovrano. Per questo motivo volle confermare il suo diritto alla corona inglese dimostrando ai gallesi così come a tutti coloro che dubitavano della legittimità del suo potere che il mitico re Artù era morto ed era stato sepolto in territorio inglese.

 

Enrico quindi aveva uno scopo preciso in mente: quello di fornire stabilità e autorità alla nuova dinastia Angioina, costantemente minacciata dai capetingi francesi oltre il Canale. Egli combinò addirittura il matrimonio tra suo figlio Goffredo e la figlia del duca di Britannia, territorio che, secondo la tradizione, era stato governato proprio da Artù (Blake, Lloyd, 2005, p. 195). Il leggendario sovrano quindi appariva perfetto per tali necessità di legittimazione, era una figura che ogni britanno era in grado di riconoscere.

 

Da una parte Artù concedeva quindi autorità indiretta al sovrano, dall’altra rafforzava la percezione di identità del popolo inglese in relazione alla ricezione di quel passato mitico che lo stesso Artù sintetizzava.

 

Eppure, il sovrano che più di tutti cercò di amplificare la mitologia arturiana fu Edoardo I. La tradizionale visione storiografica del rapporto tra Edoardo e Artù ha evidenziato esclusivamente come tale relazione fosse dettata da un certo opportunismo politico. Questo è certamente vero, Edoardo era il re che sconfisse i gallesi nel 1277 costringendo re Llywelyn a prestargli omaggio annettendo infine il Galles nel 1284 a seguito dello Statuto di Rhuddlan. Inoltre era stato protagonista e principale promotore di una lunga serie di campagne contro il regno di Scozia. Per questo motivo Edoardo sfruttò Artù come mezzo di propaganda per costruire la sua autorità e giustificare il suo dominio su Galles e Scozia. Scrisse una lettera a Bonifacio VIII con la quale reclamava i suoi diritti sul reame scozzese basandosi sulla sua prestigiosa genealogia che, non a caso, aveva fatto iniziare dal troiano Bruto e, di conseguenza, includeva Artù, re dei britanni.

 

Oltre i vantaggi politici, nell’azione di Edoardo era presente anche una genuina appropriazione della mitologia arturiana con la consapevolezza che questa era parte integrante del passato collettivo inglese. Edoardo associava esplicitamente se stesso con Artù, dichiarandosi suo diretto successore in modo tale da perpetuarne il mito. Infatti promosse non solo un secondo scavo a Glastonbury ma organizzò anche numerose assemblee cavalleresche che imitavano la Tavola Rotonda durante le quali ai partecipanti venivano attribuiti nomi ispirati ai cicli arturiani; un esempio è proprio quella che Edoardo tenne a Nevyn nel 1284 (Loomis, 1953, p. 117).

 

Il leggendario re quindi veniva percepito come una figura “plausibile” che non soltanto rappresentava una pietra angolare della costruzione identitaria inglese ma che permetteva anche una identificazione psicologica ai re inglesi stessi.

 

Nonostante l’entusiasmo per Artù non fosse sempre costante tra i successivi re inglesi, la sua figura restò sempre un modello di comportamento regale. Per esempio Edoardo III propose una rifondazione della Tavola Rotonda arturiana nel 1344 e fu un appassionato promotore di tornei che erano opportunità per fare sfoggio di virtù cavalleresche.

 

Il re in persona amava ostentare tali doti, giunse addirittura a partecipare in incognito al torneo che si tenne a Dunstable nel 1334 (Vale, 2001, p. 19). Inoltre si fece anche partono dell’abbazia di Glastonbury visitandola con sua moglie nel 1331. Tutte queste attività quindi non fecero altro che amplificare sensibilmente la dimensione simbolica del mito arturiano e il suo ruolo di punto di riferimento culturale per il popolo inglese.

 

 Però il significato attribuito ad Artù era cambiato. Ora il mitico sovrano rappresentava il principio guida di valori eroici, la sintesi delle virtù cavalleresche eera celebrato come il leader illuminato di una corte di leali cavalieri. Era venuto meno dunque il riflesso del re-guerriero descritto nella Historia e nel Brut di Wace per far posto a quello del sovrano che presiedeva la Tavola Rotonda come raccontavano i romanzi francesi.

 

Questa prospettiva del mito arturiano caratterizzò anche il tardo XIV secolo che lo vedeva ormai come un elemento funzionale alla finzione allegorica che veniva ancora utilizzata per reclamare il diritto al trono. Enrico IV ad esempio sfruttò ancora una volta la leggenda arturiana per sostenere il suo diritto alla corona. Successivamente, alla fine della Guerra delle Rose, Enrico VII diede” a suo figlio il nome Arthur non solo per seppellire definitivamente le rivalità tra York e Lancaster ma anche per promettere simbolicamente all’Inghilterra un nuovo regno di pace “arturiana”.

 

L’attenzione dei re inglesi verso Artù è particolarmente significativa per comprendere l’influenza del mito arturiano nella società inglese. Egli infatti ha rappresentato un mito che non è stato immediatamente parte della cultura inglese ma che è stato in seguito anglicizzato per venire incontro alle necessità di costruzione identitaria e legittimazione di un popolo.

 

È possibile quindi notare un graduale ma costante shift nella percezione del mito arturiano: inizialmente prevalse la figura del re-guerriero che emancipò l’Inghilterra e sconfisse i suoi nemici, in seguito Artù venne definito come un sovrano illuminato dagli straordinari poteri e dalle incrollabili virtù, il primum inter pares in un gruppo di leali cavalieri. Questo è avvenuto a causa dei cambiamenti degli scopi politici e delle necessità che la società inglese andava sviluppando.

 

Al tempo stesso è rimasto sostanzialmente invariato l’approccio della società inglese verso il suo passato collettivo. Si è trattato infatti di una costruzione creativa che partendo da un elemento leggendario dai contorni vaghi, è giunto ad elaborarlo in relazione alle necessità della società stessa seguendo lo schema della “creazione verosimile”.

 

Artù non era famoso solo tra i re, i nobili e i cavalieri che si ispirarono a lui nella elaborazione di un codice cavalleresco. Egli era parte della conoscenza di tutti gli strati della società inglese. Proprio per questa trasversalità il mitico sovrano venne inglobato anche nella dimensione sacra come se fosse una reliquia naturalmente appartenente alla Chiesa. Di conseguenza si accrebbe anche l’autorevolezza e il fascino che emanava su una società, come quella dell’Inghilterra medievale, così permeata dalla religione.

 

Alcuni elementi della chiesa inglese si appropriarono della mitologia arturiana per assecondare le loro necessità. Tra i più chiari esempi è proprio quello rappresentato dall’abbazia di Glastonbury. Come abbiamo detto precedentemente, un incendio distrusse l’abbazia e i costi della ricostruzione erano veramente proibitivi.

 

Di solito le comunità monastiche rispondevano ai periodi di crisi finanziaria con l’applicazione di operazioni propagandistiche che potessero attrarre pellegrini, soprattutto attraverso la redazione di opere scritte. I governatori normanni infatti incentivavano questi testi che di solito avevano il compito di testimoniare l’autorevolezza e la storia del monastero costruendone opportunamente il passato (Gransden, 1976, p. 339).

 

Ciò di cui i monaci di Glastonbury avevano bisogno dopo l’incendio era infatti un patrono eccezionale, una figura che potesse esemplificare l’identità dell’abbazia e al tempo stesso attrarre pellegrini. I modelli letterari di riferimento erano da un lato l’agiografia e dall’altro la letteratura romanza.

 

Sfortunatamente, i monaci di Glastonbury non eccellevano per il loro talento letterario per cui furono costretti ad abbandonare il tentativo di scrivere agiografie e si rivolsero ad opere già scritte per sopperire a questa loro mancanza. Tra gli altri, anche William di Malmesbury venne usato come un vero e proprio propagandista per la ricostruzione del passato di Glastonbury (Gransden, 1976, p. 340).

 

Non trovando figure di santi che potessero legittimamente amplificare l’autorità dell’abbazia, i monaci si rivolsero verso la letteratura romanza e trovarono nel mito arturiano esattamente quello che cercavano. Secondo Gransden infatti, l’esumazione del 1191 fu totalmente fittizia: i monaci seppellirono deliberatamente due scheletri e inscenarono la scoperta che, in effetti, apparve troppo “opportuna”, viste le difficoltà finanziarie dell’abbazia.

 

Ciononostante, a prescindere dalla genuinità del ritrovamento, è interessante chiedersi perché scelsero Artù come patrono del monastero. Essenzialmente i monaci di Glastonbury intendevano cristianizzare il mito arturiano. Questo evento illustra ancora una volta l’autorità della figura di Artù nella società inglese: era così forte e radicata nel folklore della comunità che divenne persino uno strumento di auto-identificazione per una istituzione religiosa. Infatti è partendo da questa assunzione che, nella cornice di questo passato ristrutturato, si venne a creare un collegamento tra Artù e la più sacra delle reliquie cristiane: il santo Graal (Logorio, 1971, pp. 209-231).

 

In questo modo due figure dallo straordinario potere evocativo vennero unite insieme: re Artù e Giuseppe d’Arimatea, il tradizionale guardiano della reliquia che custodiva il sangue di Cristo. I monaci di Glastonbury affermarono che San Giuseppe era stato il fondatore dell’abbazia e questo quindi lo poneva come una sorta di predecessore di Artù (Logorio, 1971, p. 231).

 

San Giuseppe divenne quindi il simbolo del cristianesimo inglese e l’abbazia di Glastonbury ottenne un tale prestigio che l’abate Chinnack sostenne la necessità di affermare il primato del santo sia tra gli inglesi al sinodo nazionale, sia presso sedi internazionali come il concilio di Pisa (1409) e quello di Siena (1424).

 

Si realizzò quindi una definitiva sacralizzazione del mito arturiano che, nonostante fosse stata avanzata per ragioni molto contingenti, lasciò un segno profondo nella mentalità comune. Per mezzo dei processi di costruzione della leggenda si venne a creare un’associazione di idee tra il Re e il Santo: entrambi assunsero significato come simboli della fede cristiana in Inghilterra e divennero profondamente influenti per l’auto-identificazione dei caratteri fondamentali della società.

 

Il passato collettivo di una società è un mondo nel quale i confini tra verità storica e leggenda sono molto vaghi. Per questo motivo, i membri della comunità vi si accostano come ad una dimensione flessibile a molteplici esigenze, sia quelle pragmatiche che quelle più astratte e complesse come la comprensione del presente e il controllo del futuro.

 

Come scrive Cubitt, la consapevolezza del passato è comunicata di generazione in generazione non solo attraverso la trasmissione di particolari testi o immagini, ma anche attraverso la ripetizione e la riproduzione di particolari modi di organizzare informazioni (Cubitt, 2007, p. 205). A

 

rtù è stato uno dei dati sociali più importanti, ha segnato profondamente il passato collettivo britannico. Infatti è divenuto parte della memoria storica inglese non solo perché è stato il protagonista di un fenomeno letterario che si diffuse anche oltre le isole britanniche, ma anche perché finì per essere il punto di riferimento di ogni pretesa al trono da parte dei sovrani inglesi. Inoltre, il mitico re fu soggetto ad una cristianizzazione e venne quindi assimilato dalla Chiesa e reso accetto ancora più entusiasticamente dai membri della società inglese.

 

Fuori da un’ottica evenemenziale tutti questi processi ebbero luogo simultaneamente, erano legati l’uno all’altro da un rapporto di consequenzialità. Allo stesso tempo essi contribuirono alla costruzione di una identità di popolo poiché influirono, più o meno direttamente, sulle principali attività della gestione comunitaria (sovranità, Chiesa, cultura, politica estera ecc.).

 

Alla luce di ciò è necessario interpretare Artù come “eroe verosimile” per comprenderne la profondità d’influenza. Può essere considerato infatti il prodotto figurativo usato più o meno consapevolmente da una società per spiegare se stessa.

 

Il mito arturiano infatti si è adattato ai cambiamenti culturali della comunità, costruendo progressivamente una parte significativa della memoria collettiva. In conclusione rappresenta la proiezione di una “verità plausibile” che era percepita come vera, per questo motivo non veramente importante se fosse stato veramente Storia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Barron, W. R. J., “Dynastic Chronicles, in W. R. J. Barron, The Arthur of the English, (Cardiff, 2001), pp. 11-46

Blake, S., Lloyd, S., Alla scoperta del mistero di Re Artù, (Roma, 2005)

Cubitt, G., History and Memory, (Manchester, 2007)

Gransden, A., “The growth of Glastonbury traditions and legends in Twelfth century”, Journal of Ecclesiatical History 27 (1976), pp. 337-358

Gremas, A., Courtès, J., Semiotica: dizionario ragionato della teoria del linguaggio, (Milano, 2007)

Logorio, V., “The evolving legend of St. Joseph of Glastonbury, Speculum 46 (1971), 209-231

Loomis, R. S., “Edward I: Arthurian Enthusiast”, Speculum 28 (1953), 114-127

Vale, J., “Arthur in English Society”, in W. R. J. Barron, The Arthur of the English, (Cardiff, 2001) pp. 185-196.



 

 

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