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N. 54 - Giugno 2012 (LXXXV)

lo stato unitario e la prima legge sul lavoro dei fanciulli
letteratura della crisi progetti politici

di Alberto Conte

 

Colpisce molto – benché le condizioni del lavoro di donne e fanciulli fossero ovunque, nella penisola, assai dolorose – rilevare che la Brianza in particolare (“Il giardino della Lombardia”, come amenamente veniva descritta) colpisse studiosi e viaggiatori, per l’immagine profondamente avvilente con la quale si presentava, ai loro occhi, il degrado psico-fisico degli addetti all’industria manifatturiera, ovvero di quegli stessi soggetti che ne costituivano l’autentica spina dorsale.


L’assunzione di doverose responsabilità da parte della politica, tuttavia, per quella che era considerata ormai una questione nazionale, si scontrava frontalmente non solo con la difesa di interessi economici molto forti; ma anche con la mancanza di un’ “opinione pubblica”, la quale si facesse in qualche modo portavoce di un’umanità coatta e senza diritti.


Sono molto interessanti, in tale prospettiva, le pagine che dedicò all’argomento Alberto Errera, il quale, nel lamentare l’assenza di una coscienza critica da parte della cosiddetta “buona società” – pure altrove impegnata in attività filantropiche e non certo aliena ad interessarsi agli sviluppi della produzione e della tecnologia – mostrava finemente lo scarso grado di civismo e di solidarietà diffusi nel Paese. Infatti: “ L’indifferenza del pubblico è giunta a tale che, prima ancora di udire noi espositori di fatti e di numeri, si reputano fole o romanzi le descrizioni di opifici male aereati, di 18 ore di lavoro, di malattie e di morti precoci in parecchie delle nostre piccole città”.


Va anche osservato che Errera non mancava di lanciare un accorato allarme sociale per le conseguenze che avrebbe fatalmente prodotto un inveterato impiego dei fanciulli nel lavoro di fabbrica: “ Cresce in mezzo a noi questa ragazzaglia turbolenta e minacciosa: questi bambini pallidi, sparuti, scarmigliati, hanno già il livore nell’animo, queste fanciulle alle quali è fatto perdere il pudore prima ancora che possano commettere la colpa, frammischiate di giorno e di notte cogli adulti, testimoni e complici di impudicizia, si vendicano poi di una mercede che è limosina e di un lavoro che è tortura, e sfogano almeno coi piaceri del senso, quel bisogno di vita gaja che è richiesta dal sesso, dall’età”.


Parole, quelle che abbiamo riportato, tutt’altro che liquidabili come espressioni di consuete preoccupazioni moralistiche. Anzi, si coglie qui, più che altrove, l’evocazione di potenziali conflitti sociali ed il dolore procurato dal silenzio e dall’omertà complici dell’intera società.


Chiaro è quindi anche l’intento pedagogico delle sue pagine: “La nostra monografia vorrebbe appunto provocare questo nuovo indirizzo alla opinione del pubblico, e far consapevoli tutti di ciò che avviene fuori dell’uscio del palazzo che abitano, della villa, dell’albergo, nei quali si deliziano”.


L’esempio francese, con la costituzione della società per la protezione del lavoro dei fanciulli nelle manifatture, soccorreva quindi, secondo l’estensore di queste pagine, all’esigenza di mettere in atto un’efficace spinta propulsiva, nei confronti del legislatore e del governo, finalmente attenti a varare buone leggi ed a farle osservare.


Occorre sottolineare che il dibattito politico in ordine all’adozione della legge fu molto intenso e comprensibilmente non privo di forti contrasti. Ma soprattutto che attraversò parecchi anni, troppi anni, come vedremo.


Va del resto premesso che, con la nascita dello stato unitario, le uniche norme vigenti erano costituite: dal divieto di impiegare fanciulli di età inferiore a dieci anni in lavori minerari sotterranei ( R.D. 23 dicembre 1865) – ereditata dalla legislazione piemontese – e da una legge del 1873 che proibiva l’impiego dei fanciulli nelle professioni girovaghe. Il ritardo rispetto ai paesi europei più sviluppati – e non solo a quelli – era enorme. Completamente obliterate erano le disposizioni varate durante il corso del regno Lombardo- Veneto.


A rendere particolarmente pesante la realtà italiana era la seguente constatazione: “ Un fatto incontestabile, e che al solo enunciarlo desterà penosa impressione, è risultato dall’inchiesta: l’orario delle donne e dei fanciulli è quasi generalmente uguale a quello degli operai adulti”. E’ qual è la media tale orario? Undici o dodici ore! Nei cotonifici e setifici di Bergamo e Como poi lo si spinge in estate fino a 15 ore!”


L’inchiesta cui fa riferimento Ravà è quella promossa dal ministero dell’industria, nel febbraio 1877, presso le prefetture comprendenti le realtà industriali più importanti del Regno.


Mentre la descrizione dell’ambiente umano incontrato dal dottor Pini durante i suoi giri per la Brianza pare evocare il Cesare Cantù più contrito e pessimista: “[…] ed invano cercai un volto che mi ricordasse la tradizionale bellezza delle donne brianzuole, la quale è divenuta ormai un ricordo registrato solo nei carmi e nelle istorie”.


Ma torniamo all’iter della legge. In un’interessante relazione che precedeva di poco la sua approvazione si rappresentavano, forse anche con una certa interessata comprensione (ma si trattava di una tesi assai diffusa), le cause del freno esercitato dal mondo manifatturiero rispetto all’adozione di norme protettive del lavoro dei fanciulli: “ […] Non è già che a questi il privato tornaconto facesse dimenticare i più elevati sentimenti ai quali s’ispira una savia legislazione sul lavoro dell’infanzia; nei più era il timore di una indebita ingerenza dello Stato, con l’azione molesta dei suoi agenti nelle private aziende, al momento in cui la produzione industriale, appena nascente, si dibatteva fra ostacoli di ogni sorta; […].

 

Se consideriamo, in effetti, gli esiti prodotti, ai tempi del Lombardo Veneto, dall’invasiva azione messa in campo dal governo per contrastare il fenomeno del contrabbando di tessuti, che produceva non pochi incagli al regolare andamento delle aziende, per la generazione di imprenditori lombardi formatisi in quegli anni si poteva realmente paventare il rischio di doversi misurare con sensibili aggravi burocratici e fiscali. Riesce tuttavia più difficile concordare con le attitudine umanitarie, ed in fondo liberali, che l’estensore dell’articolo attribuisce con scioltezza al variegato panorama dei manifattori nazionali, in considerazione della diffusa e manifesta inattenzione al dramma dei lavoro di fanciulli e donne che si era consumato nell’arco dell’ultimo mezzo secolo.


Nello stesso articolo, a proposito delle resistenze frapposte dalla “società civile” all’introduzione di una legislazione, con efficacia si osservava: “Per molti era il timore di recar danno alla famiglia operaia, che trae dal lavoro dei fanciulli un complemento, spesso indispensabile, dell’insufficiente salario dei genitori”.

 
D’altra parte, anche in altri contributi coevi emergeva il forte rilievo che le obiezioni del mondo industriale esercitavano nei confronti del legislatore – ma anche i timori legati al paventato impoverimento delle famiglie operaie, laddove fosse diminuita “la loro libertà di lavoro”.


Ché, la scarsa ricettività da parte di una fetta consistente di opinione pubblica, potesse comunque costituire una giustificazione per l’inerzia del legislatore è certamente insostenibile. Basterà ricordare le parole del relatore dell’Ufficio Centrale del Senato, Manfrin, il quale nello scrivere ai senatori in vista dell’auspicata approvazione del progetto di legge, lamentava: “Si può pertanto con ragione asserire che ben pochi altri disegni di legge ebbero, per uno od altro motivo, più sventurata sorte […]”.


D’altra parte, il quasi isolamento internazionale del Paese rispetto all’adozione di una legge in materia (che in Europa era in compagnia delle sole Grecia e Turchia) non deve far dimenticare il difficile retroterra sociale e culturale di molte parti della penisola ed il fatto che nel solo Lombardo Veneto, benché con i gravi limiti noti, vigesse almeno un impianto normativo sul lavoro dei fanciulli. Né va, infine, sottovalutato il rigore del dibattito parlamentare e l’articolato dispiegarsi nel Paese di un’azione tesa a raccogliere ed analizzare pareri medici, scientifici ed ad elaborare statistiche riferite alle sue diverse realtà industriali.


Si pensi, per esempio, all’importante “banca dati” fornita dal censimento del 1881, che costituì un imprescindibile strumento di analisi della popolazione industriale. Vale la pena, a questo proposito, riassumerne brevemente alcune cifre: gli addetti complessivamente erano pari a 3.378.002, dei quali poco meno di 300.000 erano fanciulli di età inferiore ai quattordici anni (con una significativa incidenza di minori di anni nove). Cifre che spinsero il nuovo ministro proponente, Berti, ad alzare a 10 anni (rispetto ai 9 di una precedente proposta) l’età minima per l’accesso al lavoro (ci torneremo).


Ma il dibattito parlamentare inferiva anche su altri aspetti, a cominciare da un tema di ordine costituzionale, ovvero il fondamento giuridico dell’intervento statale nella regolamentazione del lavoro dei fanciulli; ora, non solo sotto il profilo già accennato che prefigurava la contrapposizione con una certa cultura liberista (o semplicemente antistatale), ma soprattutto con riferimento al ruolo che esso dovesse assumere nella protezione dei suoi giovanissimi cittadini, dove rimarcare il principio giuridico della tutela dei minori ed il “diritto” dello Stato di vegliare affinché non si commettessero abusi su di essi non era affatto un’enunciazione scontata (come testimonia l’espressione virgolettata, quasi che pronunciare la parola potesse configgesse troppo con concezioni giuridiche ancora premoderne).


In definitiva, potremmo parlare, nonostante tutto, di un lungo lavoro preparatorio che avrebbe potuto essere foriero della nascita di una legge civile e moderna. Ma non fu così, come si cercherà di argomentare. Va intanto premesso che il testo nasceva con la deliberata esclusione di una protezione normativa nei confronti delle donne, restando quindi circoscritto alla tutela del lavoro dei giovanissimi. Benché non pochi parlamentari avessero chiesto che le nuove disposizioni contemplassero anche il lavoro prestato dalle operaie, che erano numerosissime nelle manifatture di tutto il Paese.


Così argomentava Manfrin, nel difendere l’impostazione della legge: “ Fu osservato già, come la base giuridica della presente legge sia la tutela dei minori nella quale per diversi motivi dai nostri ordinamenti risultanti, lo Stato ha diritto di intervenire. Egli è pertanto consentaneo il provvedere perché sia regolato il lavoro dei fanciulli di entrambi i sessi, ma si uscirebbe dal concetto giuridico ogni volta si estendessero le disposizioni alle persone che sono sui juris, cioè alle donne maggiori di età”.


Sovviene l’eco di un dibattito promosso, all’indomani dell’Unificazione, dalla “Società d’Economia Politica” di Torino, dove il vario articolarsi delle posizioni sembrava peraltro prefigurare più promettenti sviluppi per il miglioramento della condizione femminile. Se Pascal Duprat esprimeva posizioni caratterizzate da una forte vocazione emancipatrice nei confronti delle donne, e sul tema del lavoro nelle manifatture non aveva dubbi sulla necessità di norme protettive: “[…] invoco l’intervento dello Stato per impedire lavori precoci delle ragazze e lavori troppo lunghi delle donne.

 

Così salvandosi e prolungandosi la loro vita, si gioverà ad esse ed alla società che ne ricaveranno una somma di lavoro maggiore e più proficua”, le pur moderate posizioni del senatore De Gori, che giudicava “improvvide” eventuali limitazioni nel lavoro delle donne imposte per legge, auspicava seri interventi volti a migliorare le condizioni lavorative, ed era lo Stato a doversene fare carico, “acciò la vita delle donne e dei fanciulli non venga logorata prima del tempo per difetto di condizioni igieniche nelle manifatture”.


Caddero quindi nel vuoto anche le istanze provenienti dalla società civile, come l’appello del “Comitato per la promulgazione di una legge sul lavoro dei fanciulli e della donna” (sorto per iniziativa di associazioni torinesi) che richiedeva, tra l’altro, la rapida introduzione di norme protettive nei confronti delle donne, come l’esclusione dal lavoro notturno anche per quelle che avessero già compiuto sedici anni e l’astensione obbligatoria da ogni attività durante le prime settimane dopo il parto.


Tornando ora all’iter della legge, la vaga prefigurazione di un futuro quadro normativo esteso anche al lavoro femminile sanciva, di fatto, già una grave limitazione all’intervento del legislatore. Nei suoi principi cardini, il testo varato l’11 febbraio 1886 con legge n.3657 (detta anche legge Berti, dal ministro proponente) prevedeva: il divieto di impiegare fanciulli di età inferiore a nove anni negli opifici, nelle cave e nelle miniere; la possibilità di impiegare fanciulli di età compresa tra nove e quindici anni a condizione che venisse loro rilasciato, preventivamente, un attestato di idoneità sanitaria per il lavoro cui erano destinati; nei lavori pericolosi ed insalubri non potevano essere impiegati fanciulli che non avessero compiuto quindici anni d’età, se non con i limiti e le cautele da determinarsi con apposito decreto, al quale si demandava anche l’individuazione e la classificazione delle attività rientranti in questa fattispecie; per i fanciulli non ancora dodicenni era inoltre previsto che la giornata di lavoro non potesse eccedere le otto ore;


infine erano stabilite le misure sanzionatorie per le violazioni alla presente legge, che andavano da un minimo di cinquanta a cento lire per ogni fanciullo indebitamente ammesso al lavoro.


Questi erano i punti cardine della legge, cui sarebbe seguito il regolamento d’esecuzione, come vedremo tra breve. Intanto è molto utile osservare come il profilo riformatore delle nuove disposizioni risultasse in più parti ridimensionato, in confronto al testo ministeriale elaborato sette anni prima.


In quest’ultimo (quello, per intenderci, che aveva animato, seppur criticamente, le speranze di un Alberto Errera) l’accesso al lavoro dei fanciulli di età compresa tra i nove ed i quindici anni presupponeva l’adempimento degli obblighi scolastici previsti dalla legge del 1877 (pur differendo a dopo i tre anni successivi all’introduzione dell’obbligatorietà dell’istruzione elementare l’effettiva applicabilità della norma).

 

Inoltre, era tassativamente vietato il lavoro notturno per i fanciulli che non avessero compiuto gli undici anni ed il lavoro festivo per gli operai che non avessero compiuto i quindici anni. Colpisce, in particolare, come nel testo varato alcuni anni più tardi nessuna di queste norme fosse più prevista, ed in particolare quella concernente le garanzie sull’adempimento degli obblighi scolastici. Va inoltre registrato che le sanzioni originariamente previste erano di gran lunga più pesanti di quelle poi determinate con la legge, potendo arrivare sino a 500 lire per ogni violazione commessa.


Infine, è bene anche osservare come, solo alcuni anni prima, la tutela delle donne lavoratrici avesse in qualche modo preoccupato il governo, che prevedeva, seppur ipocriticamente, l’interdizione al lavoro femminile nelle cave e nelle miniere nelle due settimane successive al parto (come se tale garanzia non dovesse estendersi anche al lavoro nelle manifatture tessili).


Eppure il testo approvato definiva una nuova prospettiva rispetto al campo di applicazione della legge, non più limitato alle sole manifatture che impiegassero oltre venti dipendenti. Il che configurava certamente un’innovazione rilevante, fatte salve, come vedremo, le ambiguità sfociate in seguito nel regolamento d’esecuzione.


Ma nonostante questa nuova premessa, il profilo già oggettivamente molto moderato del testo elaborato sette anni prima vedeva effettivamente attenuata la propria relativa incisività nella legge che fu infine varata. Anche perché i suoi esiti differivano pure da quella che era l’ultima proposta ministeriale, per l’effetto di compromessi in sede parlamentare destinati più a depotenziare alcune misure che non a valorizzarne la portata.


Infatti non erano irrilevanti i cambiamenti introdotti. Il primo – che contraddiceva palesemente gli intendimenti del ministro proponente (si veda sopra) - ripristinava a dieci anni ( e non più a nove) il limite per l’accesso al lavoro dei fanciulli, fatta eccezione per l’impiego nei lavori sotterranei, per i quali il limite restava di dieci anni. Fortemente attenuate, inoltre, erano le misure sanzionatorie nei confronti di chi violasse le nuove disposizioni. Ed infine va registrato il sostanziale ridimensionamento del ruolo del ministero dell’Agricoltura, Commercio e Industria, naturalmente preposto alla vigilanza sulla corretta osservanza della legge. Di sicuro, nella prospettiva di non “turbare” l’attività imprenditoriale, già da molti giudicata a rischio di una supposta invasività di norme e controlli statali.


L’unica novità migliorativa era rappresentata dal limite delle otto ore lavorative giornaliere per i minori di anni dodici. E non era in definitiva di poca importanza, quasi ad evidenziare anche una certa schizofrenia del legislatore.


Sono ineludibili l’esigenza di sottrarsi a qualsivoglia pregiudizio e la necessità di adeguare la propria sensibilità alla lettura di una realtà storica la cui complessità derivava anche dalla giovane età del nuovo Stato ed alla profonda eterogeneità del contesto sociale ed economico del Paese. Ma anche, come abbiamo già discusso nelle pagine precedenti, alla scarsa ricettività dell’opinione pubblica rispetto a quella che, fortunatamente, taluni già designavano come “questione sociale”.


Se scorriamo alcuni dei pareri emersi, durante gli anni che precedettero il varo della legge, nel contesto di soggetti ed istituzioni che – fuori dall’ambito strettamente politico – potevano vantare competenze od interessi in questo materia, vedremo formarsi un caleidoscopio di idee e proposte fatalmente molto diverse se non totalmente contrapposte.


Detto che, in linea generale, i più favorevoli al varo della legge erano prefetti, consigli provinciali sanitari e associazioni economiche, mentre dalla parte opposta troviamo influenti imprenditori come il senatore Rossi ed il barone Cantoni, nonché molti altri esponenti del mondo industriale e parecchie camere di commercio, si dipana ai nostri occhi un proliferare di idee e soluzioni talvolta anche bizzarre, ma anche con dei punti in comune, come vedremo.


Importante fu certamente il ruolo esercitato dai consigli sanitari provinciali nel sollecitare una riflessione sull’incongrua limitazione del campo di applicazione della legge alle industrie che impiegassero oltre venti dipendenti (come si ricorderà era prevista in una versione originaria e poi modificata nel testo finale, configurando così l’unica innovazione davvero rilevante).

 

Sull’altro versante, il barone Cantoni, titolare dell’omonimo celebre cotonificio, nel lamentare pure la prefigurazione del suddetto limite (lamentazione che peraltro ben difficilmente poteva non essere interessata, soprattutto nella prospettiva di quella che avrebbe considerato un oggettivo aiuto ai quei concorrenti che, seppur piccoli, sarebbero restati esclusi dall’applicazione delle norme) esprimeva comunque il proprio dissenso generale al progetto di legge. Da osservare alcune proposte delle società operarie e di mutuo soccorso, significative anche per le differenze che emergono dal loro confronto.


La società di mutuo soccorso degli operai di Biella, per esempio, proponeva di fissare il limite per l’accesso al lavoro a otto anni (meno di quanto previsto nel progetto di legge!). Il Circolo degli operai di Catania, dal canto suo, giungeva addirittura a preconizzare gravi effetti sociali dall’adozione di misure che avrebbero fatalmente impoverito le famiglie povere, nel momento in cui non avessero più potuto impiegare i propri piccoli nelle manifatture e nelle miniere. Ma poco distante dalla città etnea, il Circolo operaio di Acireale esprimeva invece il proprio assenso al progetto di legge.


La società operaia di Venezia paventava i rischi legati all’attuazione della riforma in una città in cui “ i ragazzi disoccupati e oziosi abbondano”. Di ben altro tenore le posizioni espresse dall’Associazione operaia di Andorno (curiosamente della stessa provincia biellese, ove emergeva la singolare proposta che abbiamo riportato sopra), secondo la quale l’esclusione dal lavoro avrebbe dovuto riguardare tutti i ragazzi con meno di dodici anni d’età; inoltre, per i minori di anni sedici, l’orario di lavoro si sarebbe dovuto limitare alla metà di quello ordinario degli adulti. Per finire, interdizione assoluta al lavoro notturno.


Interessante ed avanzata anche la proposta della Società operaia di Bologna, dove, tra l’altro, si chiedeva fosse garantita l’educazione intellettuale dei fanciulli e la frequenza delle scuole domenicali, ma pure l’esclusione dal lavoro notturno sino al compimento dei diciotto anni, invocando la presenza dell’ispettorato nelle fabbriche e nelle miniere. Basta forse questo spettro di opinioni per rappresentare l’eterogeneità delle posizioni in campo, ma che non sempre erano così distanti tra loro.


Che ci fossero società di mutuo soccorso ed associazioni operaie, le quali temevano i contraccolpi sociali provocati da una regolamentazione del lavoro dei fanciulli, allineate quindi alle posizioni prevalenti nel mondo industriale, configurava – sebbene da prospettive diverse - una comune sottovalutazione della grave questione sociale in atto nel Paese. Preoccupazioni di ben diverso segno, quindi: il timore diffuso nelle famiglie contadine – spesso ormai proletarizzate – di vedersi sottratta una quota di reddito; l’ansia dei capitani d’industria di perdere manodopera docile ed a basso costo.

 
Come spiegare, allora, le istanze riformatrici cui anelavano invece altri sodalizi operai? La coincidenza di opinioni – se ci basiamo sulla nostra fonte – in contesti regionali tra loro anche molto diversi, ed all’opposto le divergenze rinvenibili anche in realtà geografiche tra loro prossime, rende meno plausibile una spiegazione fondata sul differente livello di sviluppo socio-economico in atto nel Paese, che pure non può essere trascurato.


La realtà, com’è noto, è che le società di mutuo soccorso non configuravano affatto una seppur embrionale organizzazione di classe e forte era l’influenza dei partiti borghesi nell’indirizzarne l’azione. Le distinzioni che, restando al nostro campo, pure esistevano erano da ricondurre quindi più alla differente sensibilità dei vari potentati locali che non ad una ancora scarsa consapevolezza di classe. In altri termini, la già problematica formazione di un’opinione pubblica sul tema del lavoro di donne e fanciulli era fortemente condizionata dall’egemonia degli interessi del mondo della produzione, che si esercitava direttamente o attraverso i propri rappresentanti politici.

Il 17 settembre 1886 venne poi varato il regolamento di esecuzione della legge, destinato quindi ad assicurarne la concreta attuazione. Il primo aspetto da sottolineare discende direttamente dall’articolo 1, che testualmente riporta: “ E’ opificio industriale, agli effetti della legge 11 febbraio 1886, n.3657 (serie 3°), ogni luogo ove si compiano lavori manuali di natura industriale col mezzo di motore meccanico, qualunque sia il numero degli operai adibiti. Quando non si adoperi alcuna specialità di motori, è considerato opificio ogni luogo dove lavorino riuniti in modo permanente almeno dieci operai.”


L’eccezione, rispetto alla determinazione del numero di operai impiegati, laddove non soccorra alcuna “specialità di motori”, era fatalmente destinata a provocare gravi limitazioni al campo di applicazione delle nuove norme.


Infatti, erano destinate a restare escluse un variegato campo di botteghe ed attività artigiane nelle quali erano regolarmente impiegati fanciulli, il che produceva esiti finanche paradossali, ed in generale spingeva i manifattori a diminuire il proprio personale sotto la soglia che imponeva l’osservanza delle nuove norme. Inoltre, la nozione di opificio non comprendeva le attività condotte a domicilio, né quelle prestate negli istituti di educazione, dove era ricorrente il lavoro quotidiano da parte delle bambine.


L’ambiguità della norma era, in definitiva, l’esito infausto di un progetto politico sempre più depotenziato dai troppi compromessi, incapace sino di veder garantita una minima certezza del diritto per ispettori e magistrati che se ne sarebbero dovuti occupare, tanto le maglie larghe della legge ne consentivano l’evasione. Ma su questo torneremo, trattando specificamente della realtà lariana.


Tra gli altri aspetti sui quali soffermarsi in questa sede, sicuramente vanno registrati: la determinazione degli opifici pericolosi ed insalubri, ove l’impiego dei fanciulli sino ai quindici anni d’età era vietato; ed inoltre, una nuova eccezione normativa, la cui portata era destinata a svilire in gran parte il principio dell’interdizione dell’impiego notturno per i minori di anni dodici. Infatti, laddove venisse riconosciuta l’indispensabilità di garantire il processo continuo, le industrie avrebbero potuto impiegare anche questi giovanissimi operai, pur nel limite di turni di sei ore.


A questo proposito, il candore con il quale il Ministero riconosceva di fatto la superiorità degli interessi dell’industria – arbitrariamente assunti come paradigma dello stesso interesse nazionale – toglieva almeno un velo di ipocrisia ad una norma continuamente rivista, sino, come detto, a snaturarla largamente rispetto alla formulazione originaria.


Nella sua inchiesta, edita nel 1900, Gallavresi esprimeva un giudizio fortemente sconfortato, constatando amaramente che le nuove norme erano: “[…] per servili e ingiustificabili accondiscendenze, così pieni di indecisione, di mezzi termini, di eccezioni, che, nella pratica, pare invitino gli industriali stessi a tenerne poco conto ed a trasgredirli”. E in un celebre lavoro storiografico, comparso nel 1976, Stefano Merli giungeva a considerare la condizione del lavoro minorile e delle donne, nell’Italia unita, addirittura peggiore di quelle “riservatagli nella Venezia del sec. XIV o nella Lombardia austriaca del 1843”.


Sovvengono, in qualche modo, gli esiti di un’altra riforma, varata nello stesso torno di tempo, quella forestale, che pure non godette allora - né tantomeno gode nella storiografia odierna – di consensi da parte di studiosi ed osservatori.


La realtà è che, di fronte ad entrambe le riforme (anche se tecnicamente la legge sul lavoro dei fanciulli non dovrebbe assumere questa accezione, in considerazione della non assimilazione, da parte del nuovo Stato, del corpus normativo derivante dalle legislazioni pre unitarie – con la sola eccezione, com’è noto, delle norme sul lavoro dei girovaghi - ) era palese l’adesione ideologica, da parte della classe politica, al potere economico ed alla sua larga influenza nell’assunzioni di decisioni destinate ad intervenire nella sfera dell’iniziativa economica e dell’esercizio delle private proprietà.


Si osserverà che l’evoluzione dell’apparato produttivo del Paese non poteva non richiedere sacrifici e che in altri tempi sarebbero poi maturate le condizioni per un miglioramento delle condizioni di lavoro dei soggetti più deboli. Posto che, sul tema oggetto delle nostre riflessioni, tali sviluppi non sarebbero certo stati concessione gratuita dei capitani d’industria, a colpire è soprattutto l’inanità di un legislatore, la cui distanza dalle sofferenze del Paese reale, come diremmo oggi, appare lampante, proprio per la cecità di fronte a quella che si prefigurava come una vera e propria crisi generazionale, che infieriva sui cittadini più giovani e quindi sul futuro stesso del Paese.


Per questi ultimi si profilava un precoce processo di emancipazione – pur se con esiti differenti rispetto a quello già accennato a proposito delle donne – che avrebbe fatalmente intaccato consolidati equilibri familiari. Un processo che, di là dagli esiti di lungo periodo, riceveva il proprio battesimo attraverso l’abbruttimento psico-fisico provocato dalle penose condizioni di vita che l’industria in espansione imponeva.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A.Ravà, “Rivista della beneficenza pubblica e degli istituti di previdenza, volume,6, fasc.4, 1878
A.Errera, “Rivista della beneficenza pubblica e degli istituti di previdenza, volume 8, fasc.7, 1880
Rivista della beneficenza pubblica e delle istituzioni di previdenza, volume 12, fasc.4, 1884
Rivista della beneficenza pubblica e della istituzioni di previdenza, volume 14, fasc. I, 1886
S.Merli, “Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, Firenze, 1976
“Il Politecnico”, Milano, volume 27, fascicolo 114
Archivio di Stato di Como, f.do Camera Commercio, cart.n.361.
Annali dell’Industria e del Commercio”, Roma,1886.
E.Gallavresi, “Il lavoro delle donne e dei fanciulli”, Bergamo, 1900.



 

 

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